Il populismo in genere e quello di Salvini
Da alcuni anni, anzitutto dopo la sorprendente ascesa al trono di Trump, non c’è giorno in cui i media globali, anzitutto liberali e di rito politicamente corretto, non discettino sul “populismo”.

Abbiamo così visto il fior fiore dell’intellighènzia di regime cimentarsi sul tema, chiedersi cosa il populismo sia e dove vada a parare. La categoria di populismo è diventata così onnicomprensiva, unpassepartout per aprire porte ad ogni latitudine: populisti Trump e Sanders, Le Pen e Maduro, Orban e Corbyn, Putin e Erdogan, Mélenchon e Farage, Grillo e Salvini, Podemos e l’AFD tedesca, la Kirchner peronista e Bolsonaro. Fiumi di inchiostro, tanta fuffa, univoco il risultato: scomunica del populismo come fenomeno funesto, illiberale e totalitario.
Le sinistre transgeniche d’ogni razza e latitudine hanno accettato questa narrazione.  Chi a sinistra era stato colpito dall’anatema del populismo (Mélenchon, Corbyn o Iglesias) ha ben presto compiuto il rito dell’abiura rientrando nei ranghi del politicamente corretto.

LA MALEDIZIONE DI LACLAU


Minoritarie propaggini colte di questa sinistra hanno invece tentato di affrontare il fenomeno populista, andando alla sua genesi, alla sua polimorfica natura, alla sua fenomenologia.

Di qui la riscoperta delle riflessioni teoriche di Enesto Laclau e Chantal Mouffe.  Qui avveniva tuttavia un fatto deprecabile: il più radicale congedo dalla tradizione teorica marxiana era direttamente proporzionale al vacuo funambolismo teorico.
Laclau, soprattutto quello della “seconda fase”, porta una responsabilità enorme per questo smarrimento intellettualistico. Modo e rapporti di produzione relegati a “costrutti soggettivi”; le leggi antagonistiche del sistema capitalistico rifiutate come ipostasi metafisiche; il rifiuto di ogni teleologia e filosofia della storia sostituito dal “tutto contingente”; il determinismo sostituito dal più deciso indeterminismo; l’autonomia del Politico trasformata nella secessione del Politico dall’economico-sociale; il discorso di Gramsci sulla filosofia della praxis e sull’egemonia recuperato scaltramente per giustificare il più radicale empirismo. Abbiamo così avuto un risultato paradossale: la pretesa relativizzazione della verità rovesciata in una vera e propria ontologia del casuale. Il populismo, da fenomeno specifico e concreto, trasformato nell’unica luce per squarciare la notte della politica… per alla fine scoprire che le vacche erano tutte grigie.
Un caso recente di intrappolamento nella bolla intellettualistica del laclauismo c’è stato fornito dall’amico Diego Melegari — L’anatra-coniglio della nazione “a sinistra”. Il breve saggio, elagante fino ad essere barocco, è la plastica dimostrazione che non si esce dalla palude teoricista di Laclau senza sbarazzarsi dei suoi enunciati e della sua cattiva filosofia politica.

Prima essenziale considerazione: non esiste il populismo come categoria onnicomprensiva, cioè astratta dal contesto che lo partorisce, ci sono invece i populismi.

Conta dunque analizzare e capire i concreti fenomeni populisti. E siccome l’Italia è stato e resta il principale laboratorio politico dell’Occidente liberal-capitalistico, abbiamo proprio noi il prezioso vantaggio di avere un punto di osservazione privilegiato. Da questa “analisi concreta della situazione concreta” si può semmai tentare di individuare certe costanti e caratteristiche generali.

LO STRANO CASO DELLA LEGA NORD


Ci fu, subito dopo la seconda guerra mondiale e il crollo del fascismo, L’Uomo Qualunque di Giannini. Un caso da manuale di populismo, che tuttavia era destinato a dileguarsi presto, seppellito dalla radicale polarizzazione sinistra-destra, forma simbolico-politica della contrapposizione sociale e di classe —  a sua volta rafforzata dalla divisione del mondo in blocchi geopolitici contrapposti.

Potessimo estendere il caso italiano dovremmo dedurre una prima legge generale: il fenomeno populista non diviene mai di massa in condizioni di alta conflittualità di classe e di polarizzazione politica, tanto più ove il movimento operaio si articola in combattivi e potenti partiti e sindacati.

Ed infatti il populismo, nella forma della Lega Lombarda di Umberto Bossi, sorge negli anni ’80, come conseguenza (1) del disfacimento della formazione sociale fordista causata dall’avvento della finanziarizzazione neoliberista e (2) della conseguente decomposizione del movimento operaio italiano.

Ma la folgorante ascesa della Lega di Bossi nella regione più industrializzata d’Italia non sarebbe diventata fenomeno di massa senza tre grandissimi fattori storico-politici altrettanto correlati: (1) l’implosione dell’URSS, ovvero il più grande terremoto geopolitico del ‘900; (2) la selvaggia avanzata della globalizzazione con la relativa apertura del mercato interno italiano ai concorrenti esteri — spacciata come progressista e inarrestabile; (3) l’accelerazione (dopo Maastricht) del processo di costruzione dell’Unione europea che minava alle fondamenta la solidità dell’Italia come Stato-Nazione.

Ebbe cioè bisogno, l’ascesa del populismo bossiano, del combinato disposto di un disfacimento del tessuto sociale, di un terremoto geopolitico e, sul piano dell’immaginario collettivo, che si chiudesse un intero ciclo sociale, storico e politico. Per la precisione ebbe bisogno che tramontasse l’idea grandiosa di un’alternativa socialista di sistema. L’irruzione dell’inchiesta denominata “Mani pulite” o “tangentopoli” (prima metà degli anni ’90), il crollo della vecchia casta politica nazionale apparentemente causata dalla congenita corruzione sistemica, fornì alla Lega di Bossi un’ulteriore e formidabile arma per catalizzare il fortissimo malcontento sociale e morale, per dargli un nuovo orizzonte di senso.

Da quanto detto, e al netto delle peculiarità, si può ricavare la seconda legge generale che sottostà all’emersione del fenomeno populista: una crisi duplice che ha aperto un nuovo spazio politico: da una parte quella della destra storica dominante (il declino della sua egemonia politica) e, dall’altra, quella della sinistra che appariva come il suo avversario.

Occorreva però a Bossi un nuovo mito identitario e fondativo, ciò che avvenne issando la bandiera del secessionismo lombardo (infarcito addirittura di ancestrali quanto improbabili reminiscenze celtiche) giustificato da un sotto-mito, quello del produttivismo lavorista di rito ambrosiano. Un simbolismo che in nome della dell’ethnos e della prossimità territoriale come principale fattore di coesione comunitaria, serviva ad amalgamare i più diversi strati sociali (di qui una certa xenofobia); non solo piccola borghesia e proletariato ma pure la media borghesia. Bossi fu abile nel convogliare il rancore di chi si sentiva in basso contro chi stava in alto. Dove l’alto non era la potente borghesia liberista, di cui cercava in verità l’avallo, bensì la “casta politica romana”. Ma con la centralità di Roma era messa sotto accusa, come un artificiale costrutto ideologico, la stessa identità nazionale italiana. Al posto della nazione Italia “Lombardia nazione”.

Qui s’affaccia una terza legge generale che caratterizza il fenomeno populista: esso non può sorgere, tantomeno può sfondare, senza un proprio simbolismo identitario, senza un proprio mito fondativo (che sia di nuovo o vecchio conio), con cui pretende di presentarsi non solo al di là della destra e della sinistra, ma contro entrambi, ovvero riciclando idee dell’una e dell’altra.

E come storicamente ogni fenomeno che nasce e si sviluppa in Lombardia è destinato ad espandersi, anche i leghismo dilagò in tutto il Nord, anzitutto in Veneto. Dalla Lombardia nazione si passò presto alla “Padania nazione”, dalla Lega Lombarda alla Lega Nord.
Dietro all’antitalianismo simbolico degli anni ’90 c’era un fortissimo antistatalismo di segno liberista ma spiccatamente antifascista, con lo sguardo tutto rivolto alla nascente Unione europea a trazione tedesca.

Ma come la lunga storia italiana dimostra, dalla rivolta della antica Pataria in poi, tutto ciò che sorge a Milano punta a conquistare subito il potere a Roma. Bossi, liberatosi  dell’ideologo secessionista Gianfranco Miglio, dopo alcuni zig-zag, finisce per allearsi stabilmente con Berlusconi ovvero il vero collettore del vecchio ciarpame politico romano della Prima Repubblica ed ex-fascista. Come tutto ciò che giunge a Roma finisce per corrompersi e degenerare, anche la Lega Nord iniziò a decomporsi. Da movimento populista territoriale divenne presto un asse portante della “Seconda Repubblica”, una stampella di quello sciagurato regime che condurrà il Paese al disastro storico dell’euro. Esito che faceva premio al primigenio impulso anti-nazionale della Lega.

Siamo quindi a quella che potremmo chiamare la quarta legge generale che caratterizza il fenomeno populista: ove non riesca ad agguantare il potere sull’onda della sua ascesa esso è condannato, non solo a compiere repentini zig-zag ma ad essere incorporato dell’élite medesima come propria protesi politica.

Qui è necessario aprire due parentesi.

(1) Davanti all’irrompere della Lega né le sinistre maggioritarie né l’estrema sinistra  osarono sollevare, contro il secessionismo leghista, la bandiera patriottica  e democratica dell’unità nazionale. Avanzavano allora il cosmpolitismo catto-liberale e l’europeismo, l’idea che la nazione (“padana” o italiana) fosse un’anticaglia della storia, perciò condannata al trapasso. L’estrema sinistra, del tutto spiazzata, rispose al leghismo con la stessa musica, solo declinando il cosmpolitismo in un astratto internazionalismo  anticapitalista. Formazioni minoritarie (Voce Operaia tra queste), prigioniere del mito operaista —la stessa FIOM riconosceva che la maggioranza dei suoi iscritti nell’Italia del Nord votava per la Lega — tentarono il dialogo tattico con la Lega in funzione antisistemica, sulla base del paradigma che tutto ciò che minava il nemico principale, allora lo “stato imperialista italiano”, portava acqua al mulino della rivoluzione.
(2) Molto si è discettato se il miliardario milanese Berlusconi sia stato un populista. Ne aveva le fattezze ma non lo era per niente. Egli ha solo usato la maschera populista. Lungi dall’essere il risultato di una spinta sociale e popolare nuova, esso era un fenomeno cosmetico con cui il vecchio ciarpame politico dominante si andava riciclando. Un  camuffamento trasformista per nascondere ai cittadini quali fossero gli interessi reali che difendeva: potenti settori della borghesia italiana e della sua vecchia casta politica.

LA METEORA GRILLINA


Nel frattempo dilagava il rancore popolare verso il regime della “Seconda repubblica”, il disprezzo generale verso i suoi due pilastri del centro-destra e del centro-sinistra. Questa indignazione generale attendeva di essere raccolta. E venne raccolta infatti dal carismatico comico genovese Beppe Grillo, già notissimo e amato da molti per la sua verve polemica contro la casta dei malfattori politici di regime. Nella più classica delle metodologie populiste e non senza una potente copertura mediatica, il Vaffanculo Day dell’8 settembre 2007 ebbe un successo strepitoso. Due anni dopo l’Associazione “Amici di Beppe Grillo” si trasformò nel Movimento 5 Stelle. Iniziava così una marcia folgorante che sfocerà nel grande successo elettorale del febbraio 2013 — 25,55% dei voti, pari a 8,7 milioni di elettori. Fino al vero e proprio trionfo, dopo la terribile terapia austeritaria targata Mario Monti-Pd, nelle elezioni del 4 marzo 2018, quando il Movimento diventa di gran lunga il primo partito italiano superando il 32% dei consensi — primo partito tra i giovani,  gli operai ed i disoccupati.

Che populismo era quello grillino? Esso non si limitava alla lotta contro “la casta”, coniugava forti istanze democratiche e repubblicane a rivendicazioni di giustizia sociale, il rifiuto dell’austerità liberista e un ecologismo radicale con, infine, posizioni in politica estera di tipo pacifista ed anche antimperialista e una condanna aperta dell’euro. Il tutto però entro una ferrea cornice di legalitarismo di marca liberale che mai faceva appello alla mobilitazione diretta dei cittadini — quindi il mantra del partito liquido tutto imperniato sul web. Si trattava evidentemente di un “populismo di sinistra”. Questo dicemmo subito, sottolineando il suo aspetto progressivo e di rottura. Di contro le sinistre liberali e radicali, in ossequio alla fede politicamente corretta, rifiutarono ogni alleanza bollando anzi Grillo e il M5S come un movimento populista di destra, reazionario. D’altra parte una certa estrema sinistra, a dimostrazione di non aver capito un’acca del “momento populista”, frignava e denunciava lo “interclassismo” di Grillo, l’assenza di riferimenti “di classe”, non senza condannare come “fascista in sé e per sé” la leadership carismatica.

Esula da questo breve saggio, dato che l’oggetto è Salvini e la sua Lega, un’analisi approfondita del fenomeno del Grillismo e del Movimento 5 Stelle. Basti dire che l’uscita di scena del comico e la dipartita di Gianroberto Casaleggio, quindi il passaggio della direzione nelle mani del cerchio magico raccolto attorno a Luigi Di Maio, hanno corrisposto ad una svolta moderata, all’abbandono della radicalità originaria. Svolta accentuatasi con la formazione del governo capeggiato da Giuseppe Conte (1 giugno 2018). Un governo non solo giallo-verde ma con i segugi di Mattarella nei ministeri chiave. Arriviamo così al tracollo elettorale in occasione delle elezioni europee del maggio di quest’anno: milioni di voti persi verso il non voto e verso la Lega di Salvini (che balzerà dal 17% a oltre il 30%). La disfatta elettorale è stato il prezzo che il Movimento ha pagato per questa sua svolta moderata, per una campagna elettorale insipiente ed europeista, mentre, al contrario, Salvini radicalizzava i suoi messaggi, non solo su sicurezza e immigrazione ma anche verso l’Unione europea. Invece di correggere il tiro e di sfidare Salvini sul terreno che conta e su cui è più debole (liberismo o keynesismo sul piano delle misure economiche e sociali?), la conventicola di Di Maio ha scelto addirittura di votare come Presidente della Commissione europea la Von Der Leyen (16 luglio). Era la conferma, anzi la consacrazione solenne dell’ingresso del M5S nel campo eurocratico.

Non ci stupisce quindi che il Movimento — dopo l’improvvida e funesta mossa di Salvini di rovesciare il governo Conte per andare ad elezioni anticipate subito —, pur di evitare il voto, ha scelto di andare incontro ai desiderata dell’eurocrazia e dalla Confindustria, accettando di formare un governo assieme al Pd. E’ un’altra conferma del passaggio del M5S dal campo populista a quello liberaloide dei poteri forti.

Questo esito deplorevole ci consente di vedere oggi sotto la sua giusta luce quanto accadde dieci ani fa, nel luglio del 2009, quando Beppe Grillo chiese di tesserarsi al PD e quindi di candidarsi alle sue primarieper competere alla carica di segretario nazionale. Oggi Grillo fa appello a “fermare i barbari”, ovvero Salvini. Forse non è solo una mossa tattica disperata, forse è il segnale che il M5S si presta a conformare col Partito democratico e i liberali europeisti un vero e proprio blocco politico di potere come palingenesi del vecchio centro-sinistra, ridando così vita all’assetto sistemico bipolare, con Salvini a capo di un nuovo centro-destra.

IL PARRICIDIO


Ma torniamo a Matteo Salvini. Leghista della prima ora (dopo aver frequentato da giovanissimo, come del resto come Bossi e Maroni, l’estrema sinistra), consigliere comunale, poi direttore di Radio Padania Libera, quindi europarlamentare, è stato uno dei colonnelli di Bossi.

Dopo il penoso scandalo che travolgerà quest’ultimo e che aveva fatto schiantare la Lega Nord, i notabili nordisti della Lega sceglieranno lui per la rinascita del partito. Salvini farà molto di più, non solo compirà il miracolo della resurrezione ma porterà la nuova Lega a diventare primo partito nazionale. Per farlo ha dovuto compiere tuttavia il più grande dei sacrifici, il parricidio. Con una spettacolare operazione politica, dal corpaccione della Lega nordista farà sorgere la nuova Lega “nazionalista”.
Sotto i nostri occhi è avvenuto una specie di mistero eucaristico: la la carne e il sangue della vecchia Lega Nord diventati il vino e il pane della nuova Lega nazionale. Se prima era “Padania nazione” ora è “prima gli italiani” e “sovranità”. Da un piccolo ethnos ad uno ben più grande.
Salvini si spingerà molto più avanti, facendo della Lega una forza politica “no euro” allo scopo di occupare, e ci riuscirà scalzando l’M5S, l’amplissimo spazio politico euroscettico e no-euro, quindi raccattando qua e là come gregari intellettuali e militanti dell’area sovranista.

Il minestrone sovranista era poi condito con quattro ingredienti pesanti: la linea dura (ai limiti della xenofobia) sull’immigrazione, un sicuritarismo spinto, ovvero l’idea dello stato forte; il richiamo anti-berogliano ai valori del cattolicesimo conservatore, quindi, sul piano economico, una fortissima impronta al contempo, anti-austeritaria e liberista. Non avrebbe infine sfondato Salvini — dopo il successo elettorale del marzo 2018 (17% dei voti) quello delle europee di quest’anno (32%) con tanto di sfondamento nelle tradizionale roccaforti “rosse” e nel Mezzogiorno — se, nel momento in cui prendeva in mano la Lega, la crisi sistemica (organica avrebbe detto Gramsci), non avesse toccato il suo apice, gettando molti settori popolari nella disperazione, senza l’impoverimento della piccola borghesia, senza la distruzione di decine di migliaia di piccole e anche medie aziende. Senza dunque la tragica parentesi del governo Monti.

Qui abbiamo la quinta legge che contraddistingue il fenomeno populista: esso può imporsi sull’onda di una di crisi sistemica, e quindi indicando un comune nemico del popolo (senza questo nemico nessuna operazione di accorpamento avrebbe successo), nel nostro caso un blocco di nemici, ma tutti facenti capo ad una élite plutocratica mondialista che trama per umiliare il popolo italiano, per fare del Paese una colonia meticcia.

Dove sta, vi chiederete, il populismo. Sta anzitutto nel leader medesimo, nella maestria con cui Salvini ha saputo raccogliere e mettere assieme le più diverse e contraddittorie pulsioni sociali e ideali: da quelle democratiche a quelle alla sicurezza sbirresca, da quelle liberiste a quelle stataliste, da quelle improntate alla venerazione dei prodigi della tecnoscienza alle strizzate d’occhi ai freevax. Operazione sincretistica che non sarebbe riuscita senza il suo carisma personale. Egli ha raccolto non solo il testimone di Bossi ma pure quello di Beppe Grillo, che fu, come detto, il primo a riportare in auge il populismo, riuscendo a miscelare il diavolo con l’Acqua santa. L’uscita dalla ribalta di Grillo — col passaggio di consegne ad un gruppo di mezze tacche moderate raccolto attorno a Di Maio —, è stata indispensabile allo sfondamento di Salvini, gli ha aperto le porte del suo successo.

Possiamo quindi indicare la sesta legge del fenomeno populista. Non basta che il capo sia carismatico, il suo carisma deve essere accompagnato dalle qualità che contraddistinguono l’uomo politico di razza: non solo spregiudicatezza e astuzia, ma la capacità di offrirsi al popolo che sta sotto come colui che non solo lo ascolta, ma ne ricompone le disjecta membra, che ne fa un corpo organico con sé medesimo come cervello e guida.


V’è infine una settima legge che contraddistingue il fenomeno populista. Per affermarsi esso ha bisogno non solo della crisi della sinistra, non solo che questa sia passata con l’élite liberale. Il fatto è che con questo passaggio è avvenuto un fatto simbolico determinante: la sinistra ha preferito lo spazio immaginario del privato (con tanto di fuga in una dimensione morale e spirituale new age) a spese dello spazio pubblico, la difesa dei diritti civili di esigue minoranze a spese di quelli sociali di larghe masse pauperizzate. Questo spostamento non ha solo concimato il populismo, ha alimentato quello di destra, e qui ci spieghiamo la bandiera della sicurezza e dello stato forte. Una risposta politica reazionaria ad un domanda sociale legittima, quella di porre fine al caos, sociale e morale, della globalizzazione liberista.


IL DESTINO DI SALVINI


Ogni populismo ha tuttavia no uno ma diversi punti deboli, e tutti, non sembri un paradosso, stanno proprio nei suoi punti di forza.

Il primo punto debole: più è ampia e assortita la sua collezione di istanze sociali, più diventa debole la sua capacità di tenuta nel tempo. La possibilità di tenere assieme istanze contraddittorie dipende sì dalla perspicacia del capo carismatico, ma dipende anzitutto dalle circostanze sociali e politiche, endogene ed esogene, per loro natura mutevoli. Non parliamo solo di circostanze oggettive, economiche e sociali, ma pure politiche. Nel caso di specie di Salvini molte sono le istanze oppositive, ma la principale, quella esplosiva è che sotto la recente corteccia nazionalista sopravvive forte la pulsione nordista a sganciarsi dal resto del Paese per candidare dunque il lombardo-veneto a fare parte del club dei ricchi della Unione europea (ammesso e non concesso che questa campi ancora)

Il secondo punto debole: Salvini è un maestro nello stabilire una connessione emotiva col suo popolo. Per essere amato dai suoi seguaci ha accettato di apparire come una vera e propria bestia nera delle élite oligarchiche e dei poteri forti. Egli si è fatto prendere talmente la mano da questo entusiasmo popolare che di fatto ha trasformato la Lega, da partito solido in un ectoplasma in cui, sentita una ristretta cerchia di colonnelli, decide tutto lui. Così facendo ha sostanzialmente liquidato le strutture territoriali di partito, affidandosi a ras locali e trasformando i militanti in replicanti, chiudendo così i canali di trasmissione dal basso vero l’alto. In questa condizioni di quasi autismo politico, il leader maximo rischia di perdere il contatto con tutto ciò di reale che non sia il mondo degli osanna e dei peana, rischiando quindi di commettere errori tattici e politici gravissimi.

Il terzo punto debole: la psicologia conta, e molto nella lotta politica. Più un capo populista accresce il proprio consenso più rischia di essere ottenebrato dalle vertigini del successo, di montarsi la testa, di cadere infine vittima del delirio di onnipotenza. E ciò che pensiamo spieghi quello che rischia essere il più grave errore politico della sua carriera: la decisione di far cadere ex abrupto ed in un momento sbagliato il governo Conte, di cui di fatto deteneva la golden share. Ove Salvini non ottenesse le elezioni, questo si rivelerebbe un errore per lui fatale che potrebbe segnare l’inizio del suo declino.


Post scriptum

Per dare un giudizio definitivo sulla natura del “salvinismo” aiuta considerare la sua politica estera. Il suo filo-putinismo non deve trarre in inganno. Su tutte le zone dello scacchiere mondiale Salvini si è posizionato sul lato della barricata opposto alla Russia — lontani sono i tempi in cui la Lega di Bossi, nel 1999, si schierò a favore della Serbia nella sua guerra di autodifesa contro la NATO. Il nostro non ha solo ostentato la sua ammirazione per Trump, ha inneggiato apertamente, e non solo perché vittima di una viscerale islamofobia, ad Israele ed alla sua élite sionista, lanciando strali contro l’Iran. Nella crisi venezuelana si è quindi schierato col tentativo di golpe di Guaidò, mentre ha tessuto le lodi del brasiliano Bolsonaro. Questo spesso in contrasto con le posizioni dell’alleato di governo a 5 Stelle. Per quanto concerne il “sovranismo”, ovvero il giudizio sull’Unione europea, egli, stretto tra la frazione giorgettiana e nordista e quella cosiddetta “sovranista”, Salvini ha cercato di salvare capra e cavoli, rimodulando la posizione no-euro con uno smodato  “altreuropeismo”: “andiamo a Bruxelles per cambiare la Ue dall’interno”. Nel Parlamento europeo ha dato vita ad un gruppo con diverse formazioni nazionaliste di destra (Identità e Democrazia) ma senza l’osannato Orban, un’accozzaglia destinata ad avere vita breve.