NO alla riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità)
Uscire dall’euro

Il tema della riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità, ESM l’acronimo in inglese) tiene banco sui giornali di stamane. Meglio tardi che mai. Dopo settimane di appassionate discussioni su ciò che non conta (plastic tax, sugar tax e via taxando), un’occasione da cogliere per tornare a parlare di cose serie.

Ma in cosa consiste questo progetto di riforma? Chi scrive denunciò il trappolone franco-tedesco ai danni dell’Italia già nel giugno 2018. Adesso però, come si direbbe in Toscana, siamo alle porte coi sassi. E qualcuno comincia a svegliarsi. Non solo Lega e M5S, financo il solitamente strisciante Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Segno inequivocabile di quanto la materia sia scottante.

A dicembre Merkel e Macron vorrebbero infatti andare a segno, attribuendo al MES nuovi poteri nel decidere pesanti condizionalità per prestare soldi agli stati in difficoltà. Poteri e condizionalità semplicemente micidiali proprio per l’Italia, il giorno in cui il nostro Paese fosse costretto a farvi ricorso. Un’eventualità che certo non si può escludere finché, restando nella gabbia dell’euro, si sarà privi di quel fondamentale strumento che si chiama sovranità monetaria.

Per l’Italia una «pistola alla tempia»

Nella riforma voluta dall’asse Carolingio, al MES spetterebbero enormi poteri di vita e di morte sugli stati dell’Eurozona, in particolare su quelli strangolabili col cappio del debito. Caso tipico l’Italia. Il fatto che questi poteri vengano assegnati ad un organismo formalmente tecnico è il solito trucco utilizzato dai governi di Berlino e Parigi, nella speranza di far apparire come “terze” ed “imparziali” anche le decisioni politiche più dirimenti.

Il punto centrale della riforma di cui si discute sta nel fatto che, oltre a rispettare i dettami del fiscal compact, lo Stato richiedente aiuto debba ristrutturare (cioè tagliare) preventivamente il proprio debito per ottenere il finanziamento del MES. In questo modo non solo agli Stati dell’Eurozona verrebbe sottratto l’ultimo lembo di sovranità (e dunque di democrazia), ma essi si troverebbero di fatto alla mercé di un manipolo di tecnocrati.

Venendo all’Italia, chi scrive è assolutamente convinto del fatto che, prima o poi, una ristrutturazione del debito pubblico italiano andrà fatta, ma chi decide tempi e modi di questa delicata e complessa operazione? Una cosa è se a decidere è lo Stato italiano, altra se questa decisione viene imposta dall’esterno come adesso si pretende.

Che la cosa sia estremamente seria ce lo confermano proprio le parole di Visco, che il 15 novembre scorso ha dichiarato che: «i piccoli e incerti benefici di un meccanismo di ristrutturazione del debito devono essere soppesati rispetto all’enorme rischio che il solo annunciarlo potrebbe scatenare una spirale perversa di aspettative di default».

«Enorme rischio», una formula certo non abituale sulle labbra di un governatore. Un allarme in linea con quanto sostenuto pochi giorni prima, in occasione di un’audizione alla Camera, dall’economista Giampaolo Galli, (anch’egli, peraltro, un europeista convinto).

Queste le parole del Galli: «Una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di persone che hanno dato fiducia allo Stato comprando titoli del debito pubblico. Sarebbe un evento di gran lunga peggiore di ciò che l’Italia ha vissuto negli ultimi anni a causa dei fallimenti di alcune banche».

La riforma del MES sarebbe dunque una pistola alla tempia dell’Italia. Ma non solo per le perdite (ed il tradimento) dei risparmiatori di cui parla Galli, ma anche – aggiungiamo noi – per il dissesto bancario che ne seguirebbe. Notoriamente le banche italiane detengono titoli di stato per circa 350 miliardi di euro, titoli che in caso di ristrutturazione del debito potrebbero subire una pesante svalutazione, mettendo così in grave difficoltà il grosso degli istituti di credito. I quali, di fronte alla necessità di gigantesche ricapitalizzazioni, finirebbero facilmente nelle mani di qualche acquirente straniero, magari con la stessa targa automobilistica di quei paesi che oggi vogliono la riforma del MES!

L’attacco può essere fermato

Se la gravità del progetto anti-italiano è evidente, altrettanto chiara dovrebbe essere la necessità di respingerlo con un fermo e cubitale NO. Ma sarà così? Solo le prossime settimane ce lo diranno. Quel che sappiamo è che la trattativa è andata molto, ma molto avanti. E che, ad oggi, quel NO dell’Italia non c’è stato.

Non c’è stato col Conte-uno, non c’è stato col Conte-bis. Adesso, rispondendo alla Lega, il presidente del consiglio dice di non aver firmato nulla la scorsa estate. Certo, firme ancora no, ma evidentemente un avallo al progetto dei signori dell’euro è stato dato. E questo è di una gravità inaudita, un vero tradimento degli interessi nazionali. Ma se così stanno le cose, dov’erano i leghisti e i cinquestelle quando la Quinta Colonna mattarelliana del governo gialloverde (Conte e Tria in testa) pronunciava l’ennesimo signorsì davanti agli euro-oligarchi di Bruxelles?

Sta di fatto che la denuncia leghista del comportamento di Conte è avvenuta solo quando quest’ultimo stava convolando a nozze con Zingaretti, mentre i cinquestelle paiono svegliarsi solo adesso… Ad ogni modo, meglio tardi che mai, purché alle parole seguano i fatti. E qui di fatti ne basterebbe solo uno: un voto inequivocabile del parlamento che sancisca il NO italiano, con un veto chiaro e non trattabile al progetto sul MES.

Se in questo disgraziato Paese le parole avessero davvero un valore non ci sarebbero problemi. Tutta la destra si dice contraria alla riforma, idem M5s. Esiste dunque una larghissima maggioranza parlamentare in grado di bloccare tutto. Senza contare che a quel punto pure il Pd avrebbe qualche difficoltà a differenziarsi dal NO ai progetti dell’Eurozona. Ma solitamente non è così che funziona l’Italia.

Ecco infatti la tattica dilatoria di Conte, il quale magari a dicembre non potrà pronunciare un sì, ma di certo giocherà la carta del rinvio pur di non schierarsi contro chi – chissà perché… – ad agosto l’ha rivoluto a Palazzo Chigi.

La verità è che non bisogna illudersi. Giusto chiedere ai partiti che si sono schierati contro un atto di coerenza in parlamento, giusto esigere che il governo vi si adegui senza furbizie. Ma solo una più ampia e diffusa presa di coscienza nel Paese potrà portare ad un NO vero e non soggetto ai soliti scambi delle notti brussellesi.


La vicenda del MES ci dice una cosa: l’Italia non avrà pace finché non uscirà dall’euro

In questo momento la priorità assoluta è quella di fermare la riforma voluta da Merkel e Macron, ma la vicenda del MES ci parla anche di altre cose. Sostanzialmente di una cosa: l’Italia non avrà pace finché non uscirà dall’euro.

La riforma del MES non è infatti un fulmine a ciel sereno, né una stravaganza dei paesi nord-europei che ruotano attorno alla Germania. Essa è invece l’ennesima sbarra di una gabbia che ha la sua ragion d’essere nella difesa di una moneta unica che anche Lega ed M5s oggi dichiarano irreversibile.

Fortunatamente, nessuna sbarra è perfetta e nessuna gabbia è per sempre. Ma chiaro è quel che si vuole ottenere. A differenza dei nostrani euroinomani, i signori di Bruxelles sanno che gli Stati Uniti d’Europa non vedranno mai la luce. E sanno che una moneta senza Stato è pur sempre un bel problema. Tuttavia essi non ci vogliono rinunciare, troppi sono i vantaggi che ne ricavano. Ecco allora il sistema delle regole ordoliberali, per arrivare nel tempo ad una qualche forma di unione fiscale, alla base della quale c’è – e non potrebbe essere diversamente – una tendenziale convergenza dei debiti. E se questo esige il martirio di un paese poco importa. Se poi questo Paese è anche una preda piuttosto ghiotta da papparsi a basso prezzo meglio ancora.

NO dunque alla riforma del MES. Ma quel NO potrà reggere nel tempo solo se si prenderà l’unica strada sensata per porre fine al delirio di questi anni: quella dell’Italexit.