Sulle rivolte che scuotono gli Stati Uniti

Cari compagni, mi chiedete la mia opinione sulla natura e le caratteristiche del movimento I can’t breathe, le eventuali similitudini con quello del 2012 BlackLivesMatter e le differenze con quello del 2011 Occupy Wall Street. Mi ponete quindi la questione di quale potranno essere gli sviluppi e gli esiti dell’attuale rivolta.

Prima di rispondere alle vostre domande occorre una premessa.

Non dovreste confondere la questione razziale negli Usa con quella che voi europei chiamate questione dell’immigrazione. Anche qui siamo alle prese con il problema dell’immigrazione di massa, ma essa si sovrappone ad una divisione antica, alla segregazione della minoranza afro-americana, che ha una sua specifica dimensione, differenti e profonde radici storiche.

Una ferita profonda, quella della discriminazione razziale la quale, malgrado i mutamenti avvenuti, lì resta ed esercita un peso enorme sulle dinamiche sociali. Se escludiamo una minoranza integrata (che ha cioè un lavoro stabile, un reddito, può godere di alcuni diritti sociali e di cittadinanza) la maggioranza degli afro-americani rappresenta una vera e propria sotto-classe che sopravvive nella miseria, nella più brutale emarginazione sociale, in veri e propri ghetti putrescenti ai bordi delle grandi metropoli.

Non so se si possa parlare, marxianamente, di “sotto-proletariato”, ma il concetto ci va vicino. Si tratta di un magma composto da milioni di persone che per sopravvivere si arabattano e che, per necessità, alimentano il circuito dell’illegalità di massa.

Questa, badate bene, è solo una delle grandi differenze tra la nostra società e quelle europee. Ce ne sono ovviamente molte altre. Una di queste è che qui non c’è quello che si chiama “Stato di diritto” (dove il cittadino è giuridicamente protetto dagli abusi dell’autorità), qui da noi c’è quello che si chiama “Stato penale” (potre dire “Stato criminale”), uno Stato di polizia capillare, sistematico, che spesso agisce fuori dalla legalità e si accanisce appunto e in primo luogo contro la sotto-classe afro-americana.

Gli omicidi che ogni tanto fanno notizia, sono solo la punta di un iceberg della sistemtica brutalità delle polizie. E che governino i repubblicani o i democratici poco cambia: questo “Stato penale” è come una gigantesca macchina che funziona con i suoi automatismi, e che nessun Obama è riuscito a scalfire. Ci sono poi da considerare anche altri fenomeni, come il comunitarismo (la divisione e spesso ostilità tra le diverse minoranze linquistiche), il confessionalismo religioso.

Così può accadere che l’ennesimo deliberato assassinio della polizia scateni la rabbia sociale repressa, che ovviamente dilaga e mobilita anzitutto tra la minoranza afro-americana. E’ questo il caso dopo l’omicidio di George Floyd.

Lasciamo stare Occupay Wall Street del 2011. Quello era, dopo la grande crisi finanziaria, un movimento tutto politico, pacifico, che mobilitò prima di tutto le classi medie bianche e che non prese piede nelle comunità della sotto-classe afro-americana.

Una similitudine invece c’è con quanto accadde nel 2012 dopo l’assassinio di Trayvon Martin. Di lì si fece largo il movimento di massa che abbiamo conosciuto come BlackLivesMatter (BLM). I tumulti che seguirono vennero appunto capeggiati (e moderati) dal BLM, che era una federazione strutturata e pacifista di comitati per i diritti civili apertamente sostenuta da Obama a da alcuni settori liberal dell’establishment democratico.

Le attuali sommosse, la cui forza d’urto è in larga parte costituita dalle comunità afro-americane, sono del tutto spontanee e non hanno alcuna testa politica. Il signor Trump tenta di accreditare l’idea che esse siano frutto di una macchinazione ordita da frange anarchiche o di gruppi Antifa. Ovviamente è una balla. E’ vero che frange dell’estrema sinistra (composte principalmente di bianchi) stanno partecipando alla lotta, ma sono ben lontane dall’avere l’egemonia politica. E’ soprendente tuttavia come esse abbiano dilagato in quasi tutte le grandi città, poiché anzitutto li abbiamo enormi ghetti di periferia lasciati al degrado, e che siano riuscite a trascinare nel movimento vasti settori giovanili bianchi. La ragione è presto detta: è il risultato dell’impoverimento dei ceti medi venuto avanti dopo il crollo del 2007-2008 e che la cosiddetta “ripresa” non ha per niente invertito.

Se c’è un’analogia da stabilire questa è con la grande rivolta di Los Angeles della primavera del 1992, dopo la scandalosa assoluzione degli agenti che pestarono a sangue Rodney King. Ora i Liberal gridano allo scandalo poiché Trump invoca l’intervento dell’esercito per reprimere le sommosse. Non si deve dimenticare che la rivolta di allora venne schiacciata nel sangue (63 vittime e 2mila feriti,  12 mila arresti) proprio grazie all’intervento massiccio della Guardia nazionale, e i Liberal non alzarono un dito. La differenza, da allora, è che questa rivolta è estesa a tutto il Paese e che non si è fermata nemmeno davanti al coprifuoco, né davanti alle restrizioni anti-assembramento a motivo del contrasto al Corona virus.

E’ probabile che l’attuale rivolta sociale negli Stati Uniti finisca fra pochi giorni. Nel nostro Paese questi tumulti urbani si presentano come fenomeni a intermittenza, fiammate improvvise, più o meno violente.

Si tratta di scosse potenti che tuttavia non producono alcun sostanziale cambiamento: la condizione infernale della minoranze afroamericane resta la stessa, mentre dopo una pausa, le forze di polizia continuano con i loro soprusi e le pratiche omicidiarie.

Molte le ragioni di questa potenza-impotente, di questa incapacità delle rivolte di dare vita a movimenti politici che abbiano forza egemonica stabile. Sapete come la penso: manca una direzione rivoluzionaria che sappia dare una prospettiva strategica, che sappia indirizzare questa energia in una lotta di lungo periodo, affinché trascini, se non la maggioranza, i tanti che stanno nella parte bassa della scala sociale.

Qui il discorso ci porterebbe lontano e chiamerebbe in causa fattori storici e teorici. Di certo, come dicevo all’inizio, ha un peso enorme la questione razziale, la divisione tra bianchi e neri. A questa va aggiunto la compartimentazione della società americana, il comunitarismo che oppne le diverse comunità, il confessionalismo religioso. Non si vede come questo frazionamento possa essere superato.

C’è solo un fattore che potrebbe far sì che l’attuale rivolta non finisca fra pochi giorni. E’ il “fattore Trump”. Pur di farlo fuori il grande blocco capitalista che gli si oppone (non solo le multinazionali della Silicon Valley) potrebbero avere interesse a soffiare sul fuoco al fine di destabilizzare la presidenza e impedire la rielezione.

In effetti la lotta di frazione in seno al vertice del capitalismo americano è durissima e l’esito si è fatto più incerto che mai. E’, questa, una novità assoluta della situazione. Mai c’era stata negli Stati Uniti una simile spietata lotta intestina. Una divisione che attraversa non solo la cupola del regime, ma tutti i suoi segmenti, i diversi comparti statuali.

Trump è stato come chiuso in un angolo. Le grandi corporation mediatiche lo stanno massacrando e l’hanno chiuso in un angolo. Così Trump è stato costretto a giocare la carta del “Law and Order”, obbligato a gettare la maschera del “populismo” interclassista che l’ha portato alla vittoria, mentre il suo “patriottismo”, oltreché imperialistico, si rivela come un patriottismo ferocemente classista (ha chiamato i rivoltosi “feccia barbarica”). Trump si rivela per quel che effettivamente è, figlio legittimo del suprematismo WASP (White Anglo-Saxon Protestant).

Sarebbe sbagliato sottovalutare la forza del “trumpismo”. Essa non sta solo nel fatto che rappresenta interessi di alcune grandi e tradizionali frazioni del capitalismo americano. Egli incarna un ampio blocco sociale trasversale al quale ha dato coesione, senso di appartenenza. Il collante è un nazionalismo americanista che pare incompatibile con la visione progressista, cosmopolitica e mondialista del blocco capitalista a lui avverso.

Quale sarà l’esito della lotta in seno al grande capitalismo americano? Una cosa è sicura: non è una tempesta in un bicchiere d’acqua, non andrà a finire a baci e abbracci. Siamo seduti sopra un vulcano. Non dimenticate che l’evento più profondo che ha segnato in modo indelebile la storia gli Stati Uniti, non è stata la Guerra d’Indipendenza del XVIII secolo bensì la cruenta guerra civile di quello successivo. Tra le due armate c’è adesso solo una guerra a bassa intensità. Chi può escludere che si trasformi in guerra civile… E qui sta il dilemma per la sinistra rivoluzionaria americana: essere arruolata come truppa ausiliaria della grande borghesia Liberal? E se no, che fare?

Detroit, 2 giugno 2020

*traduzione a cura della Redazione di Sollevazione