Cosa muore e cosa vive in Afghanistan

Si è molto scritto sulla ritirata strategica delle truppe imperialiste d’occupazione e sul catastrofico collasso dell’esercito di ascari che gli stessi imperialisti avevano messo su nella speranza che esso sarebbe riuscito ad impedire quella che è, a tutti gli effetti, la piena vittoria della composita alleanza della resistenza afghana e di cui i nuovi talibani costituiscono la spina dorsale.

Si è scritto, e molto ancora si scriverà, sulla doppia umiliazione, politica e militare, di quella che, con squilli di tromba, s’era messa in marcia come la più temibile coalizione militare d’ogni tempo.

In verità c’è un aspetto di questa sconfitta di cui non si parla, che è ancor più significativo e pieno di implicazioni anche per noi che siamo prigionieri in quest’Occidente che dorato fu.

Cade, con la vittoria della resistenza afghana, un tabù, ciò che a ben vedere costituisce il sostrato ultimo, oso dire metafisico, che ha sospinto la coalizione a guida yankee: l’idea della superiorità dell’Occidente in quanto incarnazione di progresso e modernità, di qui l’insolente pretesa che tutto ciò che ad esso si oppone in nome della tradizione è condannato ad essere spazzato via come un’anticaglia, zavorra oscurantista. L’assioma è noto: il retrogrado è destinato a lasciare il posto all’evoluto, il sottosviluppato allo sviluppato. E se non bastassero le buone ed i tempi lunghi della storia, giustificate sono le cattive con cui certi legni storti vanno raddrizzati.

Il crollo di questa fede profana è tanto più fragoroso visti i tempi, i tempi in cui il capitalismo mondiale, dell’Ovest e dell’Est, promette un radioso futuro cibernetico dove tutto sarà affidato al calcolo infallibile dell’intelligenza artificiale. La tomba degli imperi non è solo un ossario di mercenari, è diventato il primo sepolcro dove l’anomalia seppelisce l’arroganza futurista. L’epicureo clinamen, la deviazione inattesa, si prende una rivincita sul fatalismo determinista.

Quella afghana è per l’Occidente come la freccia di Paride che colpì Achille nel suo tallone.

E’ una lezione, quella afghana, anzitutto per noi, per tutti noi qui in Occidente, noi che davanti al Leviatano ci sentiamo impotenti, disarmati, condannati alla sconfitta e alla segregazione. Gli afghani ci mostrano che il Leviatano non è infallibile, che la sua pretesa di addomesticare, narcotizzare e opprimere i popoli è destinata a naufragare a patto, e qui sta il punto, che noi si resti uomini, dotati non solo di ragione ma di volontà, indisponibili a sopravvivere da schiavi.

Nel millenario codice dei pasthun, oltre al Nyaw aw Badal (la vendetta contro chi ha fatto del male), c’è il Turah, il coraggio: un pasthun è tenuto a difendere con ogni mezzo la sua terra e la sua famiglia dai suoi nemici e deve sempre combattere con audacia contro la tirannia.

Avessimo anche solo la metà della fede, del coraggio e della tenacia dei guerrieri pashtun, la facessimo finita di piangersi addosso, decidessimo di pensare, lottare e organizzarci, daremmo un’altra direzione e un nuovo senso alla nostra storia.

E per concludere, ove tenessimo fede all’idea della storia come luogo di inveramento della libertà e della dignità, che c’è più progresso e modernità in un guerriero barbuto, in ciabatte e kalashnikov, che in mille mercenari occidentali educati a West Point e dotati dei più sofisticati dispositivi elettronici.

da sollevAzione