Domande (e tentativi di risposta) sugli sviluppi della guerra
Quali saranno gli sviluppi della guerra? Quali in Ucraina, quali in Medio Oriente? Queste ci paiono le domande fondamentali dell’oggi.
Mentre le mortifere società occidentali sonnecchiano, nubi di tempesta s’addensano all’orizzonte. Gli ottimisti pensano che tutto finirà con un temporale, i pessimisti con il diluvio universale. I primi giustificano la loro inerzia con il mantra del “non può succedere”, i secondi con l’argomento dell’impotenza. Entrambi hanno torto, dato che la prospettiva di una Terza Guerra Mondiale pienamente dispiegata è lì ad un passo, ma non è ancora inevitabile certezza.
Il torto degli ottimisti risiede nell’errore di una semplicistica equazione: poiché una guerra mondiale porterebbe all’uso illimitato dell’atomica, dunque al reciproco annientamento, nessuno sarà così folle da innescare la propria autodistruzione. Si tratta della riproposizione della teoria della mutua distruzione assicurata (Mutual Assured Destruction, da cui l’acronimo inglese MAD, cioè “pazzo”), in voga durante la Guerra Fredda.
Il torto dei pessimisti è invece quello di non vedere gli elementi di contraddizione presenti nel blocco della guerra, quello che al Cremlino chiamano “Occidente collettivo”. Questo blocco, che ha avviato il conflitto con l’espansione ad est della Nato, ha un centro (gli Usa), una potente e ramificata struttura militare (l’Alleanza atlantica, appunto) nonché una fondamentale costola politica nel Vecchio continente (l’Ue). Ma proprio questa sua ampia articolazione conduce a diverse problematicità, alcune delle quali verranno presto al pettine. Ed è su queste che chi si oppone alla guerra dovrà lavorare.
Non considerare queste contraddizioni sarebbe un gravissimo errore. Altrettanto grave non vedere che oggi la MAD nulla garantisce, sia perché il contesto è diverso, ma soprattutto perché proprio la guerra in Ucraina ha dimostrato come possa svilupparsi un conflitto devastante tra potenze nucleari senza per questo superare la soglia atomica.
Ma anche se questa soglia venisse sciaguratamente oltrepassata – uno scenario da incubo che certo non possiamo escludere – ciò non significherebbe di necessità la fine della vita sul pianeta, dunque (come si dice) l’assenza di “vincitori”. Non è solo a fini di deterrenza che si custodiscono enormi arsenali nucleari. E’ anche perché si pensa che, a certe condizioni ed in determinati contesti, l’arma atomica potrebbe essere usata. Da qui lo sviluppo delle bombe cosiddette “tattiche”, la cui esistenza viceversa non si spiegherebbe.
Fatte queste premesse, dovrebbe essere chiaro che interrogarsi sugli sviluppi della guerra non è un esercizio fine a sé stesso, bensì la base da cui partire per definire gli obiettivi politici di una concreta iniziativa a favore della pace. Un’iniziativa che possa quantomeno ostacolare – e se possibile arrestare – l’attuale folle corsa verso il baratro.
Torniamo dunque alla domanda iniziale: quali saranno gli sviluppi della guerra?
Un breve sguardo al Medio Oriente
Mentre scriviamo, la situazione in Medio Oriente appare come sospesa verso un futuro senza futuro. Chi ha le chiavi della guerra genocida a Gaza, cioè Israele, né la vuol chiudere né la sa chiudere. Non la vuol chiudere perché sarebbe l’ammissione della sconfitta, non la sa chiudere perché privo di ogni strategia al di là dello sterminio del popolo palestinese. Ma la logica dello sterminio è il marchio di fabbrica del sionismo, non certo una strategia politica. Tanto più che se i palestinesi resistono da almeno 76 anni alla pulizia etnica, non si vede il perché stavolta non dovrebbero farlo. Ed infatti lo stanno facendo. Detto en passant, una sonora smentita per quei complottisti che già ad ottobre immaginavano un esodo più o meno pianificato dei palestinesi verso l’Egitto.
Adesso l’obiettivo della furia genocida di Israele si chiama Rafah, la città della Striscia al confine con il Sinai egiziano. Oltre non potranno comunque andare. L’attacco terrestre a Rafah, annunciato da settimane, vorrebbe essere l’ennesimo atto presuntamente “definitivo”, la versione israeliana di quel concetto di “soluzione finale” che gli ebrei dovrebbero ben conoscere. In realtà (pur rifiutandola) la verità che anche gli israeliani percepiscono, è che – Rafah o non Rafah – Hamas e la Resistenza palestinese non potranno essere sconfitte.
Ma la guerra in Medio Oriente ci sta dicendo anche altre cose. Lo scambio di missili e droni tra Israele ed Iran, seguito agli innumerevoli attacchi israeliani contro le forze dell’asse della Resistenza in Libano, Iraq e Siria, e contro la stessa ambasciata iraniana a Damasco, è stata sì una grande simulazione, ma pur sempre la concreta simulazione di una guerra tra due delle tre principali potenze dell’area (l’altra è la Turchia). Un salto di qualità che sarebbe assurdo non cogliere.
In conclusione, se fare una previsione sugli sviluppi immediati è difficile, quel che è certo è che il Medio Oriente è destinato ad un futuro di polveriera ancor più esplosiva che nel passato.
Ucraina: lo snodo centrale
Il Medio Oriente è importante, ma in questo momento lo snodo principale della guerra è in Ucraina. Qui i nodi stanno venendo al pettine. E, come previsto, la questione centrale non è quella delle armi, bensì quella degli uomini. Un fatterello che ci dice molto anche sul mondo di domani: hai voglia di sviluppare ogni tecnologia anti-umana, inclusa l’intelligenza artificiale (abbondantemente utilizzata dall’esercito israeliano a Gaza), ma alla fine il ruolo dello strano bipede chiamato “uomo” resta decisivo.
Ma veniamo al dunque. Vista la situazione, per l’Ucraina (quindi per l’Occidente collettivo) le possibilità sono in teoria tre e soltanto tre.
La prima, del tutto irrealistica, consiste nel tentativo di ristabilire un equilibrio di forze con la Russia tramite le nuove forniture di armi. La seconda, assai problematica per ragioni fin troppo ovvie, prevede l’intervento diretto sul campo (con i famosi boots on the ground) di truppe occidentali. La terza possibilità si chiama resa sostanziale, sia pure edulcorata con le formule del caso.
Su queste tre possibilità, sul loro realismo, efficacia ed applicabilità, si stanno di certo interrogando tanto a Washington quanto nelle pur subalterne capitali europee, inclusa la strana capitale (guarda caso sede centrale sia dell’Ue che della Nato) chiamata Bruxelles.
Da questa specie di comando unificato dell’Occidente collettivo, la cui mente strategica risiede però a Washington, giungono solo parole di guerra, sia per l’oggi che per il domani. L’Occidente esclude la pace, perché esclude una qualsivoglia sconfitta. Del resto, perché stupirsi? Per quale motivo chi ha deciso il confronto strategico con la Russia, in vista di quello con la Cina, dovrebbe fermarsi di fronte alle prime difficoltà?
Quello che forse si poteva ipotizzare era, eventualmente, l’accettazione di un cessate il fuoco giusto per prendere tempo, per riorganizzare le forze e prepararsi ad un secondo round ben più devastante. Vista dalla parte delle forze occidentali una simile scelta tattica appariva oltremodo saggia, anche per impedire un vero tracollo dell’esercito ucraino con la conseguente perdita di nuovi territori. Invece, anche questa tregua, benché parziale e provvisoria, viene evitata come la peste dai caporioni occidentali.
Perché avviene questo? Mera incoscienza? Pura incapacità di cambiare i piani dopo essersi cacciati in un vicolo cieco? Difficile, francamente impossibile, che di questo si tratti. E’ vero, l’imperialismo può rivelarsi talvolta una tigre di carta, ma è sempre meglio non sottovalutare il nemico.
Se, pur consapevole delle grandi difficoltà sul campo – da ultimo quelle innescate dall’apertura del nuovo fronte a nord di Kharkov – l’Occidente rifiuta ogni tregua, è chiaro che si sta preparando ad una mossa assai pesante. Può esaurirsi questa mossa in nuove e più letali armi da mettere in mano agli uomini di Zelensky, oltre che agli specialisti dei paesi Nato già presenti da tempo in territorio ucraino? E, ove questa mossa si rivelasse (come prevedibile) del tutto insufficiente, quale sarebbe quella successiva?
La campagna russofobica prepara azioni “false flag”?
Di queste cose si discute nei luoghi che contano, al di là ed al di qua dell’Atlantico. Ne danno notizia, a loro modo, anche i giornaloni nostrani. Il 5 maggio scorso se ne è parlato diffusamente sulle prime tre pagine de la Repubblica. L’articolo più interessante – scritto a sei mani da Parigi, Berlino e Roma – ha un titolo che non lascia dubbi: «Kiev, si teme il tracollo e la Nato studia i piani per l’intervento diretto».
L’articolo, certamente ispirato da chi di dovere, si diffonde sulle cosiddette “linee rosse” che giustificherebbero l’intervento diretto – un ingresso in guerra della Bielorussia, un attacco russo ai baltici ecc. – ma il succo non è certo questo. Il fatto, lo si dice dopo poche righe, è che il timore del tracollo di Kiev è forte, ma una siffatta sconfitta non verrebbe mai accettata, neppure come situazione solo de facto, non riconosciuta de iure.
Repubblica, dopo aver ammesso che mille effettivi dell’Alleanza atlantica (di cui 500 polacchi) sono già operativi in Ucraina (una cifra che sicuramente ne nasconde una ben più consistente), informa che i 100mila uomini già schierati sul fianco est della Nato potrebbero essere raddoppiati in un mese, triplicati in sei. Ma qui si parla di un fronte lunghissimo che va dai Paesi Baltici alla Bulgaria. E in Ucraina? Su questo, che è il vero nodo, siamo per ora ai preliminari. Ma la mossa di Macron – aprire intanto un dibattito sull’invio delle truppe, per poi passare dalle parole ai fatti quando sarà il momento – non va presa sottogamba.
Più “rassicuranti”, almeno nelle intenzioni, le quattro paginate uscite sul Corriere della Sera il giorno dopo (6 maggio). L’articolo centrale – «Come difendere Kiev?» – si apre con un’affermazione netta: «No boots on the ground». Questa, secondo il Corriere, la linea della Nato contenuta nella bozza di documento in vista del vertice del 9-11 luglio. Alla base di questa linea di condotta la convinzione che le nuove armi possano bastare ad impedire lo sfondamento russo. Queste le parole di Blinken: «Non è troppo tardi, il nuovo pacchetto di aiuti americani consentirà all’Ucraina di reggere l’offensiva dei russi».
Che dire delle affermazioni di Blinken? Una speranza effettiva la sua, o una postura ufficiale che ha il solo scopo di prendere tempo in attesa delle elezioni presidenziali di novembre? Come direbbe il comico, “la seconda che hai detto”. Le armi possono solo prolungare l’agonia dell’esercito ucraino e nulla più. Su questo tutti gli esperti militari concordano.
Ancora qualche tempo e la discussione sull’invio delle truppe si farà prevedibilmente più stringente. Ma come convincere le società occidentali a compiere quel passo? Certo, un bell’attentato sotto falsa bandiera (false flag) potrebbe far comodo per giustificare quella scelta. Sarà un caso, ma il Corriere rilancia le veline di non meglio precisati “Servizi europei”, già citati dal Financial Times, secondo cui «il Cremlino prepara attacchi violenti alle infrastrutture» sul territorio dell’Unione Europea.
Un’accusa senza alcun riscontro, ma certamente utile ad approntare eventuali azioni “false flag” di cui incolpare la Russia, onde creare il classico casus belli. Prepariamoci dunque ad ogni tipo di scenario, denunciando fin d’ora le provocazioni anti-russe che si vanno organizzando.
Le contraddizioni dell’Occidente e quelle dell’Italia
Fin qui le direttrici, ancora un po’ confuse, della risposta occidentale al fallimento della strategia iniziale della guerra alla Russia. Quella, economicista assai, che prevedeva il crollo di Mosca sotto il peso delle sanzioni.
Naturalmente, i media occidentali non la possono dire tutta. Lo facessero, dovrebbero innanzitutto cospargersi il capo di cenere. Quando mai! Da qui il disperato tentativo di aggrapparsi ancora alla speranza (ed alla vita da sacrificare) dell’“ultimo ucraino”. Questo almeno pubblicamente. Ben diversi, possiamo scommetterci, i calcoli che si vanno facendo nei luoghi in cui si decide davvero. Dove si sa benissimo che si sta arrivando al momento decisivo, che per loro l’unica alternativa alla sconfitta è l’intervento diretto.
Sta qui la prima, e fondamentale, contraddizione: quella tra il mondo reale e la fantasiosa “realtà” che si è voluta far credere all’opinione pubblica occidentale. Il mondo reale presenta adesso una banale verità: se decidi la guerra, e la vuoi ovviamente vincere, devi essere pronto a combatterla fino in fondo, anche mandando i tuoi figli al fronte. Ma quanto sono pronte le società occidentali a questo doloroso passaggio?
Fortunatamente, esse non sono pronte affatto. Ed è su questo decisivo aspetto che si dovrà agire per buttare sabbia nell’ingranaggio della guerra e della sua propaganda, che presto potrebbe farsi ossessiva.
A questa contraddizione di fondo, tra le politiche di guerra dei governi e il desiderio di pace dei popoli, se ne aggiunge un’altra che riguarda in modo particolare l’Italia.
Fin dalla sua nascita, ed in piena continuità con Draghi, il governo Meloni ha scelto una linea ultra-atlantista, alla quale corrisponde inevitabilmente un profilo guerrafondaio tanto in Ucraina (vedi la firma del trattato con Zelensky), quanto in Medio Oriente (ultimo esempio la vergognosa opposizione al riconoscimento della Palestina all’Onu). A questo posizionamento irresponsabile, peraltro condiviso da buona parte della finta opposizione parlamentare, si oppone il sentimento maggioritario (ce lo dicono tutti sondaggi) degli italiani. Si tratta di un sentimento nettamente favorevole alla pace, all’interno del quale esiste una robusta componente che ben comprende le ragioni della Russia.
Conclusioni
Il contrasto tra “Paese reale” e “Paese legale” non potrebbe essere più netto. Di questo sono ben consapevoli anche nei palazzi della politica romana. Da qui il tentativo di barcamenarsi del governo Meloni, simboleggiato dal provvisorio no all’iniziativa bellicista di Macron.
Quanto reggerà quel “no” all’invio delle truppe non lo sappiamo, ed i precedenti storici non inducono certo all’ottimismo. Ma, poiché a breve sarà quello il vero tema all’ordine del giorno, è proprio su quel “no” che si giocherà la partita decisiva.
Come antimperialisti e sostenitori dei diritti dei popoli noi lottiamo per la pace, dunque per la sconfitta della Nato e quella di Israele. Questa lotta, che ha da essere generalizzata, ha le sue specificità nazionali. L’Italia ha tutto da perdere da una guerra con la Russia, e il grosso del popolo italiano non nutre sentimenti anti-russi. Ecco perché pensiamo che sia il momento di costruire, insieme a tutte le forze che si battono sinceramente per la pace, un forte movimento in grado di portare il nostro Paese fuori dalla tragedia della guerra.
Del resto, se non ora quando?
(13 maggio 2024)