
Domande e punti fermi ad un anno dal 7 ottobre
Un anno fa, a caldo, scrivemmo che la data del 7 ottobre sarebbe rimasta nella storia. Definimmo lo sfondamento del muro che recinge il lager di Gaza come il grido di libertà della Resistenza palestinese. Sapevamo pure che il significato e la natura di quell’eroica azione sarebbe stato infangato, distorto, infine rovesciato dalla narrazione nazi-sionista che pervade l’occidente.
Così scrivevamo, infatti, il 10 ottobre 2023:
«A Gaza, sabato scorso, un muro è stato abbattuto. È il muro che recinge da 16 anni il più grande campo di concentramento che la storia ricordi. Quello sfondamento è stata la vittoria di tutti coloro che amano la libertà delle persone e dei popoli. Ma quel coraggioso rilancio della lotta di liberazione è stato subito etichettato come “terrorismo”. Il linguaggio orwelliano si è imposto un’altra volta. Era inevitabile che così fosse nella nostra marcia società. Ma questa arroganza dei dominanti è pure il segno della loro straordinaria insicurezza. Hanno talmente paura del mondo così com’è, che lo raccontano a rovescio non solo agli altri ma pure a sé stessi».
Fu chiaro da subito che il 7 ottobre avrebbe segnato una svolta nella lotta di liberazione del popolo palestinese, così come non c’erano dubbi sull’estrema ferocia della reazione dell’occupante sionista.
In un anno di acqua ne è passata sotto i ponti, ed è giusto tentare un primo bilancio (sintetico e per punti) di quanto avvenuto, anche per provare a capire quel che ci aspetta.
- Israele stato criminale e genocida
In questi giorni i sionisti di tutto il mondo, gente disonesta e spudorata come tutti i razzisti che si rispettino, hanno cercato di venderci la storia di un 7 ottobre come riedizione dello sterminio nazista. Un rovesciamento della realtà che si commenta da solo. A Gaza, dopo un anno di bombe israeliane sganciate su case, scuole, ospedali, i morti accertati sono più di 42mila, i feriti circa 100mila. Diverse stime raddoppiano questi numeri, e questo senza aggiungere le vittime della fame e delle malattie. Ventimila i bambini morti (una cifra che fa impallidire quella della guerra in Ucraina), addirittura oltre 21mila quelli classificati come “dispersi”. C’è bisogno di aggiungere altro per capire da che parte stia la volontà genocida?
Chi conosce la storia sa che è così fin dal 1948, ma mai come questa volta il mondo intero si è trovato nelle condizioni di poter giudicare la realtà dei fatti. Il sionismo è costitutivamente genocida. Trattandosi di un colonialismo d’insediamento non può che perseguire con tutti mezzi la cacciata dei legittimi abitanti dei territori che intende occupare. Lo dimostra la Nakba di 76 anni fa, l’occupazione della Cisgiordania e di Gerusalemme, la politica degli insediamenti, la repressione continua, come pure la discriminatoria legislazione interna.
E’ questa la realtà con cui bisogna fare i conti. Le anime candide che immaginano soluzioni impossibili, come quella dei “due Stati”, fuggono da questo dato di fatto o per ignoranza (scusabile almeno in parte per le persone comuni), o per opportunismo (i pacifinti), o per inconfessabile ma sostanziale sostegno al genocidio in corso (le élite politiche, mediatiche e culturali dell’occidente).
- Netanyahu e (è?) Israele
Tra queste anime candide ci sono quelle della sinistra europea che ritengono che il problema nel campo israeliano sia solo Netanyahu. Recentemente, Massimo Cacciari ha detto che “Chi non comprende che la sciagura dei due popoli è di avere da una parte Netanyahu e da un’altra Hamas non ha capito niente”. Cacciari è sicuramente una persona intelligente, ma stavolta a non aver capito (meglio, a non aver voluto capire) niente è proprio lui. Se Hamas è la parte più importante, ma certo non l’unica, della Resistenza palestinese, che cosa rappresenta invece Netanyahu? Perché è ancora al potere? Perché ha vinto più volte le elezioni?
La divisione interna ad Israele è evidente, ma una buona metà della popolazione ancora lo sostiene, mentre una maggioranza ben più ampia approva le azioni di guerra in corso. Il suo governo si appoggia su un’estrema destra fondamentalista disposta a correre il rischio dell’Armageddon, rappresentante di una parte che vede ogni ipotesi di tregua come un cedimento inaccettabile. Del resto, se così non fosse come si spiegherebbe la scelta di far fallire ogni negoziato sullo scambio dei prigionieri? A Tel Aviv (lo si è visto a Gaza, ma pure il 7 ottobre con l’applicazione della “Direttiva Annibale”) preferiscono avere dei morti piuttosto che dei prigionieri vivi su cui trattare. Ecco un “particolare” su cui riflettere.
Certo, è vero che in un certo senso Netanyahu è prigioniero di forze ancor più oltranziste, ma queste forze rappresentano una parte (si pensi ai coloni) tutt’altro che trascurabile della popolazione. Dunque, almeno come rappresentante della natura e dell’anima profondamente violenta del sionismo, Netanyahu è Israele.
- L’incredibile resistenza di Gaza (e della Palestina)
Se la linea genocida scelta dal governo israeliano non stupisce, la cosa più importante di questo anno di lotta è stata l’incredibile resistenza di Gaza. Una resistenza apparentemente impossibile, ma che c’è stata e c’è tuttora. Certo, le organizzazioni della Resistenza hanno subito duri colpi, ma non si sono piegate. Hanno cercato una tregua, ma senza mollare i propri obiettivi. Hanno dimostrato una notevole capacità militare, ma pure una chiara visione politica.
Purtroppo, la strada della liberazione dei popoli è spesso lastricata di lutti e sofferenze indicibili. Quelle della popolazione palestinese sono sotto i nostri occhi. Ma ci sono molti precedenti nella storia, si pensi ad esempio all’Algeria. Qui, in 8 anni di lotta (1954-1962), morirono un milione e mezzo di algerini, contro le 30mila vittime dei francesi, un rapporto da 1 a 50 non molto diverso da quello attuale in Palestina. Stessa cosa in Vietnam, dove i morti furono circa 2 milioni contro le 58mila vittime americane. Sbagliarono gli algerini ed i vietnamiti ad affrontare quei conflitti? Avevano forse un’altra strada? Penso proprio di no.
Naturalmente, i numeri non sono tutto e la lotta attuale è particolarmente dura e sanguinosa, ma questa è la cruda realtà delle cose. Il sionismo non mollerà la preda, anzi cercherà in tutti i modi di espandersi, finché non subirà una decisiva sconfitta politica oltre che militare.
Da questo punto di vista, l’azione del 7 ottobre ha ottenuto fin qui quattro risultati. In primo luogo, ha rimesso al centro dell’attenzione mondiale la questione palestinese, che in tanti volevano far cadere nell’oblio. In secondo luogo, ha suscitato un’ondata di solidarietà planetaria senza precedenti verso questo popolo. In terzo luogo, essa ha prodotto un isolamento internazionale di Israele, mai visto in queste dimensioni (basti pensare alla sala semivuota in cui ha dovuto parlare Netanyahu all’Onu). In quarto luogo la Resistenza unisce, come dimostra l’accordo firmato a Pechino, il 22 luglio scorso, da ben 14 organizzazioni palestinesi.
- La Dichiarazione di Pechino e le prospettive della Resistenza
Pur essendo il fatto politico più importante nel campo palestinese, la rilevanza di questo accordo viene generalmente sottovalutata. Ma in realtà è questa la più sonora smentita ai disfattisti di ogni risma. Tra i 14 firmatari vi sono tutte le organizzazioni più rappresentative, tra queste Hamas, Fatah, Jihad Islamica, Fronte Popolare e Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. Nella dichiarazione di Pechino si afferma che i gruppi palestinesi “hanno concordato sul raggiungimento di un’unità nazionale completa che includa tutte le organizzazioni palestinesi nell’ambito dell’OLP, e sull’impegno per la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme come capitale”.
La dichiarazione ribadisce il diritto a resistere all’occupazione ed all’aggressione sionista, afferma il pieno sostegno all’eroica Resistenza del popolo palestinese, saluta con ammirazione i martiri di questa lotta, chiede di unire tutti gli sforzi per costringere l’entità sionista a ritirarsi da Gaza e da tutti i territori occupati.
Il punto decisivo dell’accordo è il seguente:
“Formazione di un governo di unità nazionale provvisorio con il consenso dei gruppi palestinesi e su decisione del Presidente, in base alla legge fondamentale palestinese, affinché il governo eserciti la sua autorità e i suoi poteri su tutti i territori palestinesi, confermando l’unità di Cisgiordania, Gerusalemme e Striscia di Gaza. Il governo deve iniziare a unificare tutte le istituzioni palestinesi nei territori dello stato palestinese e avviare la ricostruzione della Striscia di Gaza, preparando le elezioni generali sotto la supervisione della Commissione elettorale centrale il prima possibile secondo la legge elettorale in vigore”.
E’ stata proprio l’azione del 7 ottobre, insieme alla successiva resistenza di Gaza, a spingere verso questo accordo, base di una possibile unità nell’ambito di una nuova OLP. Dunque, il tentativo di isolare Hamas e le altre organizzazioni protagoniste del 7 ottobre è completamente fallito. Anzi, alla faccia di tutti i suoi detrattori, la dichiarazione di Pechino dimostra che la Resistenza non è solo la conseguenza dell’insopportabilità dell’oppressione, essa ha anche una mente ed un progetto politico.
- L’estensione del conflitto
Poiché l’entità sionista non ammette compromessi, ma la Resistenza non ha alcuna intenzione di mollare, il conflitto non poteva che estendersi. Oltre a Gaza, in questi dodici mesi Israele ha colpito in maniera pesante la Cisgiordania, la Siria, l’Iraq, l’Iran, lo Yemen e soprattutto il Libano. In un certo senso la guerra in corso ha già un carattere regionale. Quel che resta da capire è se essa sfocerà in una guerra regionale pienamente dispiegata, cioè con il pieno coinvolgimento dell’Iran.
Da giorni sono in atto violentissimi attacchi al Libano. La violazione dei confini e dell’integrità territoriale di questo Paese sembra non scandalizzare nessuno, almeno in occidente. Quello stesso occidente doppiopesista che continua a strillare invece per l’Ucraina. L’idea del governo sionista è chiara: colpire e distruggere ovunque le forze della Resistenza. Adesso è il turno di Hezbollah, mentre 12 mesi di bombe non hanno certo piegato Hamas a Gaza.
Hezbollah ha subito veri e propri attacchi terroristici, come quello compiuto con l’esplosione comandata da remoto di apparecchi cercapersone e walkie talkie, patendo poi la perdita dei suoi dirigenti più importanti, a partire dal carismatico Nasrallah. Perdite fondamentali, inutile girarci attorno. Ma questo significa che la Resistenza verrà cacciata dal Sud Libano? A giudicare dai primi scontri diretti sul terreno c’è da dubitarne. Hezbollah è ancora in grado di resistere, ed in Libano potrebbe riprodursi la situazione di Gaza, con un uso pesantissimo dell’aviazione da parte israeliana per sopperire alle evidenti difficoltà sul terreno. Di nuovo una strategia stragista, certamente destinata a fare molte vittime anche nel Paese dei Cedri, ma probabilmente non sufficiente per ottenere la cacciata di Hezbollah da quelle terre.
Chiara è anche la volontà di Netanyahu di allargare il conflitto all’Iran. L’idea è quella di approfittare delle evidenti difficoltà interne di questo paese. In primo luogo, quelle dovute ad una situazione economica pesantissima prodotta anche dalle sanzioni imposte dall’Occidente. Una crisi che sta alimentando una spaccatura politica che esiste da tempo a Teheran. Il governo israeliano, ben consapevole di questa situazione, ha deciso di varcare ogni teorica “linea rossa” per saggiare la capacità/volontà di reazione da parte dei dirigenti iraniani.
La lista di questa sfida prolungata è impressionante. Dal sanguinosissimo attentato di Kerman del 3 gennaio scorso, in occasione dell’anniversario dell’omicidio americano del generale Soleimani, al bombardamento dell’ambasciata a Damasco agli inizi di aprile, dai continui attacchi alle forze di Teheran in Libano, Siria ed Iraq, fino all’omicidio di Ismail Haniyeh avvenuto nella capitale iraniana il 31 luglio, Israele ha alzato di continuo l’asticella. Nell’intento di evitare il pieno coinvolgimento nella guerra, fino ad oggi le risposte di Teheran, sempre comunicate in largo anticipo, hanno avuto un significato prevalentemente simbolico. Quanto questo “gioco” potrà andare avanti è difficile dirlo.
- Gli occi-sionisti alla Terza Guerra Mondiale
Nella tragedia mediorientale, un ruolo decisivo ce l’ha il teatrino occidentale. Qualche giorno fa, alla domanda sul prossimo attacco di terra di Israele in Libano, Joe Biden ha risposto che “preferirebbe di no”. Preferirebbe di no? Ma pensa te! E chi arma Netanyahu se non la Casa Bianca? Chi gli ha dato le bombe di profondità per uccidere Nasrallah? Chi ha schierato le portaerei nel Mediterraneo e nel Golfo Persico? Costoro vorrebbero pure prenderci in giro. La favola di un’America che in qualche modo vorrebbe frenare Israele è ormai disvelata per quello che è: una balla gigantesca, pari solo all’inganno delle loro finte preoccupazioni per la pace.
Così come in Ucraina, anche in Medio Oriente è l’Occidente ad aver scelto la guerra. Certo, Netanyahu non è esattamente una marionetta al pari di Zelensky, ma senza l’appoggio americano Israele avrebbe già dovuto porre fine alla guerra. D’altra parte, in senso geopolitico Israele è Occidente, anzi lo è più di tanti paesi geograficamente collocati più ad ovest. Questa è la realtà dei fatti.
Il pieno controllo del sistema mediatico, ormai in mano ad una vera e propria cupola occi-sionista (propagandista tanto della presunta “superiorità” occidentale, quanto della bontà del sionismo), già ci dice molto. Ma ancor più di questo conta il ruolo di Israele nel quadro di una Terza Guerra Mondiale appena iniziata. Una guerra che prevedibilmente avrà almeno tre fronti principali: l’Europa, il Pacifico ed appunto il Medio Oriente.
Lo schema della Casa Bianca è fin troppo palese. Posta la centralità della Nato, ribadita la direzione strategica di Washington, diverso sarà l’impegno dei militari a stelle e strisce nei tre fronti di cui sopra. Ai paesi dell’Unione Europea il peso principale nella guerra alla Russia, ad Israele il pieno supporto per le sue scorrerie in Medio Oriente, alle forze armate americane il compito di far fronte alla Cina. Come tutti gli schemi, anche questo potrebbe saltare. Ma ad oggi è così che ragionano nei centri che pianificano la guerra negli Usa.
Ecco perché l’Occidente segue Israele, pur criticando talvolta gli “eccessi” di Netanyahu. La potenza militare israeliana è un tassello importante di un dispositivo di guerra ben più ampio. Ovvio che, in questo contesto, l’entità sionista persegua suoi specifici obiettivi nella regione, ma questi obiettivi stanno assieme ad un ruolo strategico che è parte della guerra scatenata dall’Occidente per mantenere la propria supremazia ed i propri privilegi.
- Israele sta vincendo?
Poiché non è questa la sede per un’analisi più generale, torniamo adesso al Medio Oriente. Israele sta davvero vincendo la guerra? La domanda è centrale e la risposta ha da essere secca. A modesto parere di chi scrive, la risposta è no. Nonostante le stragi, nonostante i terribili colpi portati alla Resistenza palestinese così come a quella libanese, nonostante il pieno appoggio dell’Occidente, in senso strategico Israele non sta vincendo la guerra. Poiché si tratta di un’affermazione impegnativa, cercherò di argomentarla sia pure in maniera sintetica.
Innanzitutto, che cos’è la vittoria per Israele (e dunque per i suoi protettori occidentali)? La risposta ci viene dal politologo francese Gilles Kepel sulle pagine del Corriere della Sera del 7 ottobre 2024.
Kepel sostiene trionfalmente che Israele sta vincendo, che l’asse della Resistenza è stato marginalizzato, che questo rinfocolerà le rivalità tra sciti e sunniti (divide et impera), che l’Iran in particolare sta perdendo, che il gruppo dirigente di quel Paese è profondamente diviso con i pasdaran alla ricerca di un “Gorbaciov iraniano”.
Tutte sciocchezze, quelle di Kepel? Assolutamente (e purtroppo) no. Nel suo trionfalismo c’è ovviamente del vero. Ma Kepel cade in un errore decisivo quanto marchiano, laddove confonde i suoi desideri con la realtà. Per lui, i successi sionisti del settembre 2024 sono paragonabili alla vittoria israeliana nella Guerra dei sei giorni del giugno 1967. Un’affermazione che ci sembra del tutto fuori luogo.
Nel 1967 la guerra durò appunto 6 giorni. Stavolta è in corso da più di un anno e non se ne vede la fine. Nel 1967 Israele occupò fulmineamente nuovi territori: Cisgiordania, Gerusalemme, Gaza, il Sinai e le alture del Golan. Stavolta occupa ma non controlla Gaza, mentre in Libano è tutta da giocarsi. Nel 1967 Israele uscì dal conflitto con l’immagine, certo falsa ma ugualmente efficace, del piccolo Davide che aveva sconfitto la coalizione di un “grande” (quanto inesistente) Golia arabo. Stavolta, l’immagine di Israele nel mondo è ai minimi storici. Non solo. Nel 1967 ancora si poteva pensare all’annichilimento definitivo della resistenza palestinese. Oggi no.
Le differenze sono davvero tante, ed alla fine dell’intervista lo stesso Kepel (che pure quelle differenze non vuol vedere) appare assai meno sicuro di quanto detto all’inizio. “La vittoria tattica israeliana deve diventare strategica: occorre pensare alla pace”, queste le sue parole. Per la verità banali assai. Ovviamente, per lui la “pace” avrebbe da essere quella imposta da Israele. Dunque, cancellazione di ogni resistenza con la nascita di un finto stato palestinese addomesticato e sottomesso, modello riserva indiana; umiliazione dell’Iran e rinuncia alle sue velleità regionali; accordo strategico tra l’entità sionista e i paesi sunniti, a partire dall’Arabia Saudita.
Che questi siano gli obiettivi di Netanyahu nessun dubbio. Che la loro realizzazione sia vicina proprio non lo crediamo. Israele ha la forza militare per imporre ancora enormi sofferenze al popolo palestinese e a chiunque ostacoli i suoi piani espansionisti, ma non ha – né l’avrà in futuro – la forza politica per poter realizzare il suo progetto.
Non potendo chiudere lo spazio temporale tra quel disegno e la sua concreta realizzazione, Israele lo riempie con l’unica cosa che sa veramente fare: la guerra e le stragi, con una strategia ispirata all’idea di un’impossibile “soluzione finale”. Una “soluzione” fortunatamente non praticabile, come si è visto a Gaza. Lì qualcuno pensava che alla fine quella “soluzione” sarebbe stata la cacciata (presumibilmente verso il Sinai) di due milioni di palestinesi. Ipotesi non realizzabile né nella Striscia né altrove.
Come finirà la guerra in corso nessuno lo sa. Forse si chiuderà ponendo le basi di nuovi conflitti. E questa non sarebbe di certo una novità. Ma anche se si chiudesse con la sconfitta più dura, la Resistenza palestinese (intesa in senso ampio, includendo dunque anche le forze che la supportano nel mondo arabo) non morirà. Di questo possiamo essere ragionevolmente certi. Israele potrà ottenere al massimo una vittoria tattica e temporanea; mentre quella strategica che vorrebbe Kepel, proprio per la natura suprematista e razzista del sionismo, si rivelerà una volta di più impossibile. Stavolta più impossibile che mai.
(10 ottobre 2024)