La fiera delle illusioni

Fine anno un po’ insolita. Altro che feste natalizie, qui siamo ormai alla fiera dell’irrealtà. Volessimo prendere sul serio i giornali, finiremmo per non capirci più nulla. Ma stavolta la colpa non è solo del circo mediatico. E’ che un’intera società vive ormai di illusioni e fantasie. Il che non sposta di un millimetro la realtà, ma la cela, la confonde, la inquina fino a renderla inintelligibile.

Il fenomeno è generalizzato, rilevabile e sempre più manifesto in ogni ambito della vita sociale. Ma c’è un caso che dovrebbe esser visibile anche ai ciechi: la guerra d’Ucraina.

Qui siamo di fronte al tentativo, maldestro quanto ossessivo, di mettere il carro davanti ai buoi. Senza dire come provare a fare la pace, si discute di come gestire il “dopoguerra”. E lo si fa a senso unico. Autisticamente, parlando solo con e per sé stessi. Un lusso che, al massimo, possono concedersi i vincitori quando sono davvero tali. Questa volta, però, l’Occidente non si troverà da quella parte del tavolo…

Da quel che si dice i governanti europei starebbero dibattendo su quanti soldati mandare in Ucraina. Ma a differenza della primavera scorsa, quando Macron aprì la discussione sull’invio delle truppe per combattere a fianco di Zelensky, adesso il tema è quello dell’invio dei cosiddetti “peacekeeper”. Quanti non si sa, ma le cifre vanno da 50 a 200mila. Ed è su quest’ultima cifra che insistono i più.

O perbacco! “Peacekeeper”? Duecentomila? E quando mai sarebbe scoppiata la pace in Ucraina? E, soprattutto, perché mai la Russia dovrebbe accettare che una eventuale “forza di pace” risultasse composta esclusivamente da soldati di paesi Nato?

Tutte queste domande non hanno ovviamente risposta alcuna. Siamo appunto nei tempi dell’irrealtà. Tuttavia, anche questo esercizio di fantasia dei caporioni occidentali molto ci dice sulle loro reali intenzioni presenti e future.

La realtà è che sul campo le cose si mettono male per l’Ucraina, dunque per la Nato e per l’“Occidente collettivo” (copyright Putin). Male non vuol dire che la Russia non abbia problemi. Ce li ha eccome, ma la Nato ne ha di più. L’avanzata russa nel Donbass resta lenta, ma più veloce del passato. Idem il recupero della regione di Kursk. Il punto davvero decisivo è uno solo: per cambiare l’inerzia della guerra la Nato dovrebbe inviare un contingente di una certa consistenza in prima linea. I contractors e gli specialisti mascherati come “volontari” non bastano più. Idem i missili Atacms e similari. Il continuo invio di armi, pur se micidiali, rinvia ma non risolve la questione delle truppe. Il fatto è che i paesi Nato non sono ancora pronti a quella scelta. Perlomeno non nella misura necessaria.

Sono questi nuovi rapporti di forza a spingere ora l’Occidente verso una tregua. Ma – questa è la cosa fondamentale – una tregua non è la pace. La pace abbisogna di un Trattato, dunque di un riconoscimento de iure, non solo de facto, della nuova realtà. Ecco perché la Russia vuole la pace, l’Occidente solo una tregua.

Va da sé che ognuno difende i suoi interessi, così come è evidente che un Trattato sarà sempre figlio di un qualche compromesso. Ma la tregua desiderata dagli occidentali, e in qualche modo preannunciata da Trump, sarebbe solo un modo per prendere tempo, riorganizzare le forze, prepararsi al prossimo round. Passasse questa ipotesi ci troveremmo di fronte ad una sorta di Minsk III (leggi QUI), un tranello in cui certo la Russia non cadrà.

Mieli e Folli: due editoriali di guerra

Ma torniamo all’attuale sagra dell’irrealtà. Nei giorni scorsi, due editoriali di Paolo Mieli (Corriere della Sera del 19 dicembre) e Stefano Folli (la Repubblica del 20 dicembre), ci hanno fornito ragionamenti assai utili a capire cosa stiano immaginando i governi occidentali e i loro ben pagati propagandisti.

L’abbrivio del Mieli è più realista. Vede come imminente la capitolazione dell’Ucraina e si preoccupa di difendere intanto le scelte fatte fin qui. Lo fa con ampio ricorso alla solita retorica occidentale, addirittura paragonando Vladimir Putin a Francisco Franco. Sbrigata questa incombenza, il Mieli va però al sodo. La risposta alla prevedibile débacle ha da essere la costruzione del mitico esercito europeo. E l’occasione per questo storico passaggio verrebbe appunto dalla necessità di «Costituire un contingente di duecentomila effettivi da impegnare in Ucraina. Non adesso, ma a guerra finita per garantire la sopravvivenza di quel che resterà del martoriato Paese».

Mieli spiega che quei soldati non andrebbero a fare un «prolungato picnic» lungo la nuova frontiera, dato che «sarebbe chiaro fin dagli impegni di protocollo che l’eventualità di essere risucchiati in un’ulteriore fase del conflitto sarebbe tutt’altro che remota». Insomma, quei soldati che non si riesce a mandare oggi in nome della guerra, li si mandino al più presto in nome della “pace”, affinché siano già pronti a combattere nel prossimo conflitto.

L’editoriale del Folli è decisamente più secco. A suo avviso non ci sarà, né dovrà esserci, alcuna resa di Kiev. Nessuna rinuncia al Donbass e addirittura alla Crimea. Tuttavia, anche il folle Folli ammette con Zelensky che quei territori non potranno essere recuperati militarmente nell’immediato. Da qui la necessità delle «garanzie che gli alleati occidentali daranno a Kiev per evitare che la ripresa delle ostilità da parte russa fagociti quel che resta dell’Ucraina».

A questo punto, l’editorialista de la Repubblica completa la sua convergenza con le conclusioni di quello del Corsera: «L’armistizio, se ci sarà, segnerà l’avvio di una infinita tregua in armi, priva in sostanza di vincitori e vinti. Tale armistizio dovrà essere tutelato da uno schieramento militare europeo».

Da notare come tanto il Mieli quanto il Folli diano per scontata l’aggressività russa. Putin, a loro avviso, non avrebbe gli obiettivi mille volte dichiarati (annessione dei territori russofoni, neutralità dell’Ucraina e “denazificazione” della stessa), ma sarebbe mosso da un’irrefrenabile spinta espansionista, in potenza estendibile fino a Lisbona. Una narrazione che non sta letteralmente in piedi: in primo luogo, perché la Russia non ha certo queste intenzioni; in secondo luogo, perché anche ove le avesse non ne avrebbe comunque i mezzi.

Questa disonestà intellettuale dei due editorialisti, che non possono non sapere ciò che tutti sanno, ha ovviamente un suo perché. Entrambi sono infatti preoccupati di una cosa: la resistenza delle società occidentali, dunque di riflesso degli stessi sistemi politici, ad un così pieno coinvolgimento nella guerra. E’ questo il loro vero cruccio, l’ostacolo che ancora non riescono a superare.

Conclusioni

Ci siamo occupati di questi due editoriali non per rilevarne le evidenti debolezze e contraddizioni, praticando così uno sport fin troppo facile. Essi sono invece interessanti perché confermano la nostra tesi di fondo: la guerra, che potrà terminare solo con un nuovo equilibrio globale, non va verso la sua fine, dato che l’eventuale tregua in armi immaginata da Trump, dagli europei e dalla Nato servirebbe solo a preparare i successivi sviluppi militari. E proprio per questo verrà di certo respinta da Mosca.

I ragionamenti di Mieli e Folli incrociano non a caso il succo degli accordi già sottoscritti da diversi paesi Nato con l’Ucraina. Prendiamo, ad esempio, l’“Accordo di cooperazione tra Italia ed Ucraina”, firmato a Kiev da Zelensky e Meloni il 24 febbraio scorso. In quell’Accordo, ampiamente sottovalutato dai più, c’è un po’ di tutto, ma rivelatore è l’articolo 11, di cui riportiamo i primi due commi.

«1. In caso di futuro attacco armato russo contro l’Ucraina, su richiesta di uno dei partecipanti, questi ultimi si consultano entro 24 ore per determinare le misure successive necessarie per contrastare o scoraggiare l’aggressione.

  1. L’Italia afferma che in tali circostanze, agendo nell’ambito dei propri mezzi e delle proprie capacità e in conformità ai propri requisiti legali e costituzionali e alle norme e al diritto internazionale e dell’Unione Europea, fornirà all’Ucraina, a seconda dei casi, un sostegno rapido e sostenuto nel campo della sicurezza e della difesa, dell’industria della difesa, dello sviluppo delle capacità militari e dell’assistenza economica».

Come si vede, la coincidenza tra l’accordo di Kiev (replicato nella sostanza da altri paesi europei) ed il discorso dei due editorialisti è impressionante. In entrambi i casi tutto si incentra su una guerra futura, ovviamente addebitata in maniera preventiva alla Russia, ma evidentemente pensata nei think tank e nei palazzi del potere dell’Occidente collettivo.

La guerra non va dunque verso la sua fine. Essa va piuttosto incontro ad un suo snodo decisivo. La differenza è abissale.

Addendum su Trump

Capisco che queste conclusioni collidano con le convinzioni di certi trumpiani di casa nostra. E capisco anche che contro la “fede” ben poco possa la ragione. Chi vivrà vedrà. Per chi fosse interessato, ho già detto quel che penso subito dopo le elezioni americane. In quell’articolo ho scritto che «Trump non solo non metterà fine alla Guerra Grande (copyright Limes), ma finirà probabilmente per aggiungere nuova benzina all’incendio in corso». Un’affermazione che avrà fatto storcere il naso a molti. Dedico perciò a costoro le noterelle che seguono.

Giusto per sottolinearne l’impostazione “pacifista”, mi limito a ricordare alcune cosette dette dal prossimo inquilino della Casa Bianca in questi giorni natalizi. Primo, gli Stati Uniti sono pronti a riprendersi Panama ed il suo canale (un replay dell’invasione del 1989?). Secondo, sarebbe bene colorare a stelle e strisce pure la Groenlandia (che l’isola sia già un possedimento di un paese Nato come la Danimarca non gli basta, che lì vi siano già basi USA nemmeno). Terzo, anche il cagnolino canadese deve darsi una regolata (d’accordo, a Trudeau gli sta pure bene, ma…). Quarto, il 2% da raggiungere per le spese militari non basta più e bisognerà arrivare al 5% (e già gli ottimisti ci spiegano che essendo il Trump un’immobiliarista sta solo trattando sul prezzo: alla fine, vedrete, si accontenterà di un 3,5%…).

Ora, cari miei, qui bisogna decidersi. O Trump è un ciarlatano, e dunque non si capisce perché sarebbe credibile come presidente capace di porre fine alla guerra d’Ucraina; o è un tipo serio, e allora non si capisce perché non dovremmo prendere sul serio le sue parole. Fate voi…