
«Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini». [Guy Debord]
Ci eravamo lasciati, alla fine della scorsa estate, con l’operazione ucraina a Kursk. Tanto è cambiato e tanto è rimasto uguale nel frattempo, ma ne parleremo prossimamente. Quello che mi preme è, invece, segnalare un caso diverso di questa ibrida guerra.
Andrei Grigoriev
Andrei Grigoriev, il soldato della Federazione Russa di nazionalità yakuta immortalato in un video mentre combatteva con un soldato ucraino in un feroce corpo a corpo, è stato premiato dal presidente Putin con il titolo di Eroe della Russia due giorni fa. Il video, di cui lascio solo il link per chi avesse voglia di vederlo, è molto brutale e lungo: 7 minuti di lotta all’ultimo sangue immortalati dalla dash cam del soldato ucraino. Un’altra visuale, di un drone di sorveglianza, immortala la scena dall’alto, meglio dire le ultime fasi della colluttazione, la quale termina con la supplica del soldato di Kiev di una morte tranquilla. Accontentato, sarà finito in maniera indolore dal soldato russo, dopo un paradossale ma quanto mai sconvolgente riconoscimento, l’un l’altro, della bravura nel combattimento.
Sappiamo che questa è una guerra strana, non nei termini della sua brutalità, quanto per come presenti una commistione di futuristico ed ancestrale, di oltre l’umano e dentro l’umano. La guerra, come la violenza, è una componente ineliminabile dalla storia dell’uomo e dalla natura di quest’ultimo. Droni e uomini, tecnologia e animalità, estenuante guerra di trincea e guerra di movimento, sono forse l’aspetto più esteriore di un’immagine che questa guerra ci consegna. Essa ci rimette in contatto con una parte di noi alla quale, forse, non eravamo più abituati qui in Occidente (salvo drammatiche eccezioni, come la Yugoslavia) ma che avevamo fatto sì, invece, rimanesse molto vivida presso altri popoli, i quali sono stati abituati a vedersela con i nostri tecnologici eserciti professionali.
Vedendo quel video, mi sono venute in mente subito due cose: 1) l’uomo, se posto di fronte a pericoli e rischi, non dimentica la sua natura più profonda, che scorre nelle sue vene e nel suo dna, ma combatte con tutte le sue forze contro ciò che percepisce come pericolo mortale; 2) mi sono sentito di aver violato una qualche sorta di “intimità” che può venirsi a creare fra due combattenti. Sarà, forse, un’idea paradossale, ma è stato come pensare di vedere due persone intente in un qualcosa che legava solo loro, come può accadere, per esempio, in un atto sessuale (il riferimento al sesso non può essere casuale, giacché esso è un altro ambito della vita dell’uomo molto spettacolarizzato, ma che, come la violenza, è una componente biologica primaria dell’essere umano).
Mi sono chiesto, perciò, se non avessi sbagliato a vedere un video simile. La risposta breve è no, la risposta più lunga deve essere, però, più articolata e contenere una premessa.
Il processo di spettacolarizzazione della violenza, la sua entrata dirompente nella sfera della vita delle persone, è un processo complicato e non sempre lineare. Ne azzardo, ad ogni modo, una possibile breve storia.
Se nell’antichità le gesta dei combattenti erano raccontate, principalmente, in maniera orale o scritta, la modernità con la possibilità di registrare e riprendere ha fatto un notevole balzo in avanti: si è iniziato, perciò, a riprendere in maniera più o meno avanzata i combattimenti dalla linea del fronte. Nella Seconda guerra mondiale, sia gli alleati, sia l’Asse ripresero scene di battaglia per poi utilizzarle per i motivi più disparati, propaganda o addestramento su tutti.

L’avvento della tecnologia di massa, a partire dalla seconda metà dello scorso secolo, ha permesso un salto di qualità. L’aumento di video è divenuto esponenziale a partire dagli anni 90 prima e, poi, dalle guerre in Afghanistan e Vicino Oriente degli Stati Uniti e dei loro alleati, tanto da divenire un vero e proprio genere YouTube con un suo seguito, anche musicale. Un seguito che non lascia indifferente il nostro paese, il quale non è esente da questo tipo di interesse.
Ma l’impostazione era, comunque, diversa. I motivi sarebbero tanti e variegati, dai motivi militari (sono scene di eserciti non alla pari) a quelli tecnologici (al tempo i droni o le dash cam non erano così tanto utilizzate). Ciò che, invece, mi ha ricordato quella scena sono i videogiochi sparatutto.
Da anni veicolo di propaganda a stelle e strisce, hanno educato molti giovani ai valori americani. Ad inizio anni 2000, la campagna per assoldare giovani vicinorientali alla guerra santa imperialista statunitense era fortissima e passava, anzitutto, dai videogiochi di guerra. Ora che quella esperienza nel Vicino Oriente è meno vivida davanti ai nostri occhi, la cosa non è comunque scemata: molti videogiochi, soprattutto della serie Call of Duty, sono ambientati in luoghi celebri del Vicino Oriente, come in Iraq, nella città martire di Falluja, lungo la cosiddetta “autostrada della morte”, ecc.
Caso più interessante ancora è, invece, l’ambientazione di una missione (No russian) della serie Call of Duty: Modern Warfare, in cui un agente sotto copertura della Cia partecipa a un attacco terroristico all’aeroporto di Mosca, insieme ad un gruppo armato.
In un altro capitolo della saga, il bombardamento della già citata autostrada della morte è stato attribuito, con un falso storico enorme, alla Russia e non agli Usa, portando le autorità russe a vietare la vendita del videogioco sul territorio nazionale. Insomma, potremmo andare avanti all’infinito, segnalando queste operazioni di riscrittura della storia (come, per esempio, ormai da moltissime edizioni non ci sono più missioni dell’Armata Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale), ma la solfa non cambierebbe. Potremmo, anche, parlare di come questi videogiochi possano influenzare i modelli etici di ragazzini con una personalità non ancora costruita, di come alcuni attentati abbiano ricordato nelle modalità questi sparatutto e di come, infine, gli stessi attentatori dichiarassero di ispirarsi a scene di gioco. No, non parleremo di questo.
Diremo solamente che, di fronte a quel video, mi sono sentito come davanti ad un videogioco di Call of Duty, ad una scena di Hunger Games. Lo stile, la lotta ravvicinata, il drone che osserva la scena dall’alto, la bagarre nei commenti del post con il video, ricorda una scena di una live su Twitch. È il fenomeno dei molti foreign fighters che combattono in Ucraina e caricano video su Youtube dei loro combattimenti. Un grande gioco al quale, forse, siamo abituati fin da ragazzini, per via di questa spettacolarizzazione della guerra che cerca di accattivarsi simpatie dei più giovani.

Un altro caso? Come non parlare delle giovani soldatesse israeliane, dei pianti dei giovani coscritti su tiktok durante i bombardamenti iraniani. Anche la Resistenza Palestinese, nella sua sacrosanta battaglia, nella quale riprende le scene dei combattimenti urbani ed aggiunge effetti slow motion, zoom ed altri ancora, ricalca la stessa tipologia di video dei videogiochi. Questo ci fa capire, perciò, come la pervasività digitale raggiunga vette ancora inesplorate, mostrando al mondo intero soldati pregare un drone di non ucciderli, montati con musica rock o metal, o uomini saltare su un campo minato mentre una telecamera da lontano “si gode” lo spettacolo.
In conclusione, si possono trarre più di una considerazione: si potrebbe, per esempio, concludere, come scriveva il controverso Curzio Malaparte, che non si può non amare la guerra e, a riguardo, non si dovrebbe essere ipocriti e spiegarsi, così, il perché di un successo simile.
Al contrario, si potrebbe riconoscere la necessità della violenza la quale, non solo per Marx è la levatrice della storia, e la sua presenza obbligata nella natura dell’uomo, senza renderla un divertimento come spesso avviene (ricordo la simpatia con cui la Botteri ricordava come i soldati ucraini rendano più potenti le molotov). La guerra oggi è resa un reality, cosa diversa dall’altrettanto gravosa declinazione di essa in guerra totale. Siamo mobilitati, ma non lo siamo. La finzione del gioco, il distacco dello e dallo schermo, ci impedisce di capire la realtà delle cose, ma ce la lancia comunque in faccia. L’utilizzo, ad hoc, di crimini di guerra per mobilitare quello che Losurdo avrebbe chiamato “terrorismo dell’indignazione” è una forma di quella che viene chiamata guerra ibrida, nella quale siamo immersi. In questo contesto, i videogiochi e la spettacolarizzazione della guerra fanno parte dello stesso circolo vizioso e dello stesso fenomeno.
Essa, la spettacolarizzazione della guerra, prepara la mobilitazione generale successiva e non è altro che una nuova forma di propaganda, ma infinitamente più subdola e tossica.