A sei anni dall’inizio    
Documento politico approvato dall’Assemblea Generale del Campo Antimperialista – Sez. Italiana

Chianciano Terme, 4 – 5 gennaio 2008

Ad oltre sei anni dall’inizio della Guerra Infinita (o, se si preferisce, della Guerra Infinita Permanente) proclamata da Bush dopo l’11 settembre 2001, ma già inscritta nei programmi dei neocons prima di quella data, è utile fare il punto, aggiornare l’analisi, cercare di individuare i possibili sviluppi di una strategia aggressiva che segna, e continuerà a segnare, la nostra epoca.
Si tratta infatti di una strategia e di una politica che non appartiene soltanto alla “banda Bush”, oggi in palese crisi di consenso, ma all’intero establishment statunitense, diviso sui mezzi ma non sul fine da perseguire: quello del consolidamento del dominio americano nel mondo, così come si è affermato dopo il 1945 ed ancor più dopo il 1989.
Lo sguardo su questi sei anni di inizio secolo non vuole però limitarsi all’analisi dell’imperialismo Usa, che pure continua a dettare l’agenda del pianeta. La sua iniziativa ha prodotto infatti fratture, riallineamenti, e soprattutto resistenze che cercheremo di esaminare. Il progetto imperiale americano, dal quale la Casa Bianca ha preso le mosse, è certamente un disegno planetario ma che ha un cuore ben preciso: il Medio Oriente. Dalla capacità di ridisegnare effettivamente questo “tassello”, dipenderà il suo successo o la sua sconfitta. La partita è aperta e non sarà breve.
Così come abbiamo contrastato l’idea della “guerra breve”, cioè della vittoria facile in Iraq, idea particolarmente in voga tra i pacifisti nella primavera 2003, contrastiamo oggi l’idea infondata della fine della Guerra Infinita. Fine che verrebbe grosso modo sancita con le prossime elezioni presidenziali americane del novembre 2008.
I sostenitori di questa tesi vorrebbero archiviare le aggressioni di questi anni come incidenti attribuibili ad un particolare gruppo di potere, che alla fine si sarebbe oltretutto rivelato insipiente.
Non la pensiamo in questo modo. Per fortuna Bush ha incontrato sconfitte ed impantanamenti, peraltro frutto di forze generalmente oscurate (nella migliore delle ipotesi) da chi sostiene la tesi suddetta, ma l’imperialismo americano non solo non può accettare la sconfitta ma neppure la sua tendenziale riduzione ad un ruolo quasi paritario in una nuova strutturazione policentrica del potere mondiale.
Se un nuovo policentrismo verrà – ed è ragionevole ipotizzare che prima o poi verrà – esso potrà sorgere solo da una fase tempestosa di cui siamo probabilmente solo agli inizi.
Il problema che abbiamo non è dunque quello di immaginare rapidi cambi di scena, ma piuttosto quello ben più concreto di cercare di individuare le nuove linee di sviluppo di una sorta di “fase 2” della Guerra Infinita. Naturalmente questa operazione la faranno assai meglio gli storici tra qualche decennio…
Noi siamo semplicemente chiamati oggi all’analisi politica, all’individuazione delle tendenze principali, alla formulazione delle ipotesi e dei possibili scenari. Operazione non semplice, che mette necessariamente nel conto approssimazioni ed errori, ma assolutamente indispensabile per poter orientare l’azione nel prossimo futuro.

1. Sei anni più complicati del previsto

Sei anni fa, il 7 ottobre 2001, iniziava l’attacco all’Afghanistan. La conquista di Kabul fu assai rapida, grazie all’intesa raggiunta con l’“Alleanza del Nord” che si incaricò dell’azione terrestre. A qualcuno sembrò un’altra Jugoslavia, un altro successo a prezzo zero dell’unica ed indiscussa superpotenza rimasta.
Oggi, proprio da questa terra che ha visto il battesimo del fuoco di George W. Bush, arrivano notizie ben diverse. La Resistenza si è riorganizzata, il controllo del territorio da parte degli occupanti è scarso, le loro perdite aumentano. Si tratta, in tutta evidenza, di una guerra a bassa intensità, ma dove l’obiettivo della vittoria è sempre più lontano.

Se in Afghanistan le cose non sono andate troppo bene agli strateghi di Washington, in Iraq sono andate assai peggio, come oggi ammettono commentatori e militari nel frattempo pensionati. Costoro non criticano la scelta dell’invasione dell’Iraq, ma semplicemente la sua gestione. Come noto, la vittoria ha molti padri mentre la sconfitta non è di nessuno….
Sta di fatto che in Iraq gli Stati uniti avevano clamorosamente sbagliato l’analisi sulla possibilità che si sviluppasse una forte resistenza popolare. Una certa resistenza era prevista, ma veniva concepita come un fenomeno residuale, come l’ultimo respiro del potere baathista in rotta. E’ per questa ragione che la cattura di Saddam Hussein (dicembre 2003) venne effettivamente vissuta come un evento decisivo.
Sappiamo oggi, al contrario, che la Resistenza prese nuovo vigore proprio agli inizi del 2004, quando più vicino apparve l’obiettivo di una sua unificazione interconfessionale. Successivamente le cose presero un’altra strada (di questo ci occuperemo in un punto specifico), ma le difficoltà degli occupanti sono via via cresciute.
A nulla è servita la strage di Falluja (novembre 2004), 30-50mila vittime incenerite affinché il terrore potesse impadronirsi di un intero popolo annichilendolo; a nulla sono servite le torture che hanno fatto di Abu Ghraib uno dei simboli della barbarie imperialista del ventunesimo secolo; a nulla sono valse le elezioni del gennaio e dicembre 2005, che alla fine (nonostante brogli evidentissimi) hanno visto la sconfitta di Allawi, l’uomo su cui puntavano gli americani.
Dopo questi insuccessi gli Usa hanno scommesso sulla guerra civile, e con l’attentato alla moschea di Samarra (febbraio 2006) hanno ottenuto quel che speravano: una sorta di libanizzazione dell’Iraq come base materiale per la sua spartizione. Questa tattica del “tanto peggio, tanto meglio” ha dato i suoi frutti impedendo un processo unitario delle forze della resistenza, che spesso hanno preso a scontrarsi tra loro. Ma questa situazione – che consente agli Usa di prendere tempo – è comunque cosa ben diversa dalla vittoria.

L’attacco israeliano al Libano, ed in particolare alle strutture di Hezbollah, del luglio-agosto 2006 è stato anch’esso un episodio della Guerra Infinita in corso. Il fatto che questo attacco sia partito da Israele non cambia la sostanza: tutti sanno che lo stato sionista è l’avamposto dell’occidente e degli Usa in Medio Oriente.
Anche in questo caso le cose sono andate storte agli aggressori. Ed anche questa è una novità, visti i precedenti storici a partire dall’occupazione israeliana del Libano del 1982.
La Resistenza nazionale libanese, diretta da Hezbollah, ha fermato i soldati di Tsahal ben a sud del fiume Litani ed il governo Olmert ha dovuto ammettere di aver fallito i principali obiettivi politico-militari dell’offensiva.
Come risposta all’insuccesso militare è stata messa in piedi la spedizione Onu (in realtà Nato) che dal settembre dello scorso anno presidia il sud Libano, una spedizione costituita principalmente da truppe italiane e francesi con lo scopo di tenere sotto costante pressione sia la resistenza libanese, che la Siria ed in un certo senso lo stesso Iran.

In Palestina, la Guerra Infinita si è tradotta nel tentativo di cancellare la resistenza, da un lato con l’ossessiva pressione militare israeliana, dall’altro con la corruzione dei vertici di al-Fatah. Anche questo tentativo ha avuto successo solo parzialmente. La vittoria di Hamas nelle elezioni del gennaio 2006 ha infatti evidenziato la volontà popolare di non arrendersi al destino di una segregazione razziale negoziata. Anche qui, come altrove, nonostante il foraggiamento dell’ala collaborazionista di Abu Mazen, i giochi sono aperti.

Se questi sono stati i principali fronti caldi della Guerra Infinita, non vanno dimenticati altri teatri di guerra: dall’invasione della Somalia da parte di truppe etiopiche, con il palese sostegno americano, alla guerra combattuta in Pakistan dal regime di Musharraf contro una parte del suo stesso popolo.
Questi fronti, solitamente ritenuti “secondari”, sono invece parte integrante dell’offensiva a tutto campo scatenata dagli Usa.

In generale possiamo dunque dire che in ogni luogo dove si è determinata la loro aggressione gli imperialisti hanno mancato la vittoria, ovunque si sono sviluppate varie forme di resistenza. Resistenze ancora incapaci di vincere, ma già sufficienti ad impantanare la più potente macchina da guerra della storia.
Questa situazione di stallo è la caratteristica principale fotografabile in questo momento (inizio dicembre 2007), mentre si intravedono all’orizzonte nuove linee di attacco, in particolare verso l’Iran.

2. Guerra di civiltà

La Guerra Infinita non è solo guerra per eserciti.
Una guerra infinita non sarebbe né concepibile, né tanto meno proponibile, se non riuscisse ad ammantarsi di “nobili” scopi di civilizzazione, democratizzazione, eccetera.
Da questo punto di vista niente di nuovo sotto il sole. Quel che è nuovo è la potenza di fuoco prodotta da questa concezione totalitaria, che abbiamo definito – anche per quello che ha rappresentato fin dagli inizi del Novecento – americanismo.
All’alba del nuovo secolo questo termine è apparso ancora più pregnante, nel suo significato di volontà egemonica, di modello sociale e culturale da imporre in parallelo alla rimondializzazione capitalistica che viaggia con le vele del liberismo più sfrenato.

In questo senso, “Guerra di civiltà” non è l’espressione estremistica, fallaciana, del normale razzismo che si accompagna alle imprese imperialiste. E’ qualcosa di più. Ed è qualcosa di più non solo in virtù della sua giustificazione – la cosiddetta “guerra al terrorismo” – ma perché sottende una sorta di diritto divino, dal quale è infatti scaturito un ben più concreto “diritto imperiale”, che ha già riscritto de facto e de jure il diritto internazionale e quello dei singoli stati nazionali.
L’elenco è lunghissimo quanto noto: l’“Usa Patriot Act”, la costruzione di una rete di segrete Guantanamo sparse per il mondo, la legittimazione dell’uso della tortura, il progressivo allargamento della casistica inerente i reati associativi, il diritto ad intercettare ogni conversazione, le black list, le operazioni della Cia con la copertura dei governi interessati (vedi il caso del sequestro di Abu Omar), il diritto americano a disporre a piacimento dello spazio.
Questi punti, volutamente elencati un po’ alla rinfusa, danno il senso di quanta strada abbia fatto quello che abbiamo chiamato “nuovo diritto imperiale”.

Un “diritto” che in Europa non avrebbe potuto affermarsi senza la complicità di una cultura e di un sistema informativo ormai largamente americanizzati.
Sintomatico di questo allineamento servile è proprio il concetto di “terrorismo”, che viene accettato e rilanciato senza alcuna attenzione critica all’utilizzo improprio che ne viene fatto. C’è poco da fare, comunque la si voglia rigirare i “terroristi” di oggi sono i “banditen” di ieri, con l’enorme differenza che questi ultimi erano tali solo per una parte minoritaria dell’occidente, mentre i primi sono etichettati in questo modo dall’occidente all’unisono.
Questa vittoria semantica dell’imperialismo non è una piccola cosa. E’ invece il segno dell’affermazione di un pensiero unico totalitario ed in definitiva razzista.

Questa deriva dell’occidente si traduce in particolare nell’islamofobia, la forma più concreta e diffusa del razzismo nella nostra epoca. Un razzismo che investe tutti i paesi occidentali e che in Italia presenta tutte le possibili variabili: da quella estrema di certi settori della destra e della Lega, a quella di matrice securitaria, fino a quella “politicamente corretta” e di “sinistra” che vorrebbe l’integrazione con ogni mezzo (inclusa una Consulta costitutivamente discriminatoria).