Sulla funzione della politica
In risposta ad Angelo Panebianco

di Moreno Pasquinelli

Angelo Panebianco è anzitutto un barone universitario, docente di scienza della politica all’università di Bologna. Membro di una delle più squalificate caste precapitalistiche di cui l’Italia abbonda. A dispetto di questa sua mansione di prima istanza, Panebianco svolge un secondo e ben remunerato lavoro, è una delle penne liberiste più accanite del Corriere della Sera.

Dall’alto di questa prestigiosa tribuna il nostro non cessa un istante di dispensare consigli se non proprio direttive ai governanti, ai politici, ai banchieri, si sindacalisti, agli intellettuali, finanche alla Curia romana. Una ammonitore, un mentore, una ninfa Egeria del potere. Per la sua confraternita un maitre a penser del liberalismo fondamentalista.
L’ultimo editoriale che ha scritto (sabato 22 novembre) merita un commento.

Quattro tendenze

Panebianco, “sgomentato” per la piega che va prendendo il dibattito politico e culturale, esordisce con un’apologia della cosiddetta “rivoluzione liberale” che prese avvio con l’avvento della Thatcher (1979) e di Reagan (1980). Dimenticando i gravissimi guasti sociali prodotti da quella “rivoluzione”, per non parlare dei cataclismi geopolitici e della miseria senza precedenti rovesciata sulla gran parte dell’umanità, il nostro esalta il reaganismo poiché produsse “una trentennale crescita economica mondiale e una spettacolare accelerazione della globalizzazione”. Questa sacralizzazione della “crescita” come il principio supremo a cui tutto deve essere subordinato (non sfiora il nostro l’idea che la “crescita”, da uno dei discutibili parametri per misurare lo stato di salute di una società venga con ciò trasmutata in un dogma ideologico, nella tanto da lui deprecata “Grande narrazione”) è tuttavia solo la premessa per esorcizzare la tendenza al “ritorno al primato della politica”, tendenza che starebbe prendendo piede come risultato della gravissima crisi che scuote il sistema capitalistico mondiale. Panebianco allude all’idea che data la gravissima crisi economica la quale trascina con sé quella dell’ideologia mercatista, possa prendere “pericolosamente” piede la tesi opposta: che debba essere la politica a sottomettere il mercato. In questo contesto afferma addirittura che “L’attesa salvifica che oggi circonda Obama è un esempio estremo di questo persistente atteggiamento”.
Il nostro non si sogna di contestare la necessità dei colossali e statalistici piani di salvataggio del predatorio sistema bancario, assicurativo e industriale adottati nella sua amatissima e liberalissima America. Panebianco accetta a “malincuore”, come una medicina amara e necessaria, la nuova irruzione dello Stato negli affari economici, ma è fortemente preoccupato poiché, mentre gli USA hanno “potenti anticorpi che impediranno degenerazioni del tipo «socialismo di Stato», in Europa e soprattutto in Italia questi anticorpi sono debolissimi”.
E’ giustificato questo timor panico di Panebianco? Io direi di sì. Ritengo che se l’attuale crisi dovesse davvero scatenare tutti i suoi potenziali e devastanti effetti, non avremo solo una blanda riedizione del keynesismo, questa sarà solo l’anticamera di un nuovo lungo ciclo sociale e politico. Io sono infatti convinto di quattro tendenze principali. 1) Lo Stato non riuscirà tanto facilmente a “tornare all’ovile” e ridiventerà, forse in modo ancor più massiccio dell’epoca che precedette la cosiddetta “rivoluzione liberista”, un protagonista assoluto della scena, uno “Stato imprenditore”. 2) Questo mutamento avrà conseguenze profonde sugli equilibri e la composizione sociali, sugli assetti istituzionali, e dunque anche sulle dinamiche della scena e rappresentanza politica. 3) Comunque sia il ciclo maledetto della globalizzazione è terminato, si tornerà a forme più o meno rigide di protezionismo; ciò che, ove non causasse un irrigidimento degli attuali Stati-nazione e sfociasse piuttosto in entità super-statali (quali la UE potrebbe diventare nel caso spezzasse le catene che la inchiodano alla sudditanza verso l’impero americano), riproporrà gli Stati come Stati-potenza, e quindi l’uso della forza come mezzo per dirimere i contenziosi futuri. Mi riferisco al fatto che la tendenza alla guerra, voglia o non voglia l’Obama di turno, diventerà con l’acuirsi della crisi, tendenza dominante. 4) In questo nuovo ciclo radicali conflitti politici torneranno alla ribalta aprendo il vaso di Pandora di cui i regimi liberali-bipolari sono il coperchio. Se lo Stato si pone come il Deus ex machina, il salvatore della patria, ciò non potrà che risvegliare l’attenzione generale alla politica, poiché chi controllerà lo Stato deciderà non solo gli indirizzi, ma il destino stesso della società.
Cattiva filosofia politica
Per questo è necessario soffermarci sulle premesse, diciamo così, di filosofia politica, del discorso di Panebianco. Sentiamo: “Gli assertori del primato della politica hanno un grande vantaggio rispetto ai liberali. Consiste nel fatto che dalla politica tutti si aspettano la soluzione ai loro problemi e le attribuiscono ogni colpa delle mancate o cattive soluzioni. La politica è il deus ex machina che tutti invocano. È interessante il fatto che non solo la gente comune ma anche gran parte delle élites fatichino ad accettare l’idea che non tutto ciò che accade sia il prodotto di decisioni politiche. Essi mostrano di non riconoscere che molti accadimenti sono semplicemente il frutto del reciproco adattamento «spontaneo» fra i comportamenti di milioni e, a volte, miliardi di persone, l’esito aggregato, per lo più imprevisto e imprevedibile, di un gran numero di azioni ispirate da altrettante menti singole. Nonostante la secolarizzazione, gente comune e élites continuano a credere che tutto si debba alla volontà degli Dei. La differenza è che questa idea di onnipotenza è stata trasferita, proiettata, su uomini in carne ed ossa, i cosiddetti potenti della Terra. I più, misconoscendo il ruolo fondamentale degli aggiustamenti spontanei, credono nella sola esistenza delle «mani visibili». Siano esse di Roosevelt, di Clinton, di Bush. Ma anche di Sarkozy, Berlusconi, eccetera” (…) “A me pare che in questo atteggiamento si annidi l’errore di non riconoscere che l’onnipotenza della politica è solo un mito. Un mito lugubre, per di più. Con quanto più accanimento è stato perseguito tante più catastrofi si sono prodotte. Il grande lascito culturale (che oggi la crisi va disperdendo) delle rivoluzioni liberali di trenta anni fa — a loro volta, ispirate al liberalismo classico, sette – ottocentesco — stava nel rifiuto dell’onnipotenza della politica, nel riconoscimento che solo lasciando massima libertà agli individui e alla creatività individuale si fa il bene di una società, che compito del governo non è darci la «felicità» ma lasciarci liberi di cercare la nostra personale strada alla felicità.
Appunto, un distillato di (mendace) filosofia politica.
Che non tutto ciò che accade sia frutto di decisioni politiche è una lapalissiana verità. Lo è a maggior ragione nel sistema imperialistico e plutocratico ove gli stessi governi sono stati ridotti a comitati d’affari dei grandi gruppi oligopolistici, ove alcune multinazionali sono più potenti di singoli stati e possono quindi non solo condizionare le decisioni dei parlamenti, ma semplicemente sottometterseli eterodeterminando le loro decisioni. Che c’entra qui “l’adattamento spontaneo fra i comportamenti di milioni di persone”? Con quale faccia tosta si possono equiparare colossi come Lehman Brothers, Merrill Lynch, AIG, Fannie Mae e Freddie Mac e Citigroup, a mere persone? Panebianco mente sapendo di mentire, sa benissimo che proprio la crisi in atto ha messo in luce in maniera addirittura clamorosa come, a fronte delle moltitudini di produttori e consumatori che contano poco o niente e sono sistematicamente turlupinate, una potenza senza limiti era nelle mani dei giganti finanziari, proprio in quanto amministravano incalcolabili somme di denaro. Una potenza inimmaginabile anche solo fino a trenta anni fa, ciò che spiega come mai il crollo di questi colossi, pur circoscritto, metta paura più del ‘29.
Una filosofia politica che prima ancora di essere cattiva è appunto mendace, l’esatto contrario di un pensiero che si avvicini alla scientificità.
Ma se l’apologia degli “adattamenti spontanei” è una pura e semplice menzogna ideologica, figlia poco legittima del mito smithiano della “mano invisibile del mercato”; una risposta a parte merita la versione panebianchica dell’eterogenesi dei fini, quella per cui qualsiasi evoluzione sociale sarebbe “…. l’esito aggregato, per lo più imprevisto e imprevedibile, di un gran numero di azioni ispirate da altrettante menti singole”.
Siamo di fronte ad una versione anarco – personalistica di eterogenesi dei fini per cui solo gli individui singolari vengono presi in considerazione come titolari e portatori di finalità; non le classi sociali, né blocchi, alleanze o movimenti popolari, e nemmeno gli stati. Posta questa premessa è quindi ovvio che l’esito finale di questo caotico scontrarsi e incontrarsi di api impazzite è “imprevisto e imprevedibile”, in altre parole irrazionale — a meno che non si introduca surrettiziamente l’intervento a posteriori della Divina Provvidenza, ipotesi che non pare il liberalissimo Panebianco faccia sua.
Siamo davanti a quella che Marx avrebbe bollato come “robinsonata”, ad una torsione anarco – personalista dell’utilitarismo, per cui non è il benessere di tutti la condizione di quello mio proprio, ma il benessere mio proprio come autosufficiente a sé stesso e metro di misura per giudicare della legittimità di qualsivoglia sistema sociale. In altre parole una visione del mondo in cui, a fondamento della convivenza sociale, vengono posti la singola parte ovvero l’individuo atomizzato, e non invece il tutto, la comunità.
Panebianco porta alle estreme conseguenze il suo discorso: “… solo lasciando massima libertà agli individui e alla creatività individuale si fa il bene di una società, che compito del governo non è darci la «felicità» ma lasciarci liberi di cercare la nostra personale strada alla felicità” Il bene comune viene brutalmente svincolato da ogni parametro oggettivo, disancorato dalla qualità e dalla foma dei rapporti sociali, esso consiste alla fin fine solo nella massima libertà individuale. Nella misura in cui ognuno può farsi i cazzi propri, Dio ce ne scampi da interferenze politiche! avremo il massimo benessere sociale.
Siamo davanti al più radicale e, aggiungo io, americanista e pragmatistico scardinamento della tradizione di pensiero occidentale. Panebianco non fa che salire sulle spalle della razionalità empiristica, calcolante e strumentale, divenuta da tempo dominante nell’Occidente capitalistico, la quale ha causato una radicale fatturazione tra l’etica e la politica. Da una parte l’etica è stata confinata, al pari della fede religiosa, nella sfera intima dell’interiorità personale — di qui un esasperato e disperato individualismo, un delirio dell’ Io, ovvero il relativismo etico e il nichilismo morale — per questo trovo adeguato parlare di filosofia irrazionalista, in quanto qui traspare il più crudo volontarismo, quella concezione per cui liquidati gli universali come flatus vocis, la volontà singolare non soltanto sarebbe inconciliabile con qualsivoglia interesse collettivo – sociale ma prevarrebbe sull’intellettto e sulla ragione. D’altra parte abbiamo una seconda conseguenza: lo sganciamento della politica da ogni piattaforma valoriale socialmente condivisa, l’abbandono di ogni sua pretesa di fondarsi su norme etiche universalistiche e ideali morali socialmente vincolanti. Di passata non possiamo non segnalare come questa scissione sia il riflesso della definitiva sussunzione della comunità sociale da parte del mercato: dal momento che il mercato è divenuto l’unico spazio esistente, col capitale come suo centro gravitazionale, le relazioni tra gli uomini sono diventate come quelle tra le merci, hanno anzi finito per trasformare gli uomini stessi in merci consumanti merci.
Alla fine della fiera, se questa concezione filosofica irrazionalista fosse valida avremmo : 1) che la politica verrebbe privata di ogni piattaforma etico-valoriale oggettiva; 2) che sarebbe destituito d’ogni fondamento il concetto della primazia della politica in quanto mezzo per orientare verso un fine i processi sociali; 3) verrebbe dunque polverizzata la nozione stessa di politica in quanto strumento di ordinazione e normazione dei fenomeni e dei conflitti sociali; 4) vi è una quarta conseguenza, per così dire gnoseologica: se il mondo è l’arena caotica delle volizioni individuali, sarebbe vano cercare tendenze e costanti alle quali ubbidirebbero i fenomeni sociali, e di conseguenza la politica è destituita d’ogni barlume di scientificità; 5) tuttavia, dato che non si prevede la scomparsa sic et simpliciter della politica ad essa viene assegnata una residuale (si fa per dire) funzione, quella di fungere da mera tecnica per l’ottenimento del consenso e/o per l’amministrazione e il mantenimento del potere.
Se infine trasciniamo questa concezione panebianchica della politica dal cielo delle astrazioni alla concreta realtà dei sistemi tardoimperialistici, anche invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia: impedire alla “lugubre” politica, ovvero alla comunità sociale, di dare un fine, un senso e un ordine ai fenomeni storici, lasciando il tutto in balia del mercato e delle sue performances, ovvero limitarsi ad assecondare la suprema volontà del Dio Capitale. Non è per caso che a giustificazione di questa divinizzazione del Capitale il nostro ricorre, come i cattolici davanti al dogma della Santissima Trinità, al mistero: “Il rapporto fra la politica e il mercato è uno degli aspetti più complessi (e oscuri, difficili da mettere a fuoco) delle società contemporanee”.
A questa cattiva filosofia, per adesso, ci pare sufficiente (non saltate sulla vostra seggiola), rispondere con Aristotele il quale, dopo avere insistito che l’uomo è un “animale politico”, ovvero un essere comunitario che non può prescindere da una relazione cooperativa e solidaristica con gli altri esseri umani, affermava: “E’ chiaro che c’è una scienza [la politica] cui spetta di cercare quale sia la migliore costituzione: quale più d’ogni altra sia adatta a soddisfare i nostri ideali , quando non vi fossero impedimenti esterni; e quale si adatti alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica. Poiché è quasi impossibile che molti possano attuare la migliore forma di governo, il buon egislaatore e il buon uomo politico devono sapere quale sia la migliore forma di governo in senso assoluto e quale sia la migliore forma di governo entro certe condizioni date”. (Politica, IV, 1)
Accade spesso all’umanità che in un’epoca di smarrimento, per capire quale debba essere il proprio futuro, debba fare un passo indietro, ripartire dai suoi fondamenti. Quello che viviamo è uno di questi momenti.