In occasione del secondo centenario della nascita del grande Darwin, che ricorre quest’ anno, mi sembra utile criticare il concetto largamente corrente di “gene egoista”; concetto che, posto a titolo di un fortunato libro del biologo Richard Dawkins, mi pare emblematico della torsione ideologica reazionaria alla quale la fondamentale scoperta scientifica darwiniana della selezione naturale come fattore determinante dell’ evoluzione biologica è stata “fin da subito” indebitamente sottoposta (va da sé che la fortuna di quel libro -ormai un classico della divulgazione scientifica- consegue in gran parte all’ essere perfettamente congeniale all’ ideologia dominante in Occidente del concetto stesso che gli dà il titolo, cosa che ne ha favorito, se non addirittura determinato, una massiccia sponsorizzazione mediatica).

 

Innanzitutto mi sembra necessario rilevare il carattere meramente metaforico che non può non avere l’ espressione stessa di “gene egoista” (a meno di credere che i geni, sequenze relativamente brevi di polinucleotidi facenti parte degli acidi nucleici, cioè nient’ altro che “pezzetti di macromolecole organiche”, strutture chimiche paragonabili per dimensioni e complessità all’ emoglobina del sangue e molto più piccole e meno complesse del più minuscolo e meno sofisticato dei virus, siano coscienti e dotati di volontà, tendenze comportamentali, e magari libero arbitrio; cosa non molto diversa -e scientificamente altrettanto valida …si fa per dire- dal ritenere che il destino delle persone sia influenzato dagli astri, e in particolare dalle posizioni delle costellazioni “zodiacali” al momento della loro nascita!).

 

Mi pare inoltre evidente l’ assurdità totale e l’ infondatezza assoluta della questione stessa se l’ organismo fenotipico sia in funzione del genoma o viceversa, cioè se i geni esistano per consentire lo sviluppo e la riproduzione degli animali e delle piante oppure se tali esseri viventi nascano, si sviluppino, si riproducano e muoiano solo per consentire la diffusione dei loro geni: esattamente lo stesso paradosso -solo ad un livello un pochino più sofisticato- della vecchia questione se sia nato prima l’ uovo o la gallina, che si può considerare paradigmatica delle elucubrazioni del tutto oziose, insensate, inconcludenti; senza considerare il fatto che proprio la geniale scoperta darwinana ha dato un contributo decisivo al bando dalla biologia di ogni residuo pre-scientifico di finalismo, relegando irrimediabilmente al di fuori della scienza una tale oziosa questione (se lo scopo -presunto- della vita degli organismi viventi sia la riproduzione e diffusione dei geni o se lo scopo -presunto- dei geni sia di contribuire alla vita degli organismi).

 

A parte queste elementarissime considerazioni sull’ assurdità ed antiscientificità di una accezione letterale del concetto, sul suo poter essere inteso unicamente in senso metaforico (considerazioni che i sacerdoti dell’ ideologia corrente si guardano bene dall’ evidenziare), anche qualora si volesse proprio entrare nel merito di una tale a mio parere infelicissima (e non innocente) metafora, allora si dovrebbe casomai concludere che il gene è piuttosto “altruista” che “egoista”.

 

Infatti solo consentendo ed anzi favorendo in larga misura l’ esistenza e la diffusione anche di altri geni da sé diversi, i geni in generale possono continuare a riprodursi e a moltiplicarsi in un ambiente che è inevitabilmente mutevole; e in particolare, se i geni fossero stati “egoisti”, i loro primissimi esemplari propri delle entità viventi più primordiali avrebbero impedito il proliferare (anche) di loro “varianti” (di geni da loro stessi più o meno diversi) e conseguentemente, non solo la vita non si sarebbe così meravigliosamente differenziata come di fatto è accaduto (e accade; e fra l’ altro non sarebbe mai comparso l’ uomo), ma anche ben presto (al primo rilevante mutamento ambientale) si sarebbe estinta (e con essa inevitabilmente anche i presunti geni “egoisti”).

 

Mi spiego meglio.
L’ evoluzione e la differenziazione biologica (secondo i classici principi della scienza biologica dei quali siamo in larga misura debitori a Darwin) procedono attraverso mutazioni genetiche casuali e selezione naturale (e dunque seguendo modalità perfettamente riducibili alle leggi generali proprie del divenire naturale, cioé alle leggi della fisica-chimica: nulla di soprannaturale; nemmeno per quel che riguarda l’ origine dell’ uomo).

 

La selezione naturale tende, nell’ ambito di quello che è prodotto dalle mutazioni genetiche casuali, a facilitare il propagarsi di quei caratteri morfologici, fisiologici, comportamentali, ecc. che sono più o meno “propizi” alla sopravvivenza e alla riproduzione degli individui e dunque alla diffusione su scala spaziale e temporale delle rispettive specie e a favorire l’ eliminazione di quelli che sono eccessivamente “dannosi”, o comunque caratterizzati da conseguenze contrarie (inibenti la sopravvivenza e la riproduzione degli individui e l’ estensione e diffusione delle specie).

 

Tale tendenza è tuttavia limitata e relativa (come d’ altra parte tutto ciò che accade in natura; e al contrario di quanto di sopra- o comunque preter- o para- -naturale favoleggiano religioni e superstizioni varie), nel senso che essa non impone unicamente, sempre, comunque e necessariamente il diffondersi solo ed unicamente di tali caratteristiche (le “più propizie”), ma che invece non impedisce completamente ed assolutamente una certa diffusione anche di diverse proprietà e attributi limitatamente (e relativamente ad altri a essi alternativi) meno “propizi”, ed in qualche misura (sia pure circoscritta) indifferenti o addirittura tendenzialmente inibenti (entro certi limiti) la sopravvivenza e la riproduzione degli individui e la crescita numerica e la diffusione geografica delle specie. A questo proposito gli esempi più eclatanti e più spesso citati sono quelli “classici” delle piume caudali dei pavoni e delle corna dei cervi maschi.

 

Qualora così non fosse, nessuna evoluzione e differenziazione biologica sarebbe accaduta, ma la vita (il “mondo vivente”) sarebbe stata esclusivamente limitata alle (o costituita dalle) primissime sue manifestazioni; anzi, alla prima specie comparsa in assoluto (anche ammesso che a tal proposito si possa correttamente parlare di “specie”; comunque ai suoi “primordi”, che si sarebbero peraltro rapidamente estinti nonappena l’ ambiente in cui fossero comparsi fosse -inevitabilmente, prima o poi- mutato, magari anche di “ben poco”, in modo tale da impedirne la sopravvivenza e riproduzione).

 

La selezione naturale agisce essenzialmente “in negativo”, eliminando soltanto i geni eccessivamente inadatti all’ ambiente (il quale varia nel tempo!), e non invece “in positivo”, non salvaguardando unicamente i geni di gran lunga più adatti; essa cioè non elimina tutti i geni tranne quelli più adatti all’ ambiente, non salvaguarda, moltiplica e diffonde unicamente i geni più adatti di tutti: al setaccio (alquanto a maglie larghe!) della selezione naturale non passa soltanto l’ “ottimo” (come adattamento all’ ambiente presente), bensì tutto tranne il “pessimo”. In questo modo è possibile (e di fatto avviene) la differenziazione delle varie specie (e non un’ uniformità per così dire “razzisticamente pura”!): differenziazione relativa nell’ ambito di ciascuna specie e conseguente possibilità di speciazione allopatica (cioè di comparsa di nuove specie diverse da quella di origine).

 

In caso contrario (cioè di uniformità per così dire “razzisticamente pura”) si sarebbe invece avuta un’ unica “specie” vivente, con la possibilità (meramente teorica, di fatto inconsistente!) di un’ evoluzione “unilineare” (trasformazione della “specie primigenia”, nel corso del tempo, in un’ unica altra specie per volta: solamente la più adatta all’ ambiente, i cui geni avrebbero eliminato “egoisticamente” tutti i geni da loro diversi); non si sarebbe invece potuta verificare un’ evoluzione “ramificata, diversificante o multilineare”, cioé caratterizzata da molteplici ramificazioni e varianti, come effettivamente è avvenuto ed avviene. Peraltro una tale meramente ipotetica evoluzione “unilineare” si sarebbe esaurita in tempi inevitabilmente molto brevi: l’ unica specie (unica per ogni tempo) dai geni “egoisti” si sarebbe di fatto ben presto estinta in occasione del primo severo cambiamento ambientale “sufficientemente repentino” da non consentire una sua tempestiva evoluzione adattativa. E con essa si sarebbero ben presto e definitivamente estinti i (fantomatici) geni “egoisti”.

 

Si può anzi considerare una sorta di regola generale che potremmo denominare della “polarizzazione dialettica” fra “vantaggi” particolari e a relativamente breve termine e “vantaggi” generali e a relativamente lungo termine nell’ ambito dell’ evoluzione e differenziazione biologica: in ogni raggruppamento di enti viventi arbitrariamente definibile e considerabile (più o meno ampio: dal singolo individuo all’ intera materia vivente) nel corso della filogenesi (l’ evoluzione biologica) ciò che è più “vantaggioso” (cioè più utile alla sopravvivenza, crescita, sviluppo, riproduzione) per i pochi (per i meno) nonché a breve termine (in tempi e spazi relativamente piccoli) è più svantaggioso per i molti (per i più) nonché a lungo termine (in tempi e spazi relativamente ampi) e viceversa.

 

In generale una caratteristica vantaggiosa per alcuni individui e immediatamente, come ad esempio una maggiore robustezza fisica condizionata da una più grande taglia corporea per una popolazione di carnivori che viva in un ambiente con abbondanza di grosse prede, è invece svantaggiosa per la specie ed in tempi lunghi, in quanto tende (ma solo relativamente, limitatamente, a causa dell’ “altruismo” dei geni …per fortuna della vita!) a diffondersi a tutta la specie stessa, uniformandola e facendola divenire maggiormente vulnerabile di fronte ai cambiamenti ambientali; in particolare è svantaggiosa in tempi lunghi, in quanto importanti cambiamenti ambientali tendono sempre più ad accadere col passare del tempo, e di fatto prima o poi inevitabilmente si verificano. Può così succedere, per restare all’ esempio considerato, che per i più diversi motivi le prede più grosse comincino prima o poi a scarseggiare e che quindi sarebbe più vantaggiosa per i predatori una piccola taglia corporea (anche a costo di una relativamente minore forza fisica) per poter penetrare e frugare in angusti anfratti, piccole grotte e strette tane nelle quali potrebbero eventualmente rifugiarsi potenziali più piccole prede ancora relativamente abbondanti.

 

Nel caso i geni fossero troppo “egoisti” (ma per fortuna non lo sono affatto!), i “geni della taglia grossa” eliminerebbero del tutto quelli “delle taglie medie e piccole” nella fase geologica o geoclimatica delle “vacche grasse”, e dunque la specie di carvivori considerata si estinguerebbe inesorabilmente nell’ epoca prima o poi inevitabile delle “vacche magre” (e con essa si estinguerebbero inesorabilmente i pretesi geni “egoisti”); se invece i geni fossero -come inevitabilmente sono quelli che sopravvivono e si impongono e diffondono per selezione naturale- alquanto “altruisti”, allora all’ epoca delle “vacche grasse” quelli “della taglia grossa” “consentirebbero generosamente” il persistere nella specie anche dei “geni delle taglie medie e piccole” e la specie sopravvivrebbe al mutare inevitabile dell’ ambiente (e con essa i geni “altruisti”).

 

In questo modo la selezione naturale elimina inesorabilmente gli eventuali, fantomatici geni “egoisti” che casualmente comparissero per mutazione casuale e fa sì che inevitabilmente i geni realmente esistenti siano alquanto “altruisti”.
Un esempio reale e ben noto a tutti gli studenti del primo anno di Medicina é quello della Betularia, la farfalla inglese delle betulle.
Gli esemplari di questa farfalla erano quasi tutti di colore bianco fino alla metà del diciottesimo secolo, il che consentiva loro di mimetizzarsi sulla corteccia delle betulle e sfuggire ai predatori.
Con i fumi prodotti dalla combustione del carbone nella prima rivoluzione industriale, i tronchi delle betulle inglesi si sono progressivamente anneriti, e le betrularie sono diventate quasi tutte nere, così da continuare a mimetizzarsi. Infatti i geni del colore bianco, “altruisticamente” avevano consentito l’ esistenza e riproduzione anche di una piccola quota di geni del colore nero; e solo grazie a questo “altruismo dei geni” col cambiare del colore della corteccia delle betulle le farfalle (e conseguentemente anche i loro geni) sono sopravvissute (che se invece i geni fossero “egoisti”, allora quelli del colore nero avrebbero del tutto eliminato quelli del bianco antecedentemente alla rivoluzione industriale, così condannandosi a una sicura estinzione nella seconda metà del ‘700).

 

Ma d’ altra parte le stesse mutazioni genetiche casuali, fondamento dell’ evoluzione biologica non meno decisivo e indispensabile della selezione naturale, sono in un certo senso una dimostrazione di “altruismo” dei geni: se questi fossero “egoisti”, infatti, consentirebbero l’ utilizzo integrale della totalità delle risorse chimiche e fisiche disponibili unicamente per la riproduzione (perfettamente identica) di “se stessi”, e non per la comparsa di varianti mutate (cioè di geni simili ma diversi -per l’ appunto *altri*- da “se stessi”).
Questa concezione largamente diffusa del “gene egoista”, non diversamente dalla falsa e del tutto antiscientifica esagerazione o addirittura assolutizzazione dei fattori ereditari o genetici nella determinazione della varietà del comportamento umano individuale, (ogni due o tre mesi giornali e TV annunciano la -pseudo- “scoperta” dei geni che causerebbero i più svariati comportamenti: dal coraggio, all’ ottimismo, all’ omosessualità, alla fedeltà coniugale, all’ alcoolismo, al tabagismo, all’ abilità di guidare la moto o di pattinare, all’ amore per la musica o per la matematica, per non parlare dell’ “intelligenza” [?], e chi più ne ha più ne metta!) costituisce un tipico pregiudizio ideologico reazionario favorito a mio parere (secondo la “vecchia” ma sempre valida teoria del materialismo storico) dalle condizioni sociali di produzione della vita materiale, oggi caratterizzate da rapporti di potere di classe e di proprietà dei mezzi di produzione di gran lunga oggettivamente superati dallo sviluppo delle forze produttive; mi scuso per questa prosa alquanto “vetero”).

 

Essa non è che uno degli ultimi sviluppi -per ora-  di una lunga ed ingloriosa storia di distorsioni antiscientifiche reazionarie della geniale teoria darwiniana (delle quali il grande Charles non ha alcuna colpa!), che passa per l’ ottocentesco “darwinismo sociale” e la novecentesca “sociobiologia”: poiché il sordido egoismo, la grettezza e la meschinità sono fra le caratteristiche più salienti del “tipo umano” borghese-capitalistico, tanto più nella attuale fase monopolistica-transnazionale “in stato di avanzata putrefazione” della società capitalistica, con questo concetto pseudoscientifico di “gene egoista” si tende a suggerire alle masse dominate, da parte delle superprivilegiate oligarchie al potere, che tali tendenze comportamentali sarebbero del tutto “naturali” e dunque inesorabilmente congenite all’ uomo, “realisticamente” ineliminabili, cosicché pretendere di lottare per una società più equa, solidale, altruistica, magnanima e generosa sarebbe qualcosa di totalmente impossibile e foriero nei fatti delle peggiori disgrazie, anche a dispetto delle eventuali migliori intenzioni di chi se lo proponesse.