La caduta tendenziale del saggio del profitto:
l’errore di una diagnosi, la verità di una prognosi.

Il posto privilegiato, riservato da Marx all’interno della sua dottrina agli aspetti economici della realtà sociale, lo ha condotto a dedicare all’analisi degli stessi  la maggior parte delle sue energie. I suoi sforzi sono stati però pienamente ripagati dagli eccellenti risultati da lui raggiunti in tale ambito, tanto che nessuno può mettere in discussione la fondatezza della quasi totalità delle sue acutissime analisi e la loro, più che mai attuale, validità. Ritengo che, nella misura in cui il marxismo può essere considerato una scienza, lo sia proprio ed esclusivamente in questo campo d’indagine.

Non essendo io un economista, nulla potrei aggiungere agli innumerevoli libri che sono stati scritti, nel corso di oltre un secolo, da valentissimi studiosi della materia, sui meriti di Marx. Mi limito perciò ad esprimere la mia ammirazione per il lavoro marxiano, dicendo che “Il capitale” può essere definito (facendo metaforicamente uso del linguaggio della moderna diagnostica medica per immagini) “un’eccellente TAC” (tomografia assiale computerizzata) del sistema economico capitalistico, grazie al quale il suo autore è riuscito a penetrare all’interno dell’immenso organismo socio-economico-politico borghese, a metterne a nudo la fisiologia e a svelarne, lacerando la candida cute con cui era stato rivestito, le sue maligne, perverse radici.

Come però recita un’antica massima, “errare umanum est”. La perfezione, è cosa nota, non è un attributo che possa essere riconosciuto a nessun uomo e la scienza, proprio in quanto umana, non è affatto un sistema di conoscenze certe, universali ed eterne, ma un sistema di lettura e d’interpretazione del reale, storicamente condizionato e perciò suscettibile di errori e, quindi, di necessarie correzioni. Tanto più poi gli errori sono possibili, quanto più ci si serve dei dati acquisiti mediante l’osservazione e l’analisi del presente, per spingersi prospetticamente innanzi nel tempo e prevedere il futuro.

Ciò premesso voglio appuntare lo sguardo su un punto specifico dell’analisi economica marxiana, nella funzione che il suo autore le ha riconosciuto quale strumento di previsione dei futuri sviluppi e del destino del sistema capitalistico, che mi pare indiscutibilmente errato: la “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Alla luce dell’attuale, spaventosa, ma a mio avviso provvidenziale (se riusciremo a cogliere le potenzialità di trasformazione economico-sociali in senso egualitario in essa contenute) crisi economica che investe ormai tutto il pianeta percorso dall’economia globalizzata, l’analisi critica contenuta in questo breve saggio appare quanto mai opportuna.
E’ qui necessario fornire, a beneficio di chi già non possedesse un’adeguata conoscenza del testo marxiano, una breve esposizione del meccanismo individuato dal filosofo.

Nell’analizzare la genesi del capitale, Marx scopre quella fondamentale “frode” consumata ai danni del lavoratore da parte del capitalista, che indica col termine “plus valore”. Per comprendere  adeguatamente il significato di tale espressione è necessario illustrare alcuni concetti di base dell’economia di mercato. Il cardine intorno a cui ruota tutta l’economia capitalistica è la merce. Merce è tutto ciò che è suscettibile di essere venduto e, naturalmente, acquistato. Il primo elemento che concorre a determinare l’aspetto più caratterizzante  di una merce il valore d’uso: qualsiasi merce, cioè, per poter essere venduta,  deve avere, per chi l’acquista, una qualche utilità vera o presunta, visto che nessuno acquista qualcosa di cui non sa che fare. Il valore d’uso non corrisponde però al valore commerciale di una merce, nè potrebbe corrispondervi, perché non potrebbe costituire un criterio universale di valutazione. Infatti ognuno, in base a quanto considera utile per lui una merce, è disposto a riconoscere a questa un valore minore o maggiore. Visto però che una merce è tale se è oggetto di scambio (se entra cioè nella dinamica di mercato) e visto ancora che la legge universale che regola gli scambi stabilisce che questi avvengano sulla base dell’uguaglianza di valore tra i beni scambiati, è necessario fissare un’unità di misura del valore delle merci; tale unità di misura è il valore-lavoro, vale a dire la quantità di lavoro socialmente necessaria per produrla. In breve, quanto più lavoro richiede la produzione di una merce, tanto più essa vale. Quando Marx usa l’espressione “socialmente necessaria” si riferisce alla produttività sociale media di un certo periodo storico, dal momento che la quantità di lavoro necessaria per produrre una certa merce varia col variare delle caratteristiche del sistema produttivo: ad esempio se prima di introdurre all’interno di una fabbrica l’impiego di una macchina un operaio produceva 10 pezzi del prodotto X nel corso di una giornata lavorativa e  dopo l’introduzione di tale macchina ne produce 100, è evidente che il valore di quella merce subisce un notevole calo. Altri fattori concorrono poi a determinare il valore di mercato di una merce, come ad esempio la scarsità o l’abbondanza della stessa, l’aumento o la diminuzione della domanda o dell’offerta del bene, ecc.

L’autore del Capitale nota che ciò che caratterizza il sistema produttivo capitalistico, distinguendolo dai sistemi delle epoche precedenti, è il fatto che la produzione non è tanto finalizzata alla soddisfazione dei bisogni quanto, piuttosto, alle esigenze del profitto e della conseguente accumulazione di capitale da parte del capitalista. Se quindi il ciclo economico tipico delle società precapitalistiche si può esprimere con la formula “m d m”, quello proprio del capitalismo è sintetizzato dalla formula “d m + d”. Questo significa che se prima un individuo vendeva una merce e col denaro ricavato acquistava altra merce, il capitalista investe del denaro (il capitale) per acquistare una merce che, rivenduta gli consente di ricavare più denaro (più valore) di quanto non ne abbia investito nell’acquisto della stessa. Marx si domanda da dove venga tale plus valore, che non può certo derivare dal denaro, essendo questo un semplice mezzo di scambio. Analizzando il processo produttivo capitalistico egli scopre che in questo il ruolo centrale è svolto dal lavoro, considerato come merce al pari di ogni altra merce.

Il lavoro si presenta però come merce nel sistema capitalistico a causa del fatto che il lavoratore, privato dei mezzi produttivi, è costretto a vendere le sue prestazioni di lavoro (in definitiva se stesso) come merce per poter sopravvivere. Il proprietario dei mezzi di produzione è ben lieto di acquistare la merce-lavoro, perché questa ha la singolarissima caratteristica di rendere più di quanto non costi. Infatti, in base alla fondamentale legge dello scambio, il capitalista corrisponde all’operaio, sotto forma di salario, un valore pari alla quantità di lavoro socialmente necessaria per produrre la merce che questi gli vende, cioè il denaro occorrente perché l’operaio possa mangiare, bere, vestirsi, pagare il fitto di casa, allevare i suoi figli, senza ovviamente disquisire sulla qualità di tutte queste cose, qualità che casualmente è sempre infima. In realtà l’operaio, nel corso della giornata lavorativa, produce l’equivalente del salario che riceve in un tempo decisamente più breve della durata dell’intera giornata: se ad esempio la giornata di lavoro è di dieci ore, egli dopo le prime quattro ha prodotto già il valore equivalente al salario ricevuto. E’ facile allora capire che il valore da lui prodotto  nelle restanti sei ore di lavoro non gli viene corrisposto, ma è intascato, con un’elegante frode, dal padrone della fabbrica sotto forma di plus valore. Ecco svelato il mistero della crescita progressiva del capitale. Quel che alimenta  costantemente tale crescita è appunto il plus valore, il cui saggio si ottiene dividendo il plus valore stesso per il salario dell’operaio, indicato da Marx come “capitale variabile”. Ne segue ovviamente che quanto più basso è il salario corrisposto al lavoratore, tanto maggiore sarà il saggio di plus valore. Marx chiarisce ancora che il plus valore non corrisponde però, sic et simpliciter, al profitto del capitalista, dal momento che questi, perché la fabbrica funzioni, deve investire anche in strutture, macchine, materie prime, energia, cioè in tutto ciò che il nostro autore definisce “capitale costante”.  Ne scaturisce che il saggio di profitto, sempre comunque più basso di quello del plus valore, si calcola dividendo il plus valore per il capitale variabile più il capitale costante.

Si comprende facilmente che il profitto nasce esclusivamente dal plus valore, ragion per cui il capitalista ha tutto l’interesse a far  aumentare sempre più quest’elemento del processo produttivo. A tal fine ricorre a due mezzi. Innanzitutto  aumenta la durata della giornata lavorativa sino alla massima estensione possibile, accrescendo così il plus valore assoluto; quindi, in particolare con l’introduzione di sempre nuove macchine, riduce progressivamente la porzione di tempo entro il quale l’operaio produce l’equivalente del suo salario, ottenendo, in tal modo, plus valore relativo. Anche questa seconda via conduce però ad una meta invalicabile: per quanto si possa ridurre la parte della giornata lavorativa nel corso della quale l’operaio produce l’equivalente del suo salario, la durata temporale di tale porzione non può ridursi indefinitamente e non sarà mai uguale a zero. In più questo secondo sistema comporta il crescente investimento di denaro nell’acquisto di sempre nuove macchine, per cui cresce continuamente il capitale costante. Si comprende allora che: restando stabile il plus valore (a causa dell’ormai raggiunto limite invalicabile su indicato) e aumentando invece progressivamente ed indefinitamente il capitale costante, il saggio di profitto diminuisce progressivamente, portando alla sua naturale morte il sistema capitalistico.

E’ a mio avviso sorprendente il fatto che Marx abbia formulato una prognosi esatta sulla scorta di una diagnosi errata. Se  infatti è senz’altro vero che il sistema capitalistico-borghese, con tutto il suo corredo socio-politico-culturale è destinato all’autodistruzione (destino i cui segni sono già inequivocabilmente evidenti nell’attuale crisi) ciò non avviene per le ragioni individuate dal ragionamento marxiano. L’analisi di Marx, che conduce al concetto della caduta tendenziale del saggio del profitto, non mi ha convinto sin da quando ero uno studente di filosofia ed il meccanismo, preso in esame da tale analisi, più che una patologia letale della società borghese, mi è sempre parso una cura ricostituente, che ha sortito il risultato di irrobustire progressivamente gli esponenti della classe padronale. E’ stato quindi per me quanto mai confortante sapere successivamente che la validità di quella legge è stata contestata anche da Joan Violet Robinson (nota economista di Cambridge, della scuola post-keynesiana), nonché da un valente economista marxista come Paul Marlor Sweezy.
D’altra parte mi pare quanto mai evidente che il risultato più immediato e rilevante dell’impiego di nuove tecnologie nel processo produttivo è la riduzione del capitale variabile, in virtù della sensibilissima diminuzione della mano d’opera, cosa questa, che implica ovviamente l’aumento del saggio di plus valore e la conseguente crescita del saggio del profitto. Se così non fosse non si comprenderebbe la meticolosa attenzione con cui gli imprenditori di qualsiasi settore economico guardano alle novità tecnologiche, il loro concorso economico al finanziamento delle ricerche scientifiche, la pronta sollecitudine con cui adottano le nuove macchine all’interno dei loro opifici.

Le conseguenze di un sempre più massiccio ricorso alla cibernetica, da parte dei capitalisti, ancorché oggetto di un errata diagnosi marxiana, rimangono comunque fatali per il sistema economico borghese, anche se per un’altra via. Se assimiliamo tale sistema ad un organismo vivente, possiamo dire, come per quest’ultimo,  non solo che la sua morte è inevitabile (visto che tutto ciò che nasce muore) ma anche che le cause della sua morte sono inscritte nel suo corredo genetico. Com’è noto, infatti, il “gene” del capitalismo è la morbosa brama dei suoi esponenti di accumulare sempre più capitale; a tal fine il gene ha creato il cuore dell’organismo sociale: il mercato. Un mercato forte e sano garantisce un ottimo stato di salute all’organismo capitalistico. Ciò è talmente vero che le “esigenze del mercato” sono diventate, nella nostra società, sacre, assolute e hanno ormai fagocitato qualsiasi altro bisogno profondamente umano. Le sole, esclusive preoccupazioni dei membri di quella spregevolissima classe di servi che sono i politici, tanto quelli dichiaratamente di destra quanto quelli sempre di destra, ma sedicenti di sinistra, riguardano lo stato di salute dei mercati, a beneficio del quale bisogna sacrificare, come sull’altare di una truculenta, folle divinità, un numero sempre crescente di vittime umane, privilegiando i bimbi in tenera età.
Fuor di metafora, i  mezzi con cui il capitalismo persegue il suo obiettivo sono, come si sa, molteplici. Tra questi  però il ruolo  centrale è rivestito dall’approvvigionamento sempre più a basso costo delle materie prime, dall’apertura di sempre nuovi mercati e dalla progressiva riduzione del costo del lavoro. I primi due fini strumentali sono raggiunti dai magnati dell’industria, della finanza e del commercio (settori economici ormai perfettamente fusi) attraverso la corruzione, la rapina, la guerra, la devastazione seminate su tutta la terra dai governi che ne rappresentano gli sporchi interessi. Tutto ciò viene celebrato dagli esponenti della classe economico-politica borghese, con la vergognosa, ripugnante, oscena complicità servile dei responsabili e degli operatori dell’informazione, come gloriosa globalizzazione
La progressiva riduzione del costo del lavoro è realizzata  tanto attraverso  lo spostamento dei centri di produzione nelle aree sottosviluppate del “terzo mondo” (delocalizzazione) dove ovviamente la mano d’opera ha un costo sensibilmente più basso e non gode di nessuna forma di protezione sindacale che ponga un limite al disumano sfruttamento a cui è soggetta, quanto per mezzo della progressiva riduzione del numero degli occupati nelle aree economiche occidentali, in conseguenza dell’impiego di sempre più perfezionate macchine.

Sia la prima che la seconda soluzione, adottate per ridurre il capitale variabile investito, portano ad una “contrazione” del mercato del lavoro nei paesi industrialmente avanzati. La situazione in queste aree è ulteriormente aggravata  dall’universale diffusione del modello economico-produttivo americano neo-liberista, che comporta l’assoluta precarizzazione del lavoro, e dal crescente “flusso della disperazione”, cioè dal sempre maggior numero di lavoratori immigrati, che dalle loro piagate terre vengono  “negli scintillanti paesi dell’opulenza” a chiedere umilmente di poter ricevere le misere briciole delle risorse loro rapinate dal civile, cristianissimo Occidente. Questi lavoratori (la cui presenza è troppo spesso non registrata) costituiscono una sorta di “colonia, interna terzomondiale”: soggetti  interamente all’arbitrio dei datori di lavoro, ridotti frequentemente in uno stato non dissimile da quello che era proprio degli schiavi negri nelle piantagioni americane, quasi sempre lontani dalle loro famiglie, smarriti in una cultura a loro completamente estranea e tra gente spesso loro ostile, ammassati quasi sempre in tuguri più simili a stalle che a dimore umane, sono costretti ad accettare dei salari miserabili per una giornata di lavoro della durata di dodici/quattordici ore. Gli imprenditori sono ben felici di “accogliere” (con la vergognosa complicità della chiesa che fedele alla sua bi-millenaria tradizione, specula a sua volta sulla disperazione di questi diseredati) questa marea umana senza la quale, come dicono, l’economia nazionale non potrebbe reggere. Se non si può certo dire che il loro giudizio sia errato, è però lecito chiedere loro, con un pizzico d’impertinenza: “Di quale economia nazionale parlate, nobilissimi signori? Di quella del paese reale, composto cioè dalla stragrande maggioranza della gente che lavora, oppure di quella della vostra classe? Aiutateci, per cortesia, a fare chiarezza, perché noi, ignoranti come siamo abbiamo l’impressione che per voi la nazione coincida con la vostra classe, dato che, mentre la vostra economia va a gonfie vele, la nostra non regge già da alcuni decenni o, se si vuol essere più precisi, non ha mai retto”.

Come facilmente si può evincere, dal quadro qui molto sinteticamente tracciato, le manovre poste in essere dalla classe dei capitalisti per aumentare il loro profitto, riducendo la quantità di capitale variabile investito, portano ad una progressiva “asfissia” del mercato, dal momento che i lavoratori precari e sottopagati non possono acquistare molte cose, mentre i disoccupati non acquistano proprio nulla. Abbiamo però visto che il mercato è,  nel sistema capitalistico, l’equivalente di quel che è il cuore in un organismo vivente; così come un cuore atrofico non svolge adeguatamente la sua preziosa funzione di pompare il sangue e farlo circolare in tutti i vasi per portare ossigeno e sostanze vitali in tutti i tessuti dell’corpo, allo stesso modo un mercato atrofico non nutre più l’organismo economico capitalistico. I capitalisti, nonostante il loro smisurato amore per il denaro (o forse proprio per questo) non hanno compreso qual è la sua vera unica funzione, che è quella di facilitare gli scambi: il denaro allora intanto vale in quanto continua incessantemente a circolare, se è accumulato perde qualsiasi valore. Se l’analisi qui esposta è fondata, si comprende benissimo che le titaniche manovre finanziarie, poste in essere dai governi borghesi a favore di banche ed industrie e a spese sempre e comunque della classe lavoratrice, possono a giusto titolo essere assimilate ad una terapia placebo somministrata ad un malato terminale perchè sono per essenza inadeguate sia a porre un argine alla crisi che avanza con ritmo esponenziale sia, soprattutto, a invertire il corso degli eventi. Anzi, lungi dall’essere un rimedio,tali interventi non fanno che buttare “benzina sul fuoco”e accelerare l’ineluttabile implosione del sistema capitalistico. Infatti le colossali somme di denaro che vengono canalizzate verso i forzieri dei padroni, per impedire che questi perdano anche la più piccola frazione del capitale investito nella produzione e non rientrato a causa della crisi del mercato, appartengono ovviamente al pubblico erario e sono “racimolate”stornandole dai capitoli del bilancio statale, originariamente destinati all’allestimento e al funzionamento dei servizi sociali, fruiti soprattutto dal popolo, al quale consentivano una certa “sopravvivenza economica”; questo storno di risorse implica da un lato un progressivo peggioramento dei servizi e dall’altro un crescente aumento dei costi per i cittadini che li utilizzano, aggravando, in tal modo, il loro bilancio familiare e spingendoli ancora di più fuori dal mercato. L’unica via d’uscita dal “braccio della morte”, in cui il capitalismo s’è inconsapevolmente cacciato, sarebbe il porre un limite invalicabile all’accumulazione del capitale, per ridistribuire almeno in parte la ricchezza, ridando vita così al mercato; tale via gli è però geneticamente preclusa  Ecco allora individuato il vero “tallone d’Achille” della società borghese, che la condurrà ineluttabilmente alla morte.

I sintomi di questa morte sono già evidenti non solo nell’ambito economico (finalmente si parla ormai con un po’ d’onestà deontologica anche da parte degli economisti, a proposito della pesante congiuntura che stiamo vivendo, “della più grave crisi economica dagli anni trenta ad oggi”  nonchè di “recessione”) ma anche, e soprattutto nella realtà psichica degli individui e, conseguentemente in ogni settore del corpo sociale. Per quanto io, in contrapposizione a quel che  è sostenuto da Marx, ritenga che la società in tutti i suoi aspetti altro non sia se non il riflesso esterno dello status delle anime degli individui che la compongono, dal momento che, come scrive Jung “le nostre istituzioni non ci cadono dal cielo.” (*)  non posso non riconoscere (e in ciò sento di aver contratto un debito verso il filosofo del comunismo) che le condizioni sociali, nelle quali le anime vivono, agiscono a loro volta come cause, amplificando i vissuti tormentosi degli uomini.

Alla luce di questa correlazione ci rendiamo allora conto che il senso di estrema precarietà, in cui l’umanità contemporanea è costretta a vivere, ingigantisce il suo senso d’insicurezza. L’intero orizzonte socio-esistenziale dell’uomo contemporaneo è costellato di rovine: le istituzioni politico-amministrative sono allo sfascio, gestite da delinquenti matricolati che, oltre a curare i famelici interessi dell’alta borghesia, sono unicamente preoccupati di gonfiare le proprie tasche con il denaro pubblico; le famiglie sono polverizzate o, quando restano fisicamente unite, sono svuotate di qualsiasi forza vitale educativa ed ogni soggetto al loro interno è incapsulato in un’impenetrabile solitudine; i giovani, privi di qualunque slancio ideale, vagano esangui, oscillando tra una discoteca e un pub, giocando ad una sorta di roulette russa tra le droghe e le corse in auto a duecento all’ora; gli esponenti delle forze dell’ordine ed i magistrati (comunque da sempre tutori degli interessi delle classi dominanti) sono ormai così corrotti da non svolgere più nemmeno il ruolo tradizionale di apparente tutela dell’ordine legalitario; l’unità statale è sempre più frantumata dalla nascita di centri di potere sostanzialmente dotati di una sorta di immunità feudale; tutto ciò è aggravato dal terrificante spettro di una prossima “resa incondizionata” della natura alla continua, sempre più efferata, violenza perpetrata su di essa dall’uomo. Sullo sfondo di questo fosco quadro si staglia una crisi di valori quale probabilmente l’umanità non ha mai vissuto nel corso di tutta la sua plurimillenaria storia.

Di fronte a questo scenario, come non parlare di preistoria e di circolarità del tempo? Mutatis mutandis, la nostra epoca ricalca, passo dopo passo, approfondendole, le orme lasciate sul polveroso sentiero della storia dalle eclissi delle civiltà che l’hanno preceduta. La somiglianza appare poi particolarmente impressionante se si confronta il nostro tempo con la grave crisi del mondo romano, già pienamente manifesta nel corso del terzo secolo d. C. Quella crisi condusse, con un’apparente, irrefrenabile, plumbea fatalità, la Civiltà Classica  verso la lunga oscurità dell’Alto Medioevo, in cui comunque brillava la fiaccola della futura Civiltà Cristiana. Dove mai ci condurrà la crisi contemporanea se non sapremo indirizzare con forza e decisione il “timone della nave sociale” verso la “terra dell’uguaglianza della fratellanza e della libertà reali”?

 

(*) V. C. G. Jung, “Presente e futuro”, in “Realtà dell’anima”. Boringhieri editore.