Un bilancio storico-filosofico del movimento non-violento
di Domenico Losurdo
1. Guerra, rivoluzione e «serietà del negativo»
Soprattutto in Germania un clima festoso accompagnò lo scoppio della prima guerra mondiale: le foto ci consegnano l’immagine di giovani che corrono ad arruolarsi con l’entusiasmo col quale si va incontro ad un appuntamento erotico.
Tutto ciò non si verificò più nei paesi (quali l’Italia e gli Usa) che nel gigantesco conflitto intervennero più tardi, quando ormai era sotto gli occhi di tutti che nelle trincee ad attendere erano il fango, l’irreggimentazione totale e la morte. In seguito, neppure le iniziali trionfali vittorie del Blitzkrieg hitleriano riuscirono a resuscitare l’entusiasmo del luglio-agosto 1914. Con buona pace dei postmoderni, impegnati a farsi beffe del concetto di progresso, le grandi esperienze storiche, spesso tragiche, non trascorrono senza lasciare tracce profonde e insegnamenti più o meno diffusi. Si può e si deve insistere sul carattere estremamente tortuoso del processo storico, ma parlare di progresso significa in ultima analisi riconoscere la capacità di apprendimento degli uomini e l’irreversibilità del tempo storico. L’atmosfera incantata del luglio-agosto 1914 non si riprodurrà più: è intervenuto un disincanto che non si lascia più cancellare. Ed è ben difficile altresì che ritorni ad aver credito un’ideologia come quella che si sviluppò nel corso del primo conflitto mondiale e che celebrava la prova delle armi e la sfida della morte quali esercizi spirituali capaci di sottrarre l’individuo alla banalità e alla volgarità dell’esistenza quotidiana. Ai giorni nostri, per giusta che possa essere o apparire una guerra, essa non sarà più accolta come una festa o un esercizio spirituale: per dirla con Hegel, non è più cancellabile l’esperienza della «serietà del negativo» .
Ciò vale anche per la rivoluzione. Proviamo a rileggere Marx. Allorché egli afferma che «le rivoluzioni sono le locomotive della storia» e che «la violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova» , ci troviamo fondamentalmente dinanzi alla constatazione di un fatto. Tocqueville poteva ben affermare, già nel titolo di un capitolo centrale del secondo libro della Democrazia in America, che «le grandi rivoluzioni diventeranno rare». Sennonché, se prendiamo il secolo o secolo e mezzo successivo all’anno (1840) in cui cade quest’affermazione, ci accorgiamo che si tratta del periodo forse più ricco di rivoluzioni della storia universale; e sono stati questi sconvolgimenti a modificare con straordinaria rapidità e radicalità il volto del mondo. Otto anni dopo la pubblicazione del testo appena citato, il Manifesto del partito comunista prevede e auspica sia rivoluzioni proletarie (ovvero «rivoluzioni borghesi» suscettibili di trasformarsi in «rivoluzioni proletarie») sia «rivoluzioni agrarie» e di «liberazione nazionale» contro un ordinamento che trasuda violenza non solo perché fondato sull’oppressione sociale e nazionale, ma anche perché evoca il pericolo della «guerra industriale di annientamento tra le nazioni» . Non c’è dubbio che almeno su questo punto Marx e Engels hanno visto più lontano. Più discutibile ci appare invece un brano dell’Ideologia tedesca:
«La rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società» .
Sia pure con modalità diverse sembra di nuovo fare capolino la visione della prova delle armi quale momento di formazione dell’uomo; e così dilegua la «serietà del negativo», intrinseca anche alla rivoluzione, come è stato confermato in modo particolarmente tragico dalla storia del Novecento. E questa «serietà del negativo» la sentiamo tanto più dolorosamente, per il fatto che il futuro che ci attendeva a conclusione del processo e della violenza rivoluzionaria ha perso molto della sua evidenza e della sua luminosità. Siamo portati a ripetere con Karl Valentin, il cabarettista e amico di Brecht: «Un tempo il futuro era migliore» ! Il giubilo («si stanno realizzando il quarto salmo dei vespri domenicali e il Magnificat: i potenti rovesciati dal trono e il povero riscattato dalla miseria») a cui subito dopo l’ottobre 1917 si abbandonava un osservatore, francese e fervente cristiano (Pierre Pascal) , questo entusiasmo ingenuo è consegnato ormai al passato. Contro i postmoderni possiamo e dobbiamo tener ferma l’idea di progresso, ma ora essa ci appare in tutta la sua problematicità.
La molteplice esperienza della «serietà del negativo», di cui i decenni alle nostre spalle sono stati sin troppo carichi, induce ai giorni nostri personalità e ambienti, che pure hanno attraversato la militanza marxista e comunista, a fare professione di non-violenza. Ben si comprende tutto ciò; peccato però che tale «conversione» non sia preceduta da un serio bilancio storico. Sappiamo delle lacrime e del sangue di cui ha grondato il processo rivoluzionario, anche quello che ha dispiegato una fortissima carica di emancipazione, ma cosa sappiamo delle difficoltà, delle sconfitte o delle vere e proprie tragedie in cui si è imbattuto il movimento ispiratosi all’ideale della non-violenza?
2. «Non-violenza» e inasprimento e prolungamento della violenza
I primi gruppi con tale orientamento cominciano a formarsi negli Stati Uniti nel 1815, sull’onda forse della stanchezza provocata dalla guerra appena conclusa con la Gran Bretagna e, più in generale, dal lungo ciclo bellico in cui era sfociato lo scontro tra Antico regime da un lato e Francia rivoluzionaria e napoleonica dall’altro. Questi gruppi si uniscono nel 1828 per costituire l’American Peace Society, che è animata da uno spirito profondamente pacifista e cristiano, come emerge dal titolo (War Inconsistent with the Religion of Jesus Christ) di un libro pubblicato già diversi anni prima da uno dei principali esponenti di questa organizzazione (David L. Dodge). La presa di posizione è netta: «Lo spirito del martirio è il vero spirito del cristianesimo»; è da considerare «criminale» ogni atto che contraddica al Vangelo e quindi la violenza sotto qualsiasi forma .
Ad essere coinvolto da tale condanna è anche l’istituto della schiavitù, ben vitale nel Sud degli Usa e denunciato quale espressione di violenza e oppressione violenta dell’uomo sull’uomo . Tale atteggiamento non è stupefacente: a lungo, la schiavitù è stata legittimata a partire dal diritto di guerra che il vincitore esercita sullo sconfitto (si pensi in particolare a Grozio); sul versante opposto un autore come Rousseau denuncia la schiavitù quale continuazione per l’appunto dello stato di guerra. A partire da tali presupposti, per qualche tempo negli Usa movimento pacifista e agitazione abolizionista s’intrecciano felicemente. A confermare il legame indissolubile tra le due cause è la guerra che, qualche anno prima della metà dell’Ottocento, gli Stati Uniti scatenano contro il Messico: nel Texas strappato e annesso alla repubblica nordamericana i vincitori reintroducono la schiavitù abolita nel corso della guerra d’indipendenza contro la Spagna. E’ il momento di gloria dell’American Peace Society: gli avvenimenti sembrano confermare in pieno la sua piattaforma politica e ideale.
Ma già qualche anno dopo si manifestano le prime avvisaglie di crisi: che atteggiamento assumere nei confronti della rivoluzione che nel 1848 investe l’intera Europa? Per quanto riguarda la Francia, si tratta di uno sconvolgimento che comporta l’abolizione definitiva della schiavitù nelle colonie, e l’avvento nella metropoli di una repubblica impegnata a rilanciare le speranze e le promesse di pace perpetua scaturite dalla Grande Rivoluzione del 1789. Al contrario che in occasione della guerra contro il Messico, ora impegno pacifista e impegno abolizionista conoscono una divaricazione: è una rivoluzione violenta a sancire l’abolizione della schiavitù e ad agitare la bandiera della pace. Messo in difficoltà dalla nuova situazione, il movimento non-violento statunitense fa ricorso ad un sotterfugio: si rallegra dei risultati, ma non prende posizione sulla rivoluzione che li ha prodotti; tanto più che l’ondata di sconvolgimenti che infuriano in Europa si configura semmai come una serie di guerre civili, non già di guerre interstatali, ed è per scongiurare in primo luogo le guerre interstatali che era sorta l’American Peace Society .
Rimossi alla men peggio nel 1848, i dilemmi politici e morali si ripresentano in forma più acuta nove anni dopo. In India insorgono i Sepoys, le truppe coloniali dell’Impero inglese: il governo di Londra risponde con una repressione non meno feroce o forse più feroce della rivolta stessa. Sennonché l’ideologia dominante si concentra esclusivamente sulla denuncia degli «orrori» degli insorti. Così, ad esempio, Tocqueville, secondo il quale la ricaduta dell’India nella «barbarie» «sarebbe disastrosa per l’avvenire della civilizzazione e per il progresso dell’umanità». Il paese-guida in quel momento dell’Occidente è dunque chiamato ad agire con energia al fine di ristabilire l’ordine pubblico nella colonia: «ai giorni nostri non c’è quasi nulla di impossibile alla nazione inglese, purché essa impieghi tutte le sue risorse e tutta la sua volontà» . Ancora oltre si spinge un altro esponente di primo piano della tradizione liberale, e cioè Thomas B. Macaulay: «Le crudeltà dei nativi Sepoys hanno infiammato la nazione in una misura a mia memoria senza precedenti […] Risuona dappertutto un terribile grido di vendetta […] Il sentimento pressoché universale è che nella cinta di New Delhy non un singolo sepoy dovrebbe essere risparmiato, e io confesso che questo è un sentimento col quale non posso fare a meno di simpatizzare» .
Ben diverso è l’atteggiamento assunto da Marx di fronte a questa «catastrofe». Nel riconoscere che gli insorti si sono resi responsabili di azioni orribili, egli si fa beffe però dell’indignazione morale a senso unico, cui si abbandonano i cantori del colonialismo e della superiore civiltà occidentale: «Per quanto abominevole, la condotta dei Sepoys non è che il riflesso, in forma concentrata, della condotta degli stessi inglesi in India», i quali ultimi continuano ad esercitare «poteri illimitati di vita e di morte» e spesso si vantano delle loro infamie: «Non passa giorno senza infilzare da dieci a quindici [pacifici abitanti]»; «teniamo corte marziale a cavallo, e ogni negro che ci capita sottomano lo passiamo per le armi, o lo fuciliamo». Dichiarato è lo «spasso» che procura tutto ciò. D’altro canto – riconosce il «Times» – «messi di fronte agli indigeni, i soldati europei si trasformano in demoni» .
Come si atteggia, invece, l’American Peace Society? La maggioranza argomenta in questi termini: se anche il dominio dell’Inghilterra in India ha un’origine illegittima, i governanti hanno tuttavia l’obbligo di mantener l’ordine e di farlo rispettare; in altre parole, gli insorti hanno il torto di far ricorso alla violenza, di non rispettare le norme legali vigenti, di essere in ultima analisi dei fuorilegge e dei criminali; e dunque, non di una guerra si tratta bensì di uno scontro tra delinquenza comune e forze dell’ordine; l’appoggio a queste ultime non pregiudica la causa pacifista, la causa di un movimento sorto col compito di combattere le guerre propriamente dette, i conflitti armati tra gli Stati. Può sembrare una replica dell’atteggiamento assunto nel 1848. In realtà, da un lato c’è sì un elemento di continuità: il rifiuto di sussumere le guerre civili e le guerre coloniali sotto la categoria di guerra in quanto tale. Dall’altro lato non si deve perdere di vista il forte elemento di discontinuità: sia pure in modo reticente, nove anni prima si era guardato con favore al movimento rivoluzionario, mentre ora c’è un sostegno aperto e dichiarato alle forze della repressione, responsabili, stando almeno alla denuncia di Marx, della violenza forse più selvaggia o più difficilmente giustificabile. Non a caso interviene una dolorosa lacerazione: la società sorella che si era costituita in Inghilterra, la London Peace Society, non si riconosce nell’atteggiamento dell’American Peace Society e, dissociandosi da essa, non esita a parlare di guerra a proposito del conflitto in India e quindi a condannare la violenza anche del governo inglese . E’ certamente una posizione più equilibrata, e tuttavia l’atteggiamento di imparzialità e neutralità condanna sì, assieme alla rivolta, anche certe espressioni del dominio coloniale, ma il dominio coloniale in quanto tale continua a non essere sussunto sotto la categoria di violenza.
A questa prima crisi del movimento pacifista sviluppatosi sulle due rive dell’Atlantico, si aggiunge un’altra, assai più grave. Nel 1850 viene varata negli Usa la Fugitive Slave Law. Essa consente ai proprietari del Sud di recuperare gli schiavi rifugiatisi nel Nord e comporta anche per i neri liberi il rischio di essere ridotti in condizioni di schiavitù, una volta che siano stati bollati quali schiavi fuggitivi. I tentativi delle forze dell’ordine di mettere in atto questa legge si scontrano con la resistenza anche degli abolizionisti: ne scaturiscono disordini di una certa gravità, che comportano talvolta lo spargimento di sangue. Ed ecco il dilemma dinanzi alla quale viene a trovarsi l’American Peace Society: fino a che punto può spingersi la non-violenza nei confronti di una norma infame ma pur sempre varata da un’autorità legittima e fino a che punto si possono appoggiare i neri che cercano di sottrarsi alla schiavitù rifugiandosi nel Canada? In altre parole, che posizione assumere nei confronti di una guerra civile latente, ma che comincia a diventare manifesta appena qualche anno dopo nel Kansas? Qui lo scontro tra partigiani e oppositori dell’istituto della schiavitù non si ferma a mezza strada: alla violenza fanno ricorso entrambe le parti, e il principio della non-violenza comincia a vacillare anche tra i seguaci dell’American Peace Society.
La situazione precipita con lo scoppio della Guerra di secessione. Inizialmente, tra le file del movimento pacifista, non mancano coloro i quali chiamano l’Unione ad astenersi dal ricorso alle armi e quindi a tollerare la secessione «pacifica» degli stati schiavisti. Ma, dopo Fort Sumter, e cioè dopo che la Confederazione dà fuoco alle polveri attaccando militarmente ed espugnando la postazione dell’Unione collocata sul suo territorio, l’American Peace Society ricompone largamente la sua unità schierandosi con decisione a fianco di Lincoln. Anche in questo caso, per giustificare la sua scelta il movimento impegnato a difendere le ragioni della non-violenza fa ricorso alla strategia argomentativa che già conosciamo: ci si trova di fronte non ad una guerra ma ad una criminale ribellione e alla sua giusta repressione; più che militari nel senso proprio del termine, i soldati dell’Unione sono poliziotti in servizio d’ordine pubblico. E’ un’impostazione che suscita qualche commento ironico: si tratta di un’operazione di polizia di dimensioni mai viste, con la partecipazione di centinaia di migliaia di uomini e con battaglie che per anni divampano su una vasta estensione di territorio e che comportano un grandissimo spargimento di sangue. Possiamo oggi aggiungere che a vedersi negata la qualifica di guerra era un conflitto che pure, per gli Stati Uniti, ha provocato un numero di vittime più alto che le due guerre mondiali messe assieme.
Ma, più che su questo paradosso, conviene soffermarsi su un altro. La preoccupazione della fedeltà al principio della non-violenza spinge la maggioranza dell’American Peace Society a leggere la spedizione contro il Sud come un semplice tentativo di ristabilire l’ordine pubblico: ma, se i soldati dell’Unione sono solo dei poliziotti, i soldati della Confederazione sono delinquenti comuni che vanno perseguiti dalla giustizia anche dopo la fine del conflitto armato. Avviene così che il movimento pacifista respinge ogni misura di clemenza nei confronti degli sconfitti e, in primo luogo, nei confronti del Presidente della Confederazione: in qualche modo, la non-violenza si è rovesciata nel suo contrario, e cioè in un ulteriore inasprimento e prolungamento della violenza.
E’ una dialettica che assume talvolta forme assai inquietanti. Ritorniamo ai dilemmi che emergono alla vigilia e agli inizi della guerra di Secessione e che angosciano in modo particolare Charles Stearns, una delle figure più rigorose e più interessanti del movimento non-violento e abolizionista. Nel 1840 egli si rifiuta di far parte della milizia e si rifiuta altresì di pagare la multa a lui imposta a causa dell’evasione da tale obbligo e così finisce in carcere. Contrariamente ad altri esponenti del movimento, più duttili o più pragmatici, Stearns considera inammissibile il ricorso non solo alla violenza propriamente detta ma anche ad una «forza fisica non ingiuriosa»; alla legittimazione della guerra contenuta nell’Antico Testamento egli contrappone l’etica dell’amore dei nemici propria del Nuovo Testamento. Sennonché, dopo il varo della legge sugli schiavi fuggitivi e soprattutto dopo gli scontri nel Kansas, nel 1856 interviene una crisi profonda: potevano i seguaci della non-violenza assistere senza reagire all’espansione della schiavitù, alla cattura degli schiavi fuggitivi e alla schiavizzazione dei neri liberi, nonché al ferimento e alla morte di coloro che a tutto ciò cercavano di opporsi? Stearns si decide a varcare il Rubicone, o meglio egli ritiene di non varcarlo. Si, la risposta violenta alla violenza è ormai inevitabile, anzi è già in atto, ma a costituire il bersaglio dell’Unione sono esseri assolutamente abominevoli: in ultima analisi essi «non sono uomini ma bestie selvagge», da affrontare ed eliminare alla stregua di «leoni e tigri» . Come si vede, la preoccupazione della fedeltà al principio della non-violenza contro gli esseri umani sfocia nella de-umanizzazione del nemico: la coerenza formale è salva, solo che la violenza è tutt’altro che diminuita. Stearns non sembra neppure sospettare che parole d’ordine analoghe a quelle da lui lanciate presiedono al genocidio dei pellerossa!
Nell’American Peace Society non tutti sono d’accordo. Altri teorizzano in modo franco e consapevole l’inevitabilità, in quelle circostanze, del ricorso alla violenza e quindi della violazione del principio generale della non-violenza: si è venuta a creare una situazione eccezionale, col manifestarsi di un’acuta contraddizione tra due principi ugualmente assoluti e ugualmente irrinunciabili e tra i quali si è tuttavia costretti a scegliere. Ad argomentare così è una donna, Angelina Grimke, con una tradizione quacchera alle spalle, che, prendendo posizione sulla legge relativa agli schiavi fuggitivi e sui conflitti acuti da essa provocati, osserva:
«Benché lo spargimento di sangue umano ripugni profondamente al mio spirito […] tuttavia è per me molto più ripugnante abbandonare supinamente una vittima indifesa al destino dello schiavo […] In questo caso, mi sembra, è come se fossimo costretti a scegliere tra due mali e tutto quello che possiamo fare è di scegliere il minore, battezzando la libertà nel sangue, se così deve essere […] Attualmente dispero in modo totale della possibilità di far trionfare la giustizia e l’umanità senza spargimento di sangue. Una guerra temporanea è un male incomparabilmente minore della schiavitù permanente» .
Il bilancio del movimento non-violento qui analizzato è assai istruttivo: la proclamazione dell’etica incondizionata dell’amore rende difficile l’orientamento nei conflitti che continuano a manifestarsi, sicché il principio generale della non-violenza finisce col condonare la violenza colonialista degli oppressori per concentrare il suo fuoco contro la ribellione violenta degli oppressi. C’è di più: nella misura in cui respinge ogni compromesso e rifiuta di ripensare i suoi principi, il movimento non-violento sfocia nella criminalizzazione e persino nella de-umanizzazione del nemico, col risultato di dare ulteriore impulso alla violenza, e per di più ad una violenza senza regole.
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