Brevi note sulla crisi
Qualcuno credeva che l’ottimismo di Berlusconi sulla crisi fosse la solita anomalia italiana. Invece, in breve tempo, l’ottimismo ha preso a dilagare sulle due sponde dell’Atlantico.
Si tratta di un ottimismo motivato, o siamo soltanto di fronte ad un ottimismo interessato? Dalla risposta a questa domanda dipendono molte cose. Cerchiamo quindi di vederci più chiaro.

Il debito privato diventa pubblico
Come noto, la crisi si è manifestata anzitutto come crac finanziario, instabilità dei mercati, crollo dei titoli azionari. Successivamente è iniziato un serio calo della produzione industriale e del Pil dei principali paesi, al punto che nel 2009 – per la prima volta dal 1945 –  il Pil mondiale subirà una diminuzione. Il tentativo degli Stati (quello statunitense in primo luogo) di stabilizzare il sistema finanziario, con il salvataggio delle banche, ha portato ad una crescita inusitata dei deficit pubblici. Deficit alimentati dalle stesse politiche di “stimolo” alla “crescita”, dai provvedimenti fiscali alle varie “rottamazioni”.
In estrema sintesi la crisi ha quindi tre punti caldi: i mercati finanziari, la produzione, il debito pubblico. Sbagliato soffermarsi soltanto su un aspetto, sbagliatissimo non vederne le connessioni.
Ad oggi, il massiccio intervento statale ha impedito per ora un gigantesco crac finanziario – in pratica il crollo a catena di molte tra le più importanti banche mondiali – ma ha potuto ben poco rispetto alla recessione produttiva, alimentando nel contempo una corsa della spesa pubblica che non  ha precedenti dalla Seconda guerra mondiale.
In breve, quel che è avvenuto nel giro di pochi mesi è raffigurabile come la gigantesca trasformazione di un enorme debito privato in un altrettanto enorme debito pubblico.

Una situazione concreta ma irreale
Il partito degli ottimisti esulta per vari motivi: il crollo finanziario generalizzato è stato evitato, i listini borsistici hanno ripreso a salire nell’ultimo mese e mezzo, vi sono – qua e là – timidi segnali se non di ripresa quantomeno di frenata del calo della produzione industriale.
Tutto ciò giustifica l’ottimismo attualmente in circolazione?
E’ fin troppo facile rispondere di no. Le ragioni strutturali che hanno portato alla crisi finanziaria sono ancora tutte lì. Il tracollo è stato momentaneamente evitato solo grazie ad uno straordinario intervento degli Stati. L’andamento altalenante dei titoli borsistici è facilmente spiegabile con il prevalere dei movimenti speculativi, tanto più forti in momenti di profonda crisi che per loro natura favoriscono grandi oscillazioni spesso nel corso di una sola giornata. In quanto alla produzione, fatta eccezione per alcuni dati contingenti legati a questo o quell’incentivo (vedi il caso del settore auto), tutti i dati volgono verso il basso. Giusto per fare un esempio: in Italia, se fino a qualche tempo fa si prevedeva all’ingrosso un Pil al -2% nel 2009, oggi le previsioni più accreditate parlano di un -4%. E le previsioni (per quel che valgono) sono state ripetutamente riviste al ribasso anche per il 2010.
Sul terzo elemento che abbiamo indicato, il debito pubblico, il silenzio regna sovrano. Ed i più silenziosi sono proprio i vecchi guardiani del dogma rigorista. Quei politici, economisti, opinionisti che quindici anni fa guidavano il partito del rigore di Maastricht. A proposito, qualcuno ricorda più i vecchi parametri di quel trattato, che costarono lacrime e sangue ai popoli europei?
Basta soffermarsi su queste poche cose per rendersi conto che viviamo una strana situazione. Una situazione concreta ma irreale, in cui le classi dominanti immaginano ma rimuovono con orrore l’idea stessa di una crisi sistemica, mentre le classi popolari non riescono neppure ad immaginarla una vera crisi sistemica, tanto è stata rimossa nel profondo l’idea di una possibile società alternativa.

Giova ricordare che
Giova ricordare che anche dopo il 1929 vi furono brevi periodi di ripresa delle Borse. Del resto è molto semplice capire il perché. Se un titolo che valeva 100 ha perso il 50% (questa è la media)  nell’ultimo anno, può facilmente riguadagnare in pochi giorni il 10% di 50 portandosi a 55 in base a movimenti prevalentemente speculativi. E’ quanto sta accadendo in queste settimane. E non poteva essere altrimenti. Il fatto che tutto ciò possa essere scambiato per sintomo di ripresa ci parla soltanto della normale disonestà del potere e dei suoi mezzi di (dis)informazione.
E questo dell’andamento azionario è l’unico elemento oggettivo che il “partito degli ottimisti” può in qualche modo utilizzare per lanciare il messaggio che “il peggio è passato”. Questo messaggio è necessario non solo e non tanto ai governi. Esso è indispensabile per le oligarchie finanziarie che detengono il potere reale. In primo luogo è indispensabile per continuare a narcotizzare il conflitto, affinché prosegua l’impressionante letargia di massa che affligge l’occidente. In secondo luogo è importante per impedire che si affermino qua e là concezioni “stataliste”. Uso questo termine all’ingrosso, giusto per capirci. Le classi dominanti, che hanno preteso e ottenuto l’intervento salvavita dello Stato senza pagare alcun prezzo in termini di potere e proprietà, non vedono l’ora di tornare alla solita musica del liberismo più sfrenato.
Su la Repubblica del 27 aprile, tanto per fare un esempio, la presidente di Confindustria Marcegaglia è tornata ad invocare la liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici, un nuovo innalzamento dell’età pensionabile, ulteriori tagli alla sanità…
Non gli ha risposto la cosiddetta “opposizione”, che con D’Alema (Corriere della Sera del 29 aprile) ha invece rivendicato la propria capacità “riformista” dimostrata negli ultimi 15 anni proprio su pensioni, privatizzazioni e liberalizzazioni.
Gli ha risposto invece Giulio Tremonti (la Repubblica del 28 aprile) con un argomento piuttosto inequivocabile: “non è il momento di spaventare la gente ma di rassicurarla”.

Il vecchio sogno capitalista
L’ottimismo tranquillizzante è dunque fuori luogo. Non più tardi di ieri, i dati del Pil americano nel primo trimestre 2009 hanno fatto segnare un -6,1%, mentre era atteso un -4,7%. Niente male, come segnale di ripresa. Del resto la lettura dei giornali dovrebbe essere più che sufficiente: le crisi aziendali si moltiplicano, la disoccupazione aumenta ovunque, la produzione industriale frana. In Italia, secondo il giornale di quella Confindustria presieduta dall’ottimista Marcegaglia, anche aprile farà segnare un -22% sul dato dell’anno precedente e le cose vanno avanti così ormai da diversi mesi.
Lorsignori dovrebbero dunque andare un po’ più cauti nel raccontar frottole.
Ma se finanza e produzione non vanno affatto bene come si vorrebbe far credere, il caso del debito pubblico merita di essere sottolineato come l’emblema di questo strano momento di passaggio, in cui i fatti concreti non sembrano reali. Ed invece lo sono.
Sul Manifesto di ieri, Marco d’Eramo parla della politica del ministro del tesoro americano Geithner come di colui che ha realizzato “il vecchio sogno capitalista: privatizzare i profitti e socializzare le perdite”. Poche colonne più in là lo stesso d’Eramo ripropone invece i soliti abbagli della sinistra obamiana, ingarbugliando ancora una volta una realtà assai nitida con le illusioni che servono a renderla presentabile.

L’interessante questione del debito pubblico
Veniamo dunque alla questione più rimossa ed al tempo stesso più indicativa di quanto sta avvenendo: la crescita senza freni del debito pubblico.
Secondo le stime rese note una settimana fa dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), il rapporto tra debito pubblico e Pil degli Usa passerà dal 71% del 2008 al 98% del 2010 (+ 38% in due anni!), quello della Germania salirà nello stesso periodo dal 67 all’87% (+ 30%), mentre l’Italia risalirà dal 106% al 121% ed il Giappone arriverà addirittura al record del 227%. Questi sono solo alcuni dati, ma la tendenza è omogenea e generalizzata.
Chi ricorda il trattato di Maastricht sa che per diversi anni due parametri erano diventati dogmi intangibili per gli stati dell’Unione Europea: il debito pubblico non doveva superare il 60% del Pil e chi era sopra (come l’Italia) doveva sbrigarsi a rientrare, mentre il deficit di bilancio non doveva sforare il 3% (oggi siamo, a seconda degli Stati, tra il 5 ed il 10%). Per anni, in Europa, si è discusso di variazioni di un decimale come questioni di vita o di morte. Oggi che il problema non è il +0,1 ma il +30% (caso tedesco) la questione è rimossa dal dibattito politico. Il Fmi la ricorda per dovere d’ufficio, ma il salvataggio delle banche e dell’intero sistema richiede questo ed altro.
Si affaccia però un irriverente interrogativo: ammesso e non concesso (tutt’altro che concesso da parte di chi scrive, ma chi vivrà vedrà) che il 2010 sia l’anno in cui verrà raggiunto il tetto di questa corsa verso l’alto, chi pagherà il conto?
Negli anni del rigorismo inaugurato dalla Tatcher, ed acceleratosi dopo il 1989, la scelta è stata facile: taglio alla spesa sociale e privatizzazione di buona parte delle aziende pubbliche. Per circa un quarto di secolo ha funzionato. Ma ora, cosa resta da privatizzare e da tagliare?
Per cercare di capire l’entità della questione è forse opportuno passare dalle percentuali ai numeri nudi e crudi. Il solo aumento del debito Usa atteso in due anni equivale a circa 3mila miliardi di euro, quasi due volte il Pil italiano. Ma se vogliamo avere un’idea più precisa dei conti del nostro paese possiamo tradurre le previsioni del Fmi in un incremento del debito di circa 240 miliardi di euro. Una cifra enorme in un paese in cui il dibattito politico si è concentrato sul risparmio di 100 milioni di euro con l’election day, o sul presunto risparmio di un’analoga cifra per lo spostamento del G8 all’Aquila…

Un vicolo cieco
Lasciamo perdere queste miserie dell’incredibile Stivale e chiediamoci invece come le classi dominanti a livello globale, a partire dagli Usa, cercheranno di venir fuori da questa situazione. In teoria, l’unica strada sarebbe quella di un consistente incremento della pressione fiscale, necessariamente ricalibrata secondo i vecchi criteri di progressività legata al reddito.
Ma è una via credibile? Il già citato d’Eramo non manca di interrogarsi su questo punto: “Il paradosso della politica economica obamiana è che è keynesiana sul fronte della spesa ma friedmaniana sulle entrate: Obama ha tagliato ulteriormente le tasse per il ceto medio e il livello del prelievo fiscale è il più basso da 70 anni a questa parte. Già solo tornare al livello di tassazione di Clinton sembra una prospettiva politica inagibile”.
Ecco qua il vicolo cieco del capitalismo reale al tempo della crisi 2008 – …?. Un vicolo cieco reso tale non solo dal macroscopico egoismo sociale delle classi dominanti e della stessa classe media occidentale, che rende impronunciabile ogni discorso di semplice redistribuzione della ricchezza, ma anche dal peso che queste classi hanno nella dinamica dei consumi interni all’area imperialista. Verranno perciò cercate altre strade. Il che non significa che non vi saranno (anzi vi saranno di certo) lievi misure redistributive, giusto per poter dire (come uno sfortunato manifesto del Prc all’epoca di Prodi) che “anche i ricchi piangono”. Ma questa sarà solo la facciata. Quale sarà invece la sostanza?

L’inflazione prossima ventura
L’unica strada, ammesso e non concesso che prima venga davvero stabilizzato il sistema finanziario e minimamente rilanciato quello produttivo, ha un nome ben preciso: inflazione.
Più esattamente: inflazione elevata e pilotata al fine di ridurre sia il debito a tasso fisso delle aziende, sia quello gigantesco degli Stati.
Lo schema teorico è assai semplice. Se uno Stato paga un tasso medio del 5% sul debito, trarrà enormi benefici da un’inflazione del 10%, a condizione che tale vantaggio possa stabilizzarsi per un certo numero di anni. Quest’ultima condizione è però assai improbabile (i titoli scadono ed i possessori non sono generalmente favorevoli a farsi spennare) al di fuori di situazioni eccezionali (guerre) che giustifichino provvedimenti d’emergenza. Naturalmente potrebbe anche essere sufficiente un picco inflattivo concentrato nel tempo, ma di valore elevatissimo. Anche questa ipotesi sembra però impraticabile al di fuori di situazioni d’emergenza che potrebbero giustificarla.
Ad oggi le classi dominanti sono ancora impegnate prevalentemente sul fronte finanziario, nella speranza che l’aver evitato un crac generalizzato finisca per riavviare in qualche modo i meccanismi della “crescita”. E’ dunque presto per capire come vorranno attrezzarsi alla fase successiva.
Quel che invece è sicuro è il profilarsi di un futuro di lacrime e sangue per le classi popolari. Un futuro drammatico al quale opporsi non con l’illusione riformista, sia essa di matrice politica piuttosto che sindacale, ma con la costruzione di una nuova alternativa rivoluzionaria.