Brevi note su Assemblea Onu e G20

Dal finto disarmo atomico alle vere minacce all’Iran, passando per la crisi che non finisce, il “multilateralismo monopolare” ed il fallimento annunciato della Conferenza di Copenaghen

A luglio ci occupammo del pensionamento del G8 celebrato a L’Aquila. Sono passati appena due mesi ed è archiviato anche il G20 di Pittsburgh, preceduto dalla solita passerella settembrina dell’Assemblea generale dell’Onu.

Qualcuno saprebbe racchiudere in una frase il senso di questi vertici? Impresa disperata. A Pittsburgh all’ordine del giorno c’era la crisi economica, ma la cosa più importante è stata la dichiarazione a 3 (Obama, Sarkozy, Brown: ma non erano in 20?) contro l’Iran. All’Onu i principali detentori di armi atomiche hanno fatto finta di deliberare un qualche disarmo, peccato che in mezzo a tanta enfasi si siano scordati di elencare anche un solo impegno concreto che li riguardi.

Stranezze dei vertici e dei loro protagonisti, ma anche segno dei tempi. Segno di una confusione tipica dei momenti di passaggio. Tuttavia, anche nell’attuale confusione, è utile cercare di cogliere i fatti politici più significativi. E mentre in Italia si discute sul significato epocale della stretta di mano a distanza – ecco a cosa servono le braccia lunghe! – tra Michelle Obama e Silvio Berlusconi, proviamo a capire quello che hanno veramente detto i vertici in terra americana su cinque  questioni: la crisi, i mutamenti climatici, il multilateralismo, gli armamenti atomici, l’Iran.

1. La crisi – Tutti vedono rosa, ma nessun vuol parlare di “exit strategy”

Sulla crisi anche per i potenti della Terra è ben difficile andare oltre i soliti riti propiziatori.
A Pittsburgh hanno giurato che il peggio è passato, che se si è evitato il baratro il merito è loro, che ora bisogna favorire la mitica “ripresa”, ma naturalmente promuovendo uno “sviluppo sostenibile” e “riducendo gli squilibri globali”. Cosa c’è dietro queste stucchevoli frasi fatte? C’è il via libera ai padroni della finanza mondiale, la speranza che la Cina possa trainare i consumi, la determinazione a garantire l’attuale strutturazione di classe e l’attuale distribuzione della ricchezza.
A Pittsburgh anche le più moderate proposte di tassazione della rendita finanziaria e di controllo sulle attività più speculative, come i “derivati non regolamentati”, sono state bocciate. Perfino sui famosi bonus dei manager – questione scelta come simbolo da Sarkozy – la decisione è stata quella di non fissare alcun tetto, giusto per non lasciar dubbi sull’aria che tira.

Due decisioni dicono però come stanno veramente le cose dietro all’ostentato ottimismo di facciata.
La prima è che i 20 hanno convenuto che non è ancora il momento di parlare di exit strategy, segno evidente della consapevolezza dello scarso significato dell’attuale ripresina. Segno anche di una grande incertezza sulla sua eventuale distribuzione geografica. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) prevede per il 2010 un + 3% del Pil mondiale, ma, ammesso e non concesso che tale previsione si realizzi, chi ne beneficierà realmente? L’Ocse, ad esempio, prevede entro il 2010 il raddoppio dei disoccupati rispetto alla situazione ante-crisi nei 30 paesi più industrializzati.
Grande è l’incertezza e dunque, prudentemente, nessuna exit strategy, ma solo l’invito ai ministri delle finanze affinché comincino a lavorarci su. Ma con molta calma.
Di questa mitica exit strategy dovrà inevitabilmente far parte la questione dei dissestati bilanci pubblici, chiamati nell’ultimo anno a farsi carico dell’enorme debito privato dei grandi gruppi capitalistici, bancari e non solo. Questione che ha fatto capolino a Pittsburgh, ma solo per essere di fatto accantonata. Ogni paese si impegna ad un generico rispetto dei vincoli di bilancio, ma benché siano previste verifiche periodiche è ben difficile che questi impegni possano avere la pur minima attuazione. Insomma, dietro l’ottimismo di rito, i governi del G20 hanno ben chiaro che l’emergenza è tutt’altro che finita.

2. Il clima – Il fallimento annunciato di Copenaghen

Dopo tanta retorica sulla “rivoluzione verde” di Obama, Pittsburgh ha ufficialmente annunciato il fallimento della prossima Conferenza Onu di Copenaghen.
Nel comunicato finale si legge che i membri del G20 si impegnano ad “intensificare gli sforzi, in cooperazione con le altre parti, per raggiungere un accordo a Copenaghen”. Su quali basi ovviamente non viene detto.
Quel che appare ormai certo è che da Copenaghen non uscirà alcun trattato, con vincoli precisi (benché insufficienti e per giunta inattuati) come quelli decisi a Kyoto negli anni ’90. Uscirà soltanto una sorta di dichiarazione d’intenti da perfezionare nel tempo.
La genericità e la terminologia della dichiarazione di Pittsburgh conferma che questa è la strada imboccata. In questo caso la montagna ha davvero partorito assai meno del vituperato topolino. Lo “sviluppo” capitalistico ha la preminenza su ogni altra considerazione. I problemi ambientali e climatici sono lasciati alla cinematografia, che la politica ha ben altro da fare.
Dov’è allora la pretesa “svolta ecologista” del presidente americano? Certamente è nello sforzo di lanciare il “business verde” come settore potenzialmente trainante dell’economia per i prossimi anni. Al di fuori di ciò non si vede proprio alcuna svolta. La morte anticipata delle illusioni che alcuni riponevano sull’appuntamento di Copenaghen è lì a dimostrarlo.

3. Un multilateralismo un pò troppo monopolare

Obama: non faremo più da soli”. “Serve l’impegno di tutti per una nuova era di pace”. Sono questi il titolo ed il sottotitolo scelti dal Corriere della Sera del 24 settembre per annunciare il discorso del presidente americano all’Onu.
E’ lo stesso giornale a chiarire il pensiero di Obama: “A coloro che «castigavano l’America per voler agire da sola sulla scena internazionale», Obama ha detto chiaramente che «non possono più stare a guardare e attendere che Washington risolva da sola i problemi del mondo». E’ «giunto il tempo di assumerci ognuno la nostra parte di responsabilità, per dare una risposta globale a sfide che sono globali»”.

Ad Obama tocca il difficile compito di aprire al multipolarismo come mezzo per mantenere l’egemonia mondiale. Conseguentemente egli chiede ad altri, in primo luogo all’Unione Europea, di aggregarsi al carro americano che è l’unico che può vincere la sfida strategica con le emergenti potenze asiatiche, in primo luogo la Cina.
Nel frattempo gli Stati Uniti hanno altre impellenze, non solo sul fronte economico, ma anche su quello politico-militare (Afghanistan e Medio Oriente in particolare). Obama cerca dunque un modus vivendi con la Cina, da qui la decisione resa nota a Pittsburgh di riconoscergli un ruolo maggiore nel Fmi. Una scelta necessaria, visti gli attuali rapporti di forza, non certo una concessione al multipolarismo che Washington continua a rifuggire come la peste.
Abbiamo scritto più volte che l’obamismo segna il passaggio, peraltro già iniziato nell’ultima fase della presidenza Bush, dalle guerre imperialiste fatte dagli Usa in nome dell’occidente, alle guerre dell’occidente a guida americana (vedi l’evidente caso afghano).
Il discorso pronunciato all’Onu, l’atteggiamento di questi mesi (basti pensare alla pervicace volontà di isolare la Russia dall’Europa, anche a costo di scontrarsi con alleati per altri versi fin troppo docili come l’Italia, sulla questione dei gasdotti), ed in ultimo le gravissime minacce rivolte all’Iran, mostrano esattamente quanto la pretesa apertura al multilateralismo altro non sia che la versione soft ed edulcorata del tradizionale monopolarismo a stelle e strisce.

4. La bufala del disarmo atomico

La risoluzione storica che abbiamo appena approvato sottolinea il nostro impegno condiviso all’obiettivo di un mondo senza ordigni nucleari e l’accordo del Consiglio di sicurezza per un ampio quadro di azione per ridurre i pericoli nucleari mano a mano che ci impegniamo verso questo obiettivo”.
Mai menzogna fu più grande di questa dichiarazione di Obama, fatta subito dopo l’approvazione della risoluzione 1887 delle Nazioni Unite, il 24 settembre scorso.
La risoluzione del Consiglio di sicurezza, infatti, è stata presentata come la prima tappa per arrivare ad un mondo senza armi atomiche, ma in realtà non prevede alcun impegno concreto per i possessori degli attuali arsenali nucleari, a partire da quello detenuto proprio dal promotore della risoluzione, Barack Obama.
Si chiede a chi non ha l’atomica di rinunciarvi, ma non si capisce se mai vi rinuncerà chi già la possiede. Si chiede a chi non ha sottoscritto il Trattato di non proliferazione (Tnp) di entrarne a far parte, ma niente si dice su chi non ha firmato quello che mette al bando i test (Ctbt), trattato per ora non sottoscritto tra gli altri proprio dagli Stati Uniti.

Insomma, come sempre quando si parla di armi atomiche, il criterio è chiaro: chi fa parte del club atomico non ha limiti, chi ne è fuori si impegni a restarci. Una pretesa un po’ troppo sfacciata, specie in tempi complicati e roventi come quelli attuali.
E’ evidente come tutto ciò serva in realtà a preparare l’aggressione all’Iran. Che venga presentato come un rinnovato sforzo di pace non sorprende. Ma chi ha voglia di credere a queste panzane, perché non rivolge ai possessori dell’atomica l’unica domanda sensata: quando smantellerete i vostri arsenali, od almeno, quando e come comincerete a farlo?
Questa domanda, proprio perché sensata, è ovviamente proibita. Basta questo tabù a svelarci l’ipocrisia e la strumentalità del rinnovato interesse americano per il “disarmo atomico”, laddove per disarmo si deve evidentemente intendere solo ed esclusivamente il disarmo degli altri.

5. Le minacce all’Iran

Dopo tanta retorica pacifista, alle 8 di mattina del 25 settembre, Obama, Sarkozy e Brown si presentano nella sala stampa di Pittsburgh per gettare la maschera: nel mirino c’è l’Iran, accusato di aver allestito un impianto nucleare segreto.
Da qui alle minacce il passo è breve: “Non escludiamo nessuna opzione per difendere gli Usa”, queste le parole del “pacifista” Obama, che ha aggiunto di aspettarsi “azioni concrete” da parte di Teheran, che altrimenti “dovrà renderne conto”. Stessa la linea di Sarkozy e Brown, che già nel Consiglio di sicurezza avevano attaccato l’Iran e la Corea del Nord (ovviamente non Israele), tanto per rendere chiaro qual era la vera materia in discussione, altro che disarmo!

Ora, si dà il caso che l’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) abbia diramato il 26 settembre un comunicato, dalla sua sede di Vienna, in cui dà notizia di essere stata informata ufficialmente dall’Iran, in data 21 settembre, dell’esistenza di un secondo impianto oltre a quello già noto di Natanz. Il portavoce dell’Agenzia, Marc Vidricaire ha dichiarato che la lettera è stata inoltrata al direttore generale dell’Agenzia, l’egiziano El Baradei. Il portavoce ha affermato che le autorità iraniane hanno precisato che si tratterebbe di una struttura-pilota ancora in fase di costruzione, dunque incompleta, destinata esclusivamente allo sviluppo di combustibile nucleare, a sua volta destinato soltanto alla produzione di energia elettrica.
Dov’è allora lo scoop di Obama e soci, se l’Aiea era già stata informata 4 giorni prima?

Agendo in questo modo si vuole mettere Teheran dalla parte del torto comunque si muova. Se non informa l’Aiea delle sue attività viene accusata di attività segrete, se la informa la si accusa automaticamente di attività illecite.
E’ uno schema collaudato che entra in gioco ogni volta che si sta preparando un’aggressione. Se l’Iraq di Saddam Hussein non voleva far entrare gli ispettori la si accusava di nascondere le famose “armi di distruzione di massa”, se invece li faceva entrare anche il più innocuo dei missili difensivi diventava una pericolosa arma da smantellare.

In un’intervista al Time, il presidente iraniano Ahmadinejad ha giustamente dichiarato che: “Non c’è scritto  da nessuna parte che noi si debba informare l’amministrazione del signor Obama circa ogni impianto che abbiamo“.
Talmente ovvio che diventerà un nuovo argomento d’accusa.