In memoria di un rivoluzionario (seconda parte)

Il primo ottobre del 1966 ricorreva il diciassettesimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese. Era passato poco più di un mese dall’inizio della Rivoluzione culturale, il cui primo clamoroso risultato fu l’esautorazione del potentissimo Liu Shaoqui dalla guida del Partito comunista. Quel primo ottobre Lin Biao pronunciò, davanti ad una manifestazione sterminata di Guardie rosse, il discorso ufficiale a nome della direzione del Pcc. Un discorso breve ma estremamente significativo, i cui due assi portanti, strettamente connessi l’uno all’altro, erano il giudizio sull’importanza storica della Rivoluzione culturale e quello sul posto che la Cina occupava nella lotta antimperialista internazionale.

 

Sul primo punto, il significato e il valore della Rivoluzione culturale, Lin Biao riproponeva, tratteggiandola in poche pennellate, quella che era la specifica concezione maoista, opposta a quella staliniana di Liu Shaoqui,  per cui la lotta di classe avrebbe segnato anche tutta la fase di costruzione del socialismo, per cui il partito dirigente doveva agire come forza motrice del processo di rivoluzione permanente, nient’affatto limitarsi ad essere un organo precipuamente burocratico e amministrativo. E’ sul piano della strategia rivoluzionaria a scala internazionale che Lin, appoggiandosi alla strategia di Mao Zedong fondata sui due pilastri della “guerra prolungata di popolo” e della “rivoluzione per la nuova democrazia”, aggiungeva il suo specifico contributo.

Sentiamo.
«L’imperialismo americano è deciso a perseguire la strada che porta ad  una guerra mondiale. Noi dobbiamo prendere in seria considerazione questa tendenza. Il punto focale della lotta attuale risiede in Vietnam. Noi dobbiamo prepararci. Senza sottrarci dal compiere i massimi sacrifici nazionali, siamo determinati a dare il nostro fermo sostegno al popolo fratello del Vietnam mentre conduce la guerra di resistenza contro l’aggressione americana per condurla fino alla sua conclusione.
L’imperialismo guidato dagli Stati Uniti e il moderno revisionismo della direzione del PCUS sono collusi, stanno complottando con truffaldini negoziati di pace allo scopo di domare le violente fiamme della guerra nazionale rivoluzionaria del popolo vietnamita contro l’aggressione americana, e delle lotte nazionali rivoluzionarie in Asia, Africa e America Latina, le fiamme della rivoluzione mondiale. (…) Venti anni fa il Presidente Mao disse che i popoli del mondo intero avrebbero dovuto  formare un fronte unito contro l’imperialismo americano fino alla sua disfatta. I popoli rivoluzionari del mondo stanno oggi avanzando su questa strada».

Emerge con particolare nitidezza quale fosse l’ossatura della concezione strategica di Lin, quella concezione che, passata la bufera della Rivoluzione culturale, la direzione del Pcc seppellirà assieme al corpo del suo messaggero (operazione che ebbe la sua consacrazione nello scandaloso incontro tra Nixon e Mao nel  febbraio del 1972). Quali erano propriamente i punti cardinali della concezione strategica di Lin? Elenchiamoli: (1) Il segno distintivo dell’epoca era la lotta irriducibile tra l’imperialismo e i popoli oppressi; (2) l’imperialismo, capeggiato dal nemico principale rappresentato dagli USA, spingeva il mondo verso una nuova conflagrazione mondiale; (3) la Cina doveva prepararsi ad affrontare questo conflitto risolutivo che avrebbe deciso l’esito della lotta storica tra socialismo e capitalismo; (4) il punto focale della lotta mondiale era il Vietnam, e per questo la Cina non poteva sottrarsi dal fornire un appoggio incondizionato; (5) il sostegno al Vietnam era tanto più decisivo perché la “direzione revisionista” del PCUS (non l’URSS in quanto tale, si badi bene) cercava, intrappolando così il movimento comunista mondiale, un compromesso con l’imperialismo americano alle spalle della lotta rivoluzionaria dei popoli oppressi; (6) contro ogni compromesso con l’imperialismo americano la Cina doveva farsi campione, non a parole ma nei fatti, di un fronte unito antimperialista a scala mondiale.

Lin Biao ribadirà successivamente questo suo pensiero, non soltanto in occasione dei grandi raduni di massa che si succedettero per tutta la durata della Rivoluzione culturale, ma nelle riunioni dei vertici dell’Esercito Popolare di Liberazione, come pure nelle diverse riunioni ufficiali del Pcc.
Come Lin saldasse in un unico coerente ragionamento la questione della trasformazione socialista della Cina a quella della rivoluzione mondiale, riagganciandosi in tal modo alle più autentiche concezioni bolsceviche, lo mostrerà col suo Rapporto al IX Congresso del Pcc, riunitosi nell’aprile del 1969, quando la Rivoluzione culturale iniziava a scemare e l’Esercito, non senza spargimenti di sangue, era riuscito a domare sia la destra del partito che le tendenze più estremiste delle Guardie Rosse.

Il Rapporto era quasi interamente dedicato alla Rivoluzione culturale, al suo significato e ai suoi risultati. Essa aveva vinto, la destra del partito e le tendenze burocratiche e tecnocratiche battute (Deng Xiaoping, nonostante godesse  della personale protezione di Mao era stato momentaneamente espulso dal Pcc un anno prima) ma non si poteva certo parlare di vittoria risolutiva: «La vittoria finale in un paese socialista non solo richiede gli sforzi del proletariato e delle larghe masse popolari del proprio paese, ma dipende anche dalla vittoria della rivoluzione mondiale e dall’abolizione del sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo su tutta la terra».
Un Congresso, quello dell’aprile del 1969, che si svolse appunto, forte del ruolo decisivo dell’Esercito, all’insegna della momentanea vittoria di Lin Biao nel Pcc. Una vittoria che venne sancita dall’adozione di un nuovo statuto del partito (che non a caso sarà prontamente abrogato quando Deng ritornerà in auge), uno statuto che pur ribadendo la centralità del partito stesso, proprio nei suoi primi dieci articoli, raccoglieva ed enfatizzava la potente spinta antiburocratica dal basso della Rivoluzione culturale.

Ma occorre fare un passo indietro per mettere meglio a fuoco la concezione strategica di Lin. Esattamente al settembre 1965, al suo discorso in occasione dell’anniversario dell’inizio della guerra di Resistenza contro il Giappone. Tutta la prima parte del discorso è una appassionata perorazione della concezione maoista della “guerra popolare prolungata”, condensata nella nota formula dei sedici ideogrammi: «Il nemico avanza, noi indietreggiamo; il nemico si ferma, noi lo molestiamo; il nemico si indebolisce, noi lo attacchiamo; il nemico indietreggia, noi lo inseguiamo».

Nella seconda parte, e vale la pena citarla ampiamente, Lin Biao aggiunge invece il suo contributo originale. L’asse del ragionamento è netto: la guerra popolare prolungata, sorta nelle specifiche condizioni della Cina moderna soggiogata dagli imperialisti, aveva in verità un valore internazionale, poteva e doveva diventare, nel contesto del fronte unico antimperialista internazionale, la modalità principale della lotta rivoluzionaria. Veniva dunque contestato alla radice il perno stesso del ragionamento di Krusciov e dei sovietici, quello per cui, nell’epoca della armi nucleari, solo chi ne fosse provvisto avrebbe potuto sfidare l’imperialismo americano. Ma Lin va ben oltre, e così tratteggia la sua visione:
«Le  vaste regioni dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina sono il principale teatro dell’opposizione violenta dei popoli all’imperialismo americano e ai suoi lacché. Sono esse che nel mondo subiscono il maggior peso dell’oppressione imperialista; ma è anche presso questi popoli che la dominazione imperialista è più vulnerabile. Le tempeste rivoluzionarie che sono scoppiate in questi paesi dopo la seconda guerra mondiale e che aumentano ininterrottamente di intensità, sono diventate la forza principale che oggi sferra dei colpi diretti all’imperialismo americano. La contraddizione tra i popoli rivoluzionari dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e gli imperialisti capeggiati dagli USA, è la principale contraddizione del mondo contemporaneo. Il suo sviluppo è il motore della lotta dei popoli contro l’imperialismo americano e i suoi lacché. (…)
Molti popoli e paesi di questi tre continenti sono oggi pericolosamente esposti all’aggressione e all’asservimento degli imperialisti, capeggiati dagli Stati Uniti. La situazione politica ed economica di molti di questi paesi presenta diverse analogie con la situazione che presentava in passato la Cina.
Qui, come in Cina, la questione contadina è estremamente importante. I contadini solo la forza principale della rivoluzione nazionale e democratica contro l’imperialismo e i suoi lacché.
Invadendo questi paesi, gli imperialisti hanno sempre occupato anzitutto le grandi città e le vie di comunicazione importanti, ma non sono mai riusciti a controllare interamente le ampie zone rurali. La campagna è il mondo senza confini in cui i rivoluzionari possono agire in tutta libertà. La campagna è la sola base rivoluzionaria dalla quale i rivoluzionari possono compiere i primi passi verso la vittoria finale. Così la teoria del compagno Mao Zedong sulla creazione di basi rivoluzionarie nelle zone rurali e l’accerchiamento delle città da parte della campagna attira sempre più l’attenzione dei popoli di questi continenti.
Se si considera il mondo nel suo complesso, l’America del Nord e l’Europa Occidentale, possono essere considerate le “città”, mente l’Asia, l’Africa e l’America Latina “le campagne”. Il movimento rivoluzionario del proletariato dei paesi capitalistici dell’America del Nord e dell’Europa Occidentale ha provvisoriamente segnato il passo per vari motivi dopo la seconda guerra mondiale, mentre il movimento rivoluzionario dei popoli d’Asia, Africa e America Latina si è sviluppato vigorosamente. E in un certo senso, la rivoluzione mondiale conosce oggi una situazione che vede le città accerchiate dalla campagna. E’ infine dalla lotta rivoluzionaria dei popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, ove vive la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, che dipende la causa della rivoluzione mondiale. Perciò i paesi socialisti devono considerare l’appoggio da fornire alla lotta rivoluzionaria dei popoli di questi tre continenti, come dovere internazionalista.
La Rivoluzione d’Ottobre ha inaugurato un’epoca nuova per la rivoluzione delle nazioni oppresse. Il suo trionfo ha gettato un ponte tra la rivoluzione socialista proletaria d’Occidente e la rivoluzione nazionale e democratica dei paesi coloniali e semicoloniali d’Oriente. E la rivoluzione cinese ha dato una risposta decisiva al problema del rapporto tra rivoluzione nazionale e democratica e rivoluzione socialista dei paesi coloniali e semicoloniali.
Il compagno Mao Zedong ha dimostrato che tutte le rivoluzioni antimperialiste che si sono prodotte, o si produrranno nei paesi coloniali o semicoloniali in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, non fanno più parte della rivoluzione mondiale borghese, capitalistica, ma della nuova rivoluzione mondiale, cioè della rivoluzione mondiale proletaria e socialista.
Sulla “rivoluzione per una nuova democrazia”, Mao ha formulato una teoria che costituisce un tutto organico … essa ha come bersaglio l’imperialismo, il feudalesimo, il capitalismo burocratico… Questa Rivoluzione non può essere guidata che da un partito autenticamente rivoluzionario e marxista-leninista.. Ad essa non partecipano solo gli operai, i contadini, la piccola borghesia urbana, ma anche la borghesia nazionale e tutti gli altri democratici antimperialisti e patrioti… La “Rivoluzione per una nuova democrazia” è quindi orientata verso il socialismo e non verso il capitalismo.
La teoria del compagno Mao sulla “Rivoluzione per la nuova democrazia” racchiude nel contempo sia la teoria marxista-leninista della rivoluzione, suddivisa in varie fasi, che la teoria marxista della “rivoluzione permanente”.
Il compagno Mao Zedong ha operato, a ragione, una distinzione tra le due fasi della rivoluzione, quella della rivoluzione nazionale e democratica e quella della rivoluzione socialista, mettendole in stretta relazione. La rivoluzione nazionale e democratica è l’indispensabile premessa della rivoluzione socialista cui essa tende nel corso del suo sviluppo. Non esiste comunque nessuna barriera insuperabile tra queste due fasi della rivoluzione, ma solo dopo il compimento della rivoluzione nazionale e democratica si può pensare alla rivoluzione socialista. E più sarà realizzata fino in fondo la prima, migliori saranno le condizioni necessarie per la seconda».

Siamo in presenza, non solo di una decisa difesa del pensiero e della strategia maoisti (anche per quanto attiene alla critica alle concezioni autoritarie e tecnocratiche di Stalin sull’edificazione socialista), c’è qui una torsione internazionalista e antimperialista decisa, che connota anzi il discorso di Lin come discorso “offensivista”.
Se eravamo entrati nella fase decisiva della lotta contro l’imperialismo, nella fase della guerra civile internazionale, allora occorreva giocarsi la partita passando all’attacco sui tre fronti dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina per accerchiare ed abbattere le roccaforti imperiali.
La Cina non poteva tirarsi indietro, poiché il suo stesso avvenire socialista veniva a dipendere dall’esito della guerra antimperialista mondiale. E siccome il Vietnam era il punto focale di questa battaglia epocale, tutto veniva a dipendere dall’esito della sconfitta o della vittoria dei rivoluzionari vietnamiti. Di qui la posizione di Lin per cui la Cina si sarebbe dovuta gettare nella mischia con un sostegno più efficace e perentorio, non solo parolaio, al popolo del Vietnam.
Il nesso inscindibile che Lin Biao stabilisce tra la costruzione del socialismo in Cina e lo sviluppo della rivoluzione antimperialista mondiale, l’idea che non ci sia una muraglia tra la rivoluzione democratica nazionale e quella socialista, mutatis mutandis, fa di Lin il Trotsky cinese. La sua stessa critica alla politica internazionale della direzione “revisionista” sovietica, accusata di cercare un impossibile compromesso con l’imperialismo e i suoi lacché, è anch’essa simile a quella che Trotsky rivolse al Cremlino ai  tempi in cui il carnefice Chang Kaishek era il pupillo di Stalin, o quando Mosca sacrificava la rivoluzione spagnola per difendere l’alleanza con l’imperialismo anglosassone (“Fronti popolari”) in nome della lotta al fascismo.
Come detto sopra l’eliminazione di Lin Biao dalla scena politica nel settembre del 1971, la purga delle migliaia di quadri linbiaoisti sia nell’Esercito che nel partito, segnarono la disfatta della sua proposta strategica all’interno del Pcc. Chiusa la parentesi della “banda dei quattro”, grazie al pontiere Zhou Enlai, si vedrà come la disfatta dell’ala internazionalista fece da apripista all’avvento di quella nazionalista impersonata da Deng Xiaoping, quella orientata a fare della Cina una grande potenza politica non grazie all’avanzata della rivoluzione, ma grazie alla modernizzazione capitalistica dell’economia.

L’onore che si deve portare al rivoluzionario Lin Biao non deve quindi impedirci di segnalare il suo più grave errore politico, che non fu quello di essersi illuso di avere battuto per sempre la destra del partito, che anzi, come abbiamo visto, egli riteneva ben viva nonostante la Rivoluzione culturale. Il suo errore fu quello di non avere compreso che proprio a causa della Rivoluzione culturale (senza la cataclismatica demolizione degli immarcescibili costumi conservatori confuciani nessuna modernizzazione della Cina avrebbe potuto avere successo) la vecchia destra staliniana capeggiata da Liou Shaoqi avrebbe lasciato il posto alla nuova destra denghista, che saprà declinare la peculiare tradizione politica maoista con un nuovo ambizioso disegno di potenza.
Sbagliava quindi Lin quando, sempre nel suo Rapporto al IX Congresso del Pcc dell’aprile del 1969, affermava che “… l’eventuale vittoria del revisionismo cinese avrebbe portato alla restaurazione del capitalismo. Se questo accadrà la Cina tornerebbe indietro, ridiventerebbe un paese coloniale e semi-coloniale, feudale o semi-feudale, e il popolo ripiomberebbe sotto la rude tirannia degli imperialisti”.
Si è data in realtà un’altra variante. La restaurazione del capitalismo è ampiamente avvenuta, ma questa, lungi dal gettare la Cina indietro allo stato di semicolonia, l’ha sospinta talmente avanti che è diventata un protagonista assoluto della scena mondiale.

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