Violenza e non-violenza alla prova della Grande Guerra
Il 22 aprile ricorre il 140° anniversario della nascita di Lenin. E’ merito del quotidiano tedesco «Junge Welt» di richiamare l’attenzione in modo solenne su questa data: io stesso vi contribuisco con un articolo riprodotto in questo mio blog. Ma, poiché l’ideologia dominante (anche a «sinistra») ama contrapporre Gandhi campione della non-violenza a Lenin votato al culto della violenza, sottopongo qui all’attenzione del lettore due paginette del mio ultimo libro, che dimostrano come le cose stiano in modo radicalmente diverso. In occasione del primo conflitto mondiale Gandhi si vanta di essere il «reclutatore capo» al servizio dell’esercito britannico e celebra le virtù della vita militare. Qual è invece l’atteggiamento assunto dal grande rivoluzionario russo?
D. L.
Allo scoppio della guerra, pur partendo da posizioni assai diverse, Lenin rende omaggio agli ambienti del «pacifismo inglese» e in particolare a E. D. Morel, un «borghese eccezionalmente onesto e coraggioso», membro dell’Associazione contro la coscrizione e autore di un saggio che smaschera la «democratica» ideologia della guerra agitata dal governo britannico. In questo momento, al pacifismo il dirigente bolscevico risulta ben più vicino di Gandhi, collocato su posizioni antitetiche.
Costretto a prendere atto che, nonostante i propositi di battagliero pacifismo espresso alla vigilia della guerra, anche il movimento socialista ha finito in larga parte per accomodarsi alla carneficina e alla sacra unione patriottica chiamata a legittimarla, Lenin nota con sgomento l’«immenso smarrimento», l’«immensa crisi provocata dalla guerra mondiale nel socialismo europeo» ed esprime «profonda amarezza» per il «baccanale dello sciovinismo» che ormai infuria. Sì, «lo smarrimento fu grande» tra coloro che individuavano nella Seconda Internazionale un baluardo contro l’odio sciovinista e il furore bellicista. In questo senso, «la cosa più penosa della crisi attuale è la vittoria del nazionalismo borghese», è l’atteggiamento di adesione o sottomissione al bagno di sangue; sì, «più che gli orrori della guerra», persino più ancora del «macello», a farsi avvertire dolorosamente sono «gli orrori del tradimento perpetrato dai capi del socialismo contemporaneo» che, rimangiandosi gli impegni precedentemente sottoscritti, contribuiscono attivamente alla legittimazione della violenza bellica, al generale imbarbarimento culturale e avvelenamento degli spiriti. «L’imperialismo ha messo in giuoco le sorti della civiltà europea», e ha potuto far ciò avvalendosi della complicità di coloro che pure erano chiamati a far valere le ragioni della pace e della convivenza tra i popoli.
A conferma di questa sua analisi Lenin cita per esteso la dichiarazione rilasciata da circoli cristiani di Zurigo, i quali esprimono costernazione per un’ondata sciovinista e bellicista che non incontra più ostacoli: «Perfino la grande, internazionale classe operaia […] si stermina reciprocamente sui campi di battaglia». Cinque anni prima, nel 1909, in contrapposizione alla «bancarotta» dell’«ideale dell’imperialismo» bellicista, Kautsky aveva celebrato «l’immensa superiorità morale» del proletariato (e del movimento socialista), il quale «odia la guerra con tutte le sue forze» e «farà di tutto per impedire che prendano piede le passioni militariste». Questo prezioso capitale di «superiorità morale» risulta ora vergognosamente dissipato.
Se, almeno nella loro prima fase, la guerra e la partecipazione alla guerra si configurano, nell’ambito di un’ideologia alla quale non è estraneo neppure il primo Gandhi, come una sorta di plenitudo temporum sul piano morale (per lo slancio spirituale e la fusione comunitaria che esse comportano), agli occhi di Lenin lo scoppio del conflitto fratricida (che lacera la stessa classe operaia) appare invece come qualcosa di simile all’«epoca della compiuta peccaminosità»: utilizzo qui l’espressione che Lukács riprende da Fichte nel 1916, mentre egli è lacerato da un profondo travaglio destinato a sfociare, sull’onda della protesta per l’immane carneficina, nell’adesione alla rivoluzione d’ottobre. Ovviamente, il rivoluzionario russo è troppo laico per far ricorso a un linguaggio teologico. E, tuttavia, la sostanza non cambia: al di là dell’indignazione politica, lo scoppio della guerra provoca in lui costernazione morale.
La speranza, morale prima ancora che politica, sembra rinascere grazie a un fenomeno che forse potrebbe inceppare la macchina infernale della violenza: è la «fraternizzazione fra i soldati delle nazioni belligeranti, persino nelle trincee». Questa novità approfondisce però la lacerazione del movimento socialista che già si era manifestata con lo scoppio della guerra. In contrapposizione all’«ex socialista» Plekhanov, il quale assimila la fraternizzazione al «tradimento», Lenin scrive: «E’ bene che i soldati maledicano la guerra. E’ bene che essi esigano la pace». Al «programma della continuazione della carneficina» formulato dal governo provvisorio russo, del quale fanno parte gli «ex socialisti», Lenin risponde: «La fraternizzazione su un fronte può e deve diventare fraternizzazione su tutti i fronti. L’armistizio di fatto su un fronte può e deve diventare armistizio di fatto su tutti i fronti».
E’ vero, la fraternizzazione costituisce per i bolscevichi un momento essenziale della strategia mirante all’abbattimento del sistema sociale responsabile del massacro e quindi alla trasformazione della guerra in rivoluzione. Ma questo passaggio è reso inevitabile dagli «ordini draconiani» con cui entrambi gli schieramenti contrapposti fronteggiano la fraternizzazione. Ed è un passaggio che, già agli inizi del gigantesco conflitto, viene ipotizzato e in qualche modo invocato anche dai circoli cristiani svizzeri da Lenin positivamente contrapposti ai socialisti convertiti alle ragioni dello sciovinismo e della guerra. In particolare il rivoluzionario russo richiama l’attenzione su questo brano:
«Se la miseria diventerà troppo grande, se la disperazione prenderà il sopravvento, se il fratello riconoscerà il fratello nella divisa nemica, forse accadranno ancora fatti del tutto inattesi, forse le armi si rivolgeranno contro coloro che incitano alla guerra, forse i popoli, ai quali è stato imposto l’odio, lo dimenticheranno, unendosi d’un tratto».
Non sembra che Gandhi si sia occupato del fenomeno della fraternizzazione, che risulta comunque in contrasto col suo impegno a reclutare soldati e carne da cannone per il governo di Londra.
(Domenico Losurdo, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, 2010)