Un commento di Andrea Catone sul libro di Roberto Sidoli e Costanzo Preve

Torniamo sul dibattito accesosi sul libro Logica della storia e comunismo novecentesco – l’effetto di sdoppiamento. I lettori interessati possono trovare nella sezione Visioni del mondo la prefazione, l’intervento di Giulio Bonali e la risposta di Roberto Sidoli.
Di seguito pubblichiamo oggi un articolato commento di Andrea Catone.

Caro Roberto
Il ritardo con cui rispondo alle tue sollecitazioni a scrivere sul libro scritto da te e Costanzo Preve, Logica della storia e comunismo novecentesco – l’effetto di sdoppiamento, non è dovuto a cattiva volontà, ma a difficoltà reali nel misurarsi seriamente con una proposta di costruzione di una nuova teoria che si presenta dichiaratamente in alternativa al «materialismo storico “ortodosso”» (p. 59).

Certo, la definizione di cosa sia quest’ultimo è problematica, come osserva Preve nel complesso capitolo/saggio su “materialismo storico, storia universale del genere umano, valutazione del comunismo novecentesco”, proponendo di superare la dicotomia ortodossia/eresia. Tuttavia, mi sembra, in linea di massima, che il vostro bersaglio sia il marxismo sovietico, il materialismo storico e dialettico fino alle sue ultime versioni degli anni ‘80, come il libro I fondamenti di filosofia marxista-leninista di V. Afanas’ev. Bersaglio estremamente vulnerabile e facilissimo da colpire nel momento in cui afferma – a pochi anni dal rovescio del socialismo in URSS e dalla dissoluzione della stessa Unione sovietica – la “completa e definitiva” “vittoria del socialismo nell’URSS” (p. 63).

Nella critica al “Saggio popolare” di Bucharin Gramsci scrive nei Quaderni del carcere che occorre, nel confrontarsi con una teoria o una scuola di pensiero, far riferimento agli esponenti più eminenti della teoria, non alle figure di secondo piano, contro cui è più facile trovare punti deboli. Attaccare solo i minori consente “facili vittorie verbali”, ma illusorie vittorie reali; è poco utile se non dannoso nella lotta culturale, che richiede di “riferirsi solo ai grandi intellettuali avversari, e trascurare i secondari, i rimasticatori di frasi fatte”. Nell’esame dei testi sovietici andrebbe quantomeno tenuto presente – e distinto – ciò che è ideologia/propaganda e ciò che è effettivo apporto teorico e scientifico. Nessun manuale di teoria marxista, come di economia politica del socialismo degli anni 1970-80, avrebbe potuto mettere in dubbio il carattere di “socialismo sviluppato” o “maturo” della formazione economico-sociale sovietica, come affermato nei congressi del PCUS. Questa incapacità di critica – non soggettiva di singoli, ma dipendente da una determinata struttura del potere e dei rapporti politico-ideologici in URSS – è stata una delle cause, e certo non l’ultima, che hanno indebolito e minato il potere sovietico e la coscienza politica delle masse (con una situazione a doppio fondo, in cui la verità ufficiale era sempre più percepita come il suo contrario), fino alla caduta del 1989-91. Ma su questo, credo che concordiamo ampiamente.

Dell’URSS, della struttura economico-sociale, dei rapporti di produzione realmente esistenti, nonché delle cause della sua dissoluzione mi sono occupato per diversi anni in modo abbastanza sistematico. Ho ritenuto, e ritengo tuttora, che occorresse far ricorso, per definire l’URSS degli anni ‘70-’80 alla categoria di transizione, non limitando il suo periodo agli anni che vanno dal 1917 al 1936 (quando, con la Costituzione viene dichiarato terminato il perechodnyj period, il periodo di transizione), ma dilatandolo ad un’intera epoca storica, caratterizzata dallo scontro tra socialismo e capitalismo, così come la transizione dal feudalesimo al capitalismo ha abbracciato secoli e non si conclude con la rivoluzione del 1789. Gramsci osserva che la Francia vive quasi un secolo di rivolgimenti prima di trovare la sua stabilità borghese dopo la sconfitta della Comune nel 1871. Quella che noi oggi stiamo vivendo è l’epoca storica – quanto lunga non possiamo prevedere – dello scontro tra capitalismo e socialismo a livello mondiale. E, col Lenin del 1922, dovremmo sapere che non è deciso kto pobedit, chi vincerà. L’esito dello scontro non è assolutamente predeterminato (e se guardassimo allo stato in cui versa il movimento comunista in Europa potremmo anche giungere a conclusioni poco confortanti…), e dipende da molti fattori, tra cui la direzione politica, l’organizzazione e la capacità di egemonia su larghe masse giocano un ruolo essenziale. E non è affatto predeterminato che la fine del capitalismo (non eterno, in quanto prodotto storico, formazione storica della società) porti al socialismo/comunismo. L’esito potrebbe essere anche la comune rovina delle classi in lotta, una nuova barbarie…

Credo che tutto questo sia ampiamente acquisito, e non da oggi. Il determinismo positivistico fu bersaglio di Lenin, di Gramsci (che ne spiegò anche materialisticamente il successo nel movimento operaio). La politica del movimento comunista nel ‘900 non è stata guidata da una visione deterministico-positivistica. Ha commesso piuttosto in alcune occasioni altri errori: di volontarismo, soggettivismo, scorretta valutazione del rapporto di forze…

Dunque, rispetto ad una lettura complessiva della storia comunista del ‘900, nonché dell’attuale fase post 1989, credo che concordiamo fondamentalmente nei contenuti, ma con la differenza che a me sembra più appropriato il ricorso alla categoria di transizione (come la definiscono Marx, Engels, e soprattutto Lenin nei suoi scritti dei primi anni ‘20): un’epoca storica in cui lottano – a livello economico, politico, ideologico, di civiltà – capitalismo e socialismo, con avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte reciproche, che vanno collocate tutte non su scenari locali o regionali, ma sulla scena mondiale. Un’intera epoca storica, che non si misura nel giro di qualche anno[1] o anche di qualche decennio, perché se pensiamo all’affermarsi di un nuovo modo di produzione in modo dominante e determinante[2], occorre misurare le cose in termini di più generazioni. Non basta – e Lenin lo enuncia chiaramente – un decreto di nazionalizzazione: per passare alla socializzazione effettiva dei mezzi di produzione, al modo di produzione socialista, in cui è superata effettivamente la proprietà privata capitalista e i cittadini/lavoratori (nel loro complesso e non solo come gruppi o collettivi di impresa) possano/sappiano gestire la produzione e l’economia nel suo complesso, siano effettivamente proprietari sociali, occorre anche un salto di civiltà: acquisire come abito, come seconda natura, la capacità di gestione complessiva dell’economia ponendosi obiettivi il meno particolaristici possibile, universali, di utilità sociale. (Oggi non siamo abituati neppure a gestire un piccolo condominio…).

Altra questione – che non può di per sé essere collocata nella critica del determinismo positivistico – è quella di una visione d’insieme, a grandi linee, molto grandi linee, della storia dell’umanità come successione di diversi modi di produzione che segnano il progresso dell’umanità. La cosa fu esposta tra l’altro in un testo celeberrimo di Marx, la Prefazione a Per la critica dell’economia politica, pubblicata nel 1859, in cui si anticipano alcuni temi di fondo del Capitale:

A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.

Si potrebbe scrivere la storia delle interpretazioni e discussioni tra marxisti su questo quadro a grandissime linee della storia umana. In particolare sul “modo di produzione asiatico” con la correlata forma politica del “dispotismo orientale” (da Wittfogel a Tokei, ecc.). E si potrebbe anche contestare filologicamente che Marx pensi qui ad una successione “unilineare”, a “stadi”, per cui necessariamente al primo segue il secondo e poi il terzo, ecc. I diversi modi di produzione (ma intesi sempre come dominanti e determinanti in date aree e paesi) possono ben coesistere in diverse aree del mondo separate tra loro. Mi sembra però che questo quadro d’insieme abbozzato a grandissime linee da Marx costituisca un punto di riferimento ancora valido per misurarsi con una storia dell’umanità. Una storia fondata sul rapporto dialettico tra forze produttive e rapporti di produzione, rapporto che ritengo il nucleo centrale della concezione materialistica della storia. Su questo la citata Prefazione del 1859 è più che esplicita:

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura [corsivi miei, AC].

Sul rapporto dialettico tra forze produttive e rapporti di produzione mi sembra vi sia – se ho ben compreso il vostro testo – una forte divergenza con l’impostazione del Marx della Prefazione del 1859.
Rapporto dialettico e non determinazione dei rapporti di produzione da parte delle forze produttive. Non vi è in Marx un determinismo tecnologico, e credo di poter dire che non vi sia, a parte qualche forzatura, neppure nel “marxismo ortodosso”. Anche questa questione è stata oggetto di ampi dibattiti tra marxisti (certo, in altri tempi, quando il centenario della morte di Marx era oggetto di numerosi convegni).

Vi è stata anche una tendenza a considerare economicismo persino il solo riferimento al ruolo delle forze produttive, a considerare la questione ininfluente, o peggio. Io credo invece che tale questione sia un aspetto fondamentale del materialismo storico, nella consapevolezza che le forze produttive non si riducono allo strumento di lavoro, alla macchina, ai mezzi di produzione, ma comprendono anche la preparazione tecnica, i saperi dei lavoratori, la scienza, la cultura, la civiltà. Negli ultimi intensissimi anni della sua vita Lenin è fortemente preoccupato non solo del grado di preparazione tecnica, dell’abitudine al lavoro dei lavoratori russi (“il russo è un cattivo lavoratore…”), ma anche del grado di “civiltà” dei russi (e nella polemica col Proletkult di Lunaciarskij e Bogdanov afferma che sarebbe già un grande passo avanti se i russi si impadronissero sufficientemente della cultura borghese…).

Insisto sul rapporto dialettico tra forze produttive e rapporti di produzione. Vi sono casi in cui determinati rapporti di produzione frenano lo sviluppo delle forze produttive (nel Capitale Marx fa diversi esempi; e anche oggi, se la forza lavoro immigrata costa meno dell’investimento in macchine agricole per la raccolta di pomodori o ortaggi, l’impresa agricola ne fa a meno) e altri in cui lo sviluppo delle forze produttive spinge a mutare i rapporti di produzione (spinge: occorre sempre un intervento politico consapevole che definisca il quadro di altri rapporti di proprietà).
Il modo di produzione socialista stesso, fondato sui “produttori associati” (Marx) non sarebbe pensabile senza il fondamentale salto di qualità prodotto dalla rivoluzione industriale borghese, che si fonda sul carattere sociale del processo produttivo, su forze produttive sociali, che entrano in contraddizione con la proprietà privata borghese dei mezzi di produzione (che significa non solo appropriazione, ma anche direzione, gestione, controllo privati). Senza questo salto qualitativo delle forze produttive – che interviene, come sappiamo, non simultaneamente nel mondo, ma a partire da alcune aree del pianeta per estendersi – è un processo ancora in corso ai nostri giorni – a tutto il pianeta – non sarebbero pensabili il socialismo e il comunismo moderni, il comunismo dello sviluppo onnilaterale di libere individualità, il comunismo della ricchezza (e non della povertà) dei bisogni. Questo mi pare basilare e non credo proprio che vada messo in soffitta o buttato come ferrovecchio tra gli attrezzi inservibili.

Se vogliamo indicare delle date essenziali di svolta nella storia dell’umanità, non possiamo non iscrivere, accanto a quella che tu indichi con il passaggio all’agricoltura e all’allevamento, anche quella della rivoluzione industriale borghese. Del resto, è il Manifesto del 1848 che segnala con forza la cesura rivoluzionaria operata dal modo di produzione capitalistico-borghese.
Questo è un aspetto essenziale, perché la concezione di Marx (che Engels definì come passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza) ha basi sue proprie che la distinguono ampiamente dall’ideologia “comunitarista” (mentre Preve suggerisce la sinonimia tra comunismo e comunitarismo[3], p. 46, anzi concepisce il comunismo come la forma moderna di comunitarismo, p. 55).

Cosa che invece mi sembra si perda con la teoria dell’effetto di sdoppiamento come teoria generale di una logica della storia dell’umanità da 11000 anni a questa parte. Se infatti si teorizza che sempre, a partire dal momento in cui è stato disponibile un plusprodotto[4], si sono aperti all’umanità due (o almeno due) possibili antitetici rapporti di produzione – e sempre intercambiabili in ogni momento – indipendentemente dalle forze produttive, è chiaro che queste ultime risultano ininfluenti, residuali, secondarie anche per lo studio e la comprensione della storia dell’umanità (degli ultimi 11000 anni).

Determinante risulta invece il politico, che si autonomizza dalla struttura socio-economica e dallo stesso “modo di produzione” (ridotto anch’esso ad una categoria piuttosto generica), ed espressione della libera – assolutamente libera – volontà dei soggetti e delle soggettività umane, che si costituiscono esse stesse indipendentemente dall’oggettività “materiale” delle forze produttive.

Col che, mi sembra, siamo ben lontani dal marxismo, ortodosso o non ortodosso, e dal materialismo storico, e siamo molto più vicini all’idealismo fichtiano (oltre che ai teorici novecenteschi dell’autonomia del politico). Del resto Preve lo afferma abbastanza esplicitamente nel suo testo, in cui è piuttosto netto in merito alla espunzione del ruolo delle forze produttive come fattore di fondo nella dialettica storica.

Ma se rimuoviamo le forze produttive, anche la categoria marxiana di rapporti di produzione, rapporti sociali di produzione, perde la sua connotazione specifica, diviene piuttosto una generica categoria di rapporti sociali. Il che mi sembra un passo indietro nell’analisi storico-sociale.

L’essenza della concezione materialistica della storia è – come ho detto – nel cogliere il rapporto dialettico tra forze produttive e rapporti di produzione, in contrapposizione alle interpretazioni della storia come risultato esclusivo o prevalente delle idee, rappresentazioni, volontà degli esseri umani considerati indipendentemente dal modo in cui producono e riproducono la loro esistenza (modo di produzione). Del resto, non è forse intitolato “Ideologia tedesca” (critica dell’ideologia tedesca) il manoscritto del 1845-46 in cui i giovani Marx ed Engels abbozzano questa nuova concezione? Che non è deterministica, non esclude la prassi dei soggetti, ma la incardina nella “materialità” (intesa come condizione storicamente determinata) delle forze produttive e della dialettica forze produttive/rapporti di produzione.

L’innovazione teorica della teoria dell’effetto di sdoppiamento consiste dunque nel porre in secondo piano la questione delle forze produttive, nel considerarla di fatto irrilevante per lo sviluppo storico e per la prassi comunista trasformatrice, che può autonomamente dispiegarsi negli ultimi 11000 anni, seguendo una “linea rossa”, indipendentemente dalle condizioni di tempo e di luogo e dal modo materiale di produrre. Essa, a detta di Preve, dovrebbe sostituire la teoria dello sviluppo delle forze produttive (p. 54).

La teoria dell’effetto di sdoppiamento mi sembra abbia poco a che fare col materialismo storico (concezione materialistica della storia) di Marx, sia anzi antitetica ad esso, pur ricorrendo ad alcune categorie di Marx e pur schierandosi apertamente il suo autore in una prospettiva comunista.
Ma non può essere questo l’argomento principale per cui la ritengo inadeguata e fuorviante: sarebbe il ricorso all’ipse dixit, al principio di autorità (peraltro, chi è autorizzato ad interpretare correttamente l’autorità?), sarebbe, si parva licet, comportarsi da aristotelici deteriori rispetto alla teoria copernicana e a Galilei. La concezione materialistica della storia è stata elaborata un secolo e mezzo fa, quando, come giustamente osservi, a Marx ed Engels erano ignote molte acquisizioni successive della storia dell’umanità. Alle quali dedichi un lungo capitolo centrale (le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento, pp. 91-154) e su cui non ho competenze e conoscenze adeguate per poter formulare un qualsivoglia giudizio di merito.

Credo però di poter dire questo: il “vecchio” materialismo storico con la sua tanto aborrita visione di una successione storica di modi di produzione (risultanti dalla dialettica di forze produttive/rapporti di produzione) ci consente di pensare dialetticamente la storia dell’umanità, senza sovrapporre ad essa un principio generale-eterno di “sdoppiamento” tra “collettivismo” e “classismo”, “linea rossa” e “linea nera”, angeli e diavoli, bene e male, o Yng e Yang, o, crocianamente, tra libertà e illibertà. Il “vecchio” materialismo storico è molto più aperto alla comprensione delle diverse possibilità che si pongono all’umanità – sulla base di una materialità oggettiva e studiando i processi iuxta propria principia – di quanto non risulti la teoria dell’effetto di sdoppiamento, che sembra voler “mettere le brache” alla storia, rinchiuderla in uno schema di “eterno ritorno, sia pure a livelli tecnologici diversi, dello stesso sdoppiamento, quello prodotto dalla prassi comunitaria di ristabilimento egualitario contro la prassi classista di produzione di diseguaglianza nel potere, nella proprietà, nel consumo” (Preve, p. 46).

Non so davvero se si possa fondatamente affermare che tutta la storia umana qui presa in esame sia stata improntata dal principio della contraddizione tra collettivismo e classismo (o protoclassismo). Mi sembra che si compia qui un’operazione di trasferimento di una questione centrale nella nostra epoca (che è l’epoca della lotta tra capitalismo e socialismo, poiché il primo ha posto le basi materiali per la produzione sociale e l’unificazione del mondo) all’intera storia precedente dell’umanità. Con ciò compiendo un’operazione eminentemente “ideologica” (nel senso deteriore) di riscrittura “strumentale” della storia ai fini (certo nobilissimi) della lotta di classe del presente. Scacciata con clamore dalla porta, la metafisica rientra dalla finestra.

Con ciò non intendo dire affatto che non vi siano stati nelle società precapitalistiche movimenti di lotta ed elaborazioni teoriche anticipatori del moderno comunismo: Engels dedicò a questo non poche energie, lavorando non solo sulle lotte di classe dei contadini, ma anche sulla storia del primo cristianesimo. E sulla sua scia i ricercatori sovietici interrogarono altri momenti e società della storia universale. Ciò non rivestiva evidentemente solo un interesse storiografico, ma politico, dava legittimazione e forza morale alla lotta per il comunismo nell’epoca presente. Ma da qui a proporre un’interpretazione di tutta la storia umana degli ultimi 11000 anni sulla base dell’unico principio della contraddizione tra collettivismo e classismo, indipendentemente dalla questione delle forze produttive, ce ne corre.

Infine, mi sembra che la questione delle forze produttive, rimossa dalla teoria dell’effetto di sdoppiamento, ritorni con forza proprio nell’esame della storia e delle scelte del paese al quale dedichi meritoriamente la più grande attenzione: la Repubblica Popolare Cinese.
Dire che coesistono oggi nella RPC forme capitalistiche e forme socialiste, prevalenti nella proprietà pubblica (anche se questa forma, se non c’è un controllo effettivo sullo stato da parte dei cittadini/produttori, non è effettivamente socialista, è un socialismo potenziale, embrionale, che ha bisogno di svilupparsi nella piena democrazia socialista), è una giusta e corretta affermazione contro gli ultrasinistri che vedono la Cina d’oggi consegnata mani e piedi al capitalismo nelle sue forme peggiori.

Tutti gli elementi che tu riporti sono di grande utilità per comprendere la transizione cinese, il ruolo di indirizzo generale sull’economia che ha il settore statale, il ruolo di direzione del partito comunista più numeroso al mondo, con oltre 70 milioni di iscritti. I dirigenti del PCC spiegano (e lo fai ampiamente anche tu nel tuo libro) i processi in corso come una grande NEP. Il che ha comportato, proseguendo l’analogia con la storia sovietica, consistenti passi indietro rispetto al “comunismo di guerra”, ovvero, per la Cina, rispetto a rapporti di produzione che risultavano troppo egalitari ed avanzati nelle campagne (Comuni agricole) e nelle città di fronte alla situazione oggettiva data dallo sviluppo storicamente determinato delle forze produttive. Rapporti di produzione comunisti risultano una fuga in avanti rispetto alle condizioni oggettive. È necessaria una correzione per riadeguarli al livello di sviluppo reale. A meno che – ma questa è la lettura dell’estremismo di sinistra – non si voglia considerare la NEP come l’inizio della controrivoluzione borghese e il suo principale ispiratore Lenin come il restauratore del capitalismo a 4 anni dall’Ottobre. È una “linea nera” quella del Lenin della Nep? Secondo la teoria dell’effetto di sdoppiamento bisognerebbe dire di sì, poiché al settore statale Lenin affianca quello privato di una classe in formazione, i nepmany, destinata ad aprire forti contraddizioni nella società sovietica.

Se portiamo fino in fondo i presupposti della teoria generale dell’effetto di sdoppiamento, con la sua rimozione del problema del livello di sviluppo delle forze produttive e l’affermazione del primato della pura volontà politica, la NEP non andava varata e occorreva mantenere i rapporti del comunismo di guerra.

Stesso discorso, ma di gran lunga amplificato nella portata e negli effetti, vale per la RPC della seconda metà degli anni ‘70, quando si afferma la linea di Deng – esplicitamente definita nel corso di un durissimo scontro politico nel PCC – “linea nera”, contrapposta alla “linea rossa” della Rivoluzione culturale e del “gruppo di Shanghai”, sconfitta definitivamente, dopo alterne vicende, all’indomani della morte di Mao. Conosci molto meglio di me tutta la storia cinese degli ultimi 30 anni; gli straordinari sviluppi delle forze produttive in Cina sono oggi sulla bocca di tutti. Essi sono il risultato delle scelte imposte da Deng o si producono nonostante quelle scelte? Per quanto mi è dato di conoscere e nonostante le mie forti simpatie a suo tempo per le posizioni del gruppo di Shanghai, credo che non si possa non riconoscere che lo straordinario sviluppo cinese sia figlio della scelta di Deng, dell’apertura controllata al mercato e alla proprietà capitalistici, con tutte le contraddizioni, attuali e potenziali, tra capitalismo e socialismo, che la lunga fase di transizione comporta (che tu correttamente sottolinei, e di cui si dichiarano consapevoli i dirigenti del PCC).

Il “kto pobedit?“, “chi vincerà?” non è deciso, e credo, come te, che un ruolo fondamentale è giocato qui dalla direzione e organizzazione del PCC, dal carattere effettivo di questo partito. Ma tale direzione e organizzazione non possono essere arbitrarie, volontaristiche, soggettivistiche, non possono porsi come atto puro della prassi umana indipendentemente dalla dura materialità delle condizioni oggettive e soggettive della produzione (forze produttive). Rischiano altrimenti di condurre ad infrangersi rovinosamente sugli scogli la nave cinese.
Per le ragioni che ho cercato di esporre, preferisco mantenere la “vecchia” concezione del materialismo storico piuttosto che la nuova teoria dell’effetto di sdoppiamento.
Con stima e amicizia

Andrea Catone,  Bari, 19 agosto 2010

[1] Per questo mi sembra poco appropriato il riferimento che fai alla vicenda di Baku (pp. 70-71), in cui nel corso di pochissimi anni si avvicendano al potere forze rivoluzionarie e controrivouzionarie
[2] Nella concreta formazione storico-sociale, carica di tutte le eredità del passato, è raro che si dia un unico e assoluto modo di produzione: nella Russia del 1918 Lenin ne elenca ben 5. Ciò che ci fa definire ‘feudale’, ’semifeudale’ o ‘capitalista’ la struttura economico-sociale di un paese è il modo di produzione dominante e determinante, che tende a sussumere sotto di sé gli altri.
[3] Osservo tra l’altro che Preve si esprime a proposito dell’effetto di sdoppiamento ricorrendo ai termini “comunitarismo”, “comunitario” e “classismo”, mentre Sidoli usa piuttosto il termine “collettivismo”, “collettivo”. Nell’introduzione a firma di entrambi si usa il termine “comunitario-collettivistico”. Le parole non sono innocenti, dal momento che il termine “comunitarismo” connota oggi un’ideologia e un movimento di formazione relativamente recente sorti in area anglosassone in opposizione al liberalismo, cui lo stesso Preve aderisce attivamente.
[4] Preferisco mantenere il termine marxiano originario e non vedo ragione per modificarlo in quello di “surplus”.