Pubblichiamo due brevi articoli con i quali Ennio Bilancini anticipa i temi che tratterà nella sua relazione al convegno di Chianciano del 30-31 ottobre.
I punti di vista sulla corrente crisi economica e finanziaria sono i più svariati, ma noi italiani siamo esposti quasi esclusivamente a quello occidentalo-centrico nelle sue varianti più o meno catastrofiche del tipo “l’ora del giudizio è arrivata” oppure nelle varianti più o meno naturaliste del tipo “si tratta solo di un aggiustamento naturale del sistema capitalistico”.
Chi osserva la situazione da tali punti di vista corre il rischio di guardare solo una tessera del mosaico, perdendo la possibilità di comprendere cosa sta effettivamente accadendo all’economia del pianeta terra.
La dinamica che si sta dispiegando parallelamente alla crisi esplosa negli ultimi tre anni (ma che ha mosso i primi passi più di venti anni fa) è lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale verso est, cioè verso l’Asia. Per capire la portata di questo fenomeno, basti sapere che esso modifica un assetto nato con il capitalismo e rimasto sostanzialmente immutato per più di due secoli. La tendenza in atto è inequivocabile, mostrata chiaramente dalla diversa risposta alla crisi delle economie che non sono del primo mondo.
Considerando l’economia mondiale nel suo complesso, nell’anno più acuto della crisi c’è stata una riduzione del 15% della produzione industriale, una riduzione del 50% del valore dei capitali quotati in borsa e un declino del 20% del commercio mondiale. Numeri da cataclisma, pure peggiori della famigerata crisi del 1929.
Tuttavia, c’è una netta differenza tra la crisi del 1929 e quella odierna evidenziatasi già l’anno successivo al crack. Negli anni successivi al 1929 i paesi avanzati dell’epoca subirono un durissimo colpo, tirandosi dietro a catena tutti i paesi meno avanzati (escludendo ovviamente l’URSS). Nei primi anni della crisi attuale vediamo che i paesi avanzati dell’Occidente sperimentano problemi non dissimili da quelli sperimentati nel 1929, ma i paesi emergenti, ed in particolare quelli dell’Asia, recuperano velocemente. Addirittura, alcuni paesi sono stati in grado di rimettersi su un cammino di crescita decisamente sostenuta.
Come si vede dal grafico precedente, mentre gli Stati uniti sono piombati in un periodo di stagnazione, i paesi asiatici hanno mostrato grande reattività. In particolare la Cina già nei primi mesi del 2009 riusciva a riprendere una crescita sostenuta. Ma non solo. Come mostra il grafico seguente la Cina è riuscita a tornare nel suo sentiero di crescita originario, mentre gli USA (e in generale l’Occidente) arrancano.
Gli inglesi dicono “back on track” per indicare che il treno è tornato sui binari giusti, volendo intendere che l’Asia è tornata al suo ruolino di marcia senza aver subito veri danni. Forse con riferimento all’Occidente si potrebbe dire “off the track”, volendo intendere che l’Occidente ha deragliato e ora non sa bene dove sta andando.
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Con o senza stagnazione, l’Occidente è destinato a perdere terreno
L’enfasi recentemente data alla scarsa crescita dei paesi ricchi, ed in particolare alla scarsa crescita dei paesi occidentali, potrebbe indurre a pensare che con un eventuale ritorno ad una crescita vicino al potenziale (stimata attorno al 3%) possa scongiurare il declino relativo a favore dei paesi emergenti. Le recenti previsioni di crescita pubblicate da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale sembrano cancellare ogni dubbio: l’Occidente è destinato a perdere ulteriormente terreno.
Vediamo innanzitutto le prospettive di crescita del PIL fino al 2012 per il mondo nel suo complesso, e per paesi ricchi e resto del mondo separatamente (vedi la figura 1 in alto, fonte: World Bank, Agosto 2010).
Dopo la recessione del 2009, l’economia mondiale dovrebbe tornare a crescere in modo sostenuto. Tuttavia, la crescita è palesemente sbilanciata a sfavore dei paesi ricchi. Si potrebbe obiettare che un crescita percentuale minore non è di per sè un grande problema se si è più ricchi, poiché essa è compatibile con un incremento del reddito comunque maggiore che nel resto del mondo. E’ quindi utile andare a vedere quanto ciascun gruppo di paesi contribuisca alla crescita mondiale (vedi figura 2, fonte: International Monetary Fund, Giugno 2010). In tale modo è possibile avere un’idea di quanto sia l’importanza relativa della crescita dei paesi ricchi rispetto a quella del resto del mondo.
Il contributo dei paesi ricchi alla crescita del reddito mondiale è ormai stabilmente dell’ordine del 50%, quando per altre ragioni non diventi addirittura inferiore. Questo deve tradursi necessariamente in una perdita di importanza relativa delle economie ricche poiché esse, tradizionalmente, rappresentano ben più del 50% del PIL mondiale. E’ quindi lecito domandarsi quale sia il peso relativo delle economie dei paesi ricchi e quale peso esse siano destinate ad avere nei prossimi anni. Recenti dati pubblicati dalla Banca Mondiale ci permettono di fare questa analisi (vedi figura 3., fonte: World Bank, Agosto 2010).
La frazione del reddito mondiale detenuta dai paesi ricchi è rimasta sostanzialmente stabile per tutti gli anni ’80 e ’90 intorno al 65%. A partire dal nuovo secolo però la frazione del reddito detenuta dai paesi ricchi ha iniziato a calare in modo sistematico, con o senza stagnazione di questi. Nelle previsioni della Banca Mondiale per il 2014 i paesi ricchi dovrebbero addirittura scendere sotto il 50% del PIL mondiale, nonostante nel complesso si preveda una crescita degli stessi paesi di almeno il 2% annuo (vedi figura 2).
Questi nuovi dati ci forniscono due importanti indicazioni. In primo luogo, il declino relativo dei paesi ricchi a favore del resto del mondo pare un fenomeno difficilmente arrestabile, anche in caso di ritorno alla crescita. In secondo luogo, tale declino non sembra essere causato dalla crisi finanziaria del 2007, ma al più pare essere solo aggravato da essa.