Angelo D’Orsi sul “caso Moffa” e sulla proposta liberticida del facinoroso Pacifici
Come altri colleghi ho letto con viva preoccupazione le richieste del rappresentante della Comunità Israelitica di Roma Riccardo Pacifici (nella foto con Alemanno), di varare una legge che punisca, penalmente, la negazione della Shoah: l’occasione, è stato fornita da una lezione, inaugurale di un master (intitolato a Enrico Mattei) da parte di Claudio Moffa, docente dell’Università di Teramo, non nuovo a sortite prima di vago sapore negazionista, poi diventate nel corso del tempo, sempre più intrinseche alla logica di quell’orientamento, che ha alcuni tratti del movimento.
L’uso politico dell’Olocausto
Pur non condividendo il senso e per lo più, la lettera delle parole di Moffa, la richiesta mi è parsa, francamente, assai più grave delle dichiarazioni di Moffa stesso; è del tutto assodato in sede storica che esista e sia esistito, nella stessa fondazione di Israele, un uso politico dell’Olocausto – uno dei “capi d’imputazione” mossi a Moffa.
Ogni Stato fa ricorso a miti fondativi: la Shoah è stata una tragica realtà, forse la più terribile della storia; ma è stata poi usata come un mito per dare vita a Israele e legittimarne le politiche anche quando aggressive, colonialiste, razziste e discriminatorie verso i palestinesi. Dunque, nulla di strano; ma che non lo si possa dire, questo è paradossale.
Come lo è la minaccia dell’accusa di “antisemitismo” a chi osi sostenerlo. Se è legittimo l’uso politico e simbolico dell’Olocausto, perché non dovrebbe esserlo denunciarlo? Del resto per primi lo hanno fatto intellettuali ebrei, come Norman Finkelstein. Va naturalmente poi ricordato – anche se sembra quasi ridicolo nella sua ovvietà – che nella società liberale tutti possono dire quel che vogliono, se non si tratti di ingiurie (cosa che peraltro vediamo fare in televisione ogni sera), o di istigazione a delinquere.
Perciò non condivido per nulla, anzi mi turba l’invito di qualche collega a tappare la bocca a Moffa, anch’essa più inaccettabile delle parole di Moffa, e del suo tentativo di ridurre il peso dello sterminio genocidario messo in essere dal nazismo: di ebrei, innanzitutto, secondo una logica “scientifica” e “industriale”; ma anche di Sinti e Rom, omosessuali, disabili, Testimoni di Geova, e poi di comunisti, slavi eccetera – messo in essere dal nazismo.
Quanto all’altra affermazione di Moffa che ha suscitato scandalo, ossia che non esiste un documento firmato da Adolf Hitler che dia il via alla famigerata, mostruosa “soluzione finale”, devo ricordare che la lectio magistralis tenuta da Eric Hobsbawm (ebreo marxista e comunista, è bene precisare) nel 2000 a Torino, in occasione della laurea ad honorem a lui conferita dall’Ateneo, fu dedicata proprio a questo punto: il documento non esiste, allo stato attuale della ricerca, ed è improbabile si trovi; dirlo è non solo lecito, ma corretto e doveroso, per chi faccia professione di storico. Il che, naturalmente, non significa affatto negare la responsabilità del Führer, che sono totali. E allora perché dobbiamo perdere le staffe se lo sentiamo affermare da qualcuno? Anche se quel qualcuno fosse negazionista a pieno titolo, lasciamoglielo dire: la verità storica ha le sue ragioni, e le sue procedure, e non deve temere proprio nulla.
Se è legittima e rispettabile la posizione del grande Pierre Vidal Naquet – ebreo, resistente, comunista francese – che aveva sentenziato: coi negazionisti non discuto, e anzi io sono pronto a sottoscriverla, è altrettanto legittimo per i negazionisti, tirare fuori i loro “argomenti”. Se sono risibili – come sono, nella quasi totalità dei casi – li si può lasciar cadere senza neppure discuterli; ma chi volesse farlo, invece, ha diritto di farlo. La verità non deve avere paura, e non si difende coi decreti. E una simile legge finirebbe solo per dare spazio a quella che è una sorta di setta segreta o semisegreta.?Ci aveva già provato il ministro Mastella, all’epoca Guardasigilli, a far passare una legge repressiva della negazione (o “banalizzazione” dell’Olocausto: concetto ancora più ambiguo, e dunque pericoloso), con una pena fino a 12 anni di reclusione. La reazione critica della comunità degli studiosi lo impedì: per ora forse è prematuro reiterare la mobilitazione degli storici, ma non è inutile ribadire le ragioni della ricerca contro le pseudoragioni della verità imposta per legge. E contro ogni tentativo liberticida che oggi colpisce i negazionisti, ma potrebbe sempre essere riadattato per colpire in un altro momento, altre categorie.
Dopo aver sistemato il negazionismo, chi impedirà che i rigori della legge possano “reprimere” un qualsiasi altro “ismo”, domani? La questione non sta soltanto nella difesa della libertà, peraltro irrinunciabile nella difficile marcia della civiltà moderna, fondata sulla tolleranza delle idee altrui, anche quando opposte alle nostre.
Il lavoro degli storici
Gli elementi da considerare innanzitutto sono altri: è inaccettabile che una autorità – politica, giudiziaria, religiosa… – si possa ergere a custode e a garante della Verità della Storia. Esiste un solo “tribunale”, ed è quello, ideale, rappresentato dalla comunità degli studiosi, ossia coloro che professionalmente, sulla base di uno statuto disciplinare condiviso, lavorano all’edificio della conoscenza.
Le sanzioni di questo tribunale implicano il riconoscimento o il disconoscimento degli esiti di chi si pone a fare storia, accettando i risultati che nascono da documenti autentici e rigorosamente valutati e trattati; i negazionisti e i rovescisti storiografici nel grande edificio della conoscenza storica non troveranno posto. Sarebbe, ora, che la politica, in un’Italia sovraccarica di usi (e abusi) politici della Storia, facesse un passo indietro, lasciando al lavoro della Storiografia, l’acclaramento e la difesa della verità.
Fonte: Il fatto quotidiano
28 ottobre 2010