Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo commento critico alla «Risoluzione sulla situazione italiana», da noi adottata alla XI. Assemblea nazionale. Nadalini ritiene che l’uscita dall’Eurozona, la riconquista della sovranità monetaria e la nazionalizzazione del sistema bancario non siano soluzioni né adeguate né condivisibili. Per Nadalini «l’unica vera alternativa disponibile è il socialismo, l’esproprio forzato di tutta l’industria privata, la messa in moto di tutte le forze produttive esistenti, lo sganciamento dal blocco imperialista». Ci ripromettiamo di rispondere quanto prima al compagno Nadalini.

Per quanto riguarda le premesse, mi trovo completamente d’accordo con l’analisi fatta, soprattutto nella misura in cui si ribadisce la non ineluttabilità dell’acuirsi dello scontro di classe e si paventa una radicalizzazione della deriva reazionaria in atto in Italia e altrove. In effetti, appare chiaro che l’estrema destra europea stia raccogliendo i frutti di una politica a suo modo coerente: il rifiuto delle ingerenze europee nella gestione di questioni politiche fondamentali quali la moneta, gli scambi commerciali, i flussi di persone nell’area Schengen.

In particolare, risulta lampante che, se non si prospetta un’uscita dall’attuale sistema, anche una certa quantità di proletari vorrà scaricare gli effetti di un’inevitabile incremento della disoccupazione sulla forza lavoro immigrata, attraverso la facile soluzione di espellerla. Questa tendenza altro non è che il frutto dell’arretramento culturale seguito all’indecente resa di buona parte della sinistra. In effetti, il presupposto del leghismo è quello secondo cui vi è un numero dato e limitato di posti di lavoro e che questi debbano essere appannaggio dei cittadini. La realtà è ben altra, se solo si guarda la società da un punto di vista generale: le braccia in esubero, ovvero i limiti posti alla produzione, non sono un dato (lo sarebbero solo se tutte le necessità sociali fossero già soddisfatte o se l’attività di un lavoratore aggiunto producesse meno del necessario al proprio sostentamento), ma la conseguenza della logica del profitto e delle sue contraddizioni. Secondo questa logica, che ci viene esposta perfettamente da Marchionne e soci, l’accumulazione può ripartire solo a condizione di aumentare il saggio di sfruttamento: ciò a sua volta può avvenire o attraverso l’imposizione politica (distruzione della contrattazione collettiva ecc.) o attraverso la libera dinamica economica (recessione-creazione di un esercito di riserva-pressione concorrenziale sui salari). La pauperizzazione è un fenomeno che nel sistema vigente è ineluttabile, non risolvibile attraverso maggiori barriere d’ingresso al continente; ciò dovrebbe essere oggi più chiaro che mai, visto che i programmi di austerity vengono imposti anche a paesi che di forza lavoro sono esportatori netti.

Come ben sapete, però, la verità più lampante si impone solo attraverso la pratica e la configurazione di scenari alternativi. Da questo punto di vista, credo sia apprezzabile un programma di uscita dal capitalismo che contempli la negazione degli strumenti della sua riproduzione. Tuttavia, ciò che non capisco è se l’uscita dall’euro significhi qualcosa di questo genere. Ovvero: abbandonare la moneta unica, quando appare ormai ineluttabile una crisi del debito sovrano, può essere un’alternativa a programmi recessivi in stile Grecia che, come nota ad esempio Vladimiro Giacchè, non valgono certo a risolvere il problema dell’insolvenza dal momento che, deprimendo l’economia, riducono inevitabilmente la base imponibile.

Tuttavia: cosa comporta uscire dall’eurozona se non maggiori rischi di cambio e maggiori aspettative d’inflazione per i sottoscrittori stranieri e nazionali di titoli del debito pubblico. Si tratterebbe in ogni caso di “una spaccatura dell’Unione, tra i paesi “virtuosi” capeggiati dalla Germania e il resto (principalmente i paesi mediterranei)…che dovranno applicare per un lungo periodo severissime politiche di austerità che non solo pregiudicheranno la cosiddetta “crescita”, ma getteranno al di sotto della soglia convenzionale di povertà milioni di persone”. Lo sganciamento dal blocco imperialista in crisi non credo avvenga semplicemente uscendo dagli accordi valutari, che peraltro vengono messi in discussione anche dall’establishment; d’altra parte, ve ne sono a iosa di paesi assoggettati a quel blocco che al contempo possiedono una valuta propria! Non credo di aver scritto nulla su cui voi non siate d’accordo.

Ciò che appare chiaro, guardando all’evoluzione degli indicatori economici dei paesi europei (Germania esclusa) è un crescente indebitamento con l’estero a partire dagli anni 2000 (vi invito a guardare le serie storiche sul sito del Fmi per rendervi conto di come questo processo sia generalizzato), derivante di fatto dalle profonde trasformazioni occorse nell’economia mondiale, che hanno reso i centri capitalisti tradizionali beneficiari della produzione di merci sempre più concentrata nella periferia (in particolare asiatica) che ha a sua volta proseguito una strategia impostata sulle esportazioni finanziando con larga parte del suo risparmio il deficit corrente di Europa e Stati uniti. In pratica, il padrone dell’officina (le emergenti economie manifatturiere) si è trovato a scegliere tra farsi pagare le merci prodotte con cambiali da un cliente estero (col rischio di non poter recuperare il credito) o vendere le merci prodotte ai suoi stessi dipendenti (con lo svantaggio di dovergli pagare stipendi più alti e il susseguente rischio di dover chiudere bottega). E ha optato per la prima soluzione. Il cliente estero (le economie euro-statunitensi), a sua volta padrone di un’azienda che produce soprattutto beni non commerciabili, ha intanto scelto di vendere le sue merci ai suoi dipendenti, ai quali ha prestato denaro ma si è dimenticato di pagare lo stipendio, cosicchè si trova nella condizione di non poter esigere i crediti e non poter ripagare i debiti. E di dover chiudere l’azienda lasciando a spasso i dipendenti.

L’Italia, come detto, rientra pienamente nella categoria “cliente estero”, e come i suoi colleghi continentali ha impostato la sua attività in buona parte sulla costruzione di case (la produzione manifatturiera è rimasta stagnante) e ha incentrato in essenza la propria economia su un debito montante.

Oggi, mentre il gigante asiatico pare deciso a voltar pagina e puntare su uno sviluppo autocentrato, Europa e Stati uniti sono costretti a tornare alla realtà e a recuperare competitività sui mercati internazionali, in particolare attraverso un adattamento dei costi di produzione, vale a dire distruggendo ulteriormente il salario (rientra in questo quadro anche il deprezzamento relativo del dollaro statunitense attraverso il Quantitative easing, dato che renderà più difficile per il consumatore americano accedere alla produzione mondiale). Alle attuali condizioni, qualsiasi economia capitalista deve fare ciò, appartenga o meno all’area euro.

L’unica vera alternativa disponibile è il socialismo, l’esproprio forzato di tutta l’industria privata, la messa in moto di tutte le forze produttive esistenti, lo sganciamento dal blocco imperialista e la costituzione di un’area di sviluppo che includa tutti i paesi che vogliano uscire dalla logica fallimentare della produzione basata sul profitto e sullo scambio ineguale fra nazioni (ve n’è più d’uno, penso ad esempio all’Alba, e ve ne saranno altri). Penso che non si debba partire dalla fine, dalle concrete ma non essenziali (e alquanto variabili) manifestazioni del comando capitalista, come può essere la moneta unica europea. Il socialismo non ha nulla di astratto[1], è una necessità concreta e ineluttabile: significa produrre per soddisfare bisogni sociali e non per allargare lo sfruttamento; bisogna tornare alle fonti: ribadire, per quanto possa sembrare filosofico-speculativa, l’affermazione per cui in questo sistema una produzione sempre più capace di risparmiare lavoro si rende non proficua mentre in un altro sistema, quello della pianificazione e della proprietà collettiva, il tempo libero e il benessere diffuso sono un obiettivo perseguibile.
Rimanere nel concreto significa semplicemente individuare il nemico che difende il sistema vigente e che ne rappresenta l’ossatura (il padronato, lo stato, gli apparati militari imperialisti) e combatterlo con i mezzi che si ritengono efficaci; e significa rinunciare a scrivere le ricette per le osterie di domani (cosa si produrrà, come si prenderanno concretamente le decisioni…).

Quindi va certo bene riaffermare che l’euro non ha risolto il problema della vulnerabilità economica, come avevano promesso i profeti dell’inflazione massima 2%, e mai avrebbe potuto risolverlo. Ma non si può pensare che uscire dall’euro serva ad alcunché, se i rapporti di produzione e le relazioni economiche internazionali rimangono identici. Lo stesso si dica per un programma di nazionalizzazioni che non si innesti sulla cancellazione definitiva della proprietà privata dei mezzi di produzione: in un documentario di qualche anno fa, affermava lucidamente un operaio della Zanon occupata che la gestione operaia di un’azienda vale poco se deve operare in un ambiente economico le cui leggi si impongono inesorabilmente ai produttori; lo stesso valga della statalizzazione dei “settori strategici” e delle aziende lasciate in disuso: se non viene sovvertito l’ordine costituito, si rischia nient’altro che un ritorno alla fase delle partecipazioni statali costrette ad essere colossi in ostaggio degli oligopoli nonché la tenuta in vita di un settore decadente le cui perdite dovrebbero essere gestite dalla intera collettività. Il tutto nel contesto di limiti posti all’iniziativa pubblica alle prese con deficit di bilancio (un default recente sullo stock di debito può solo aggravarne i rischi).

[1] Mi riferisco al passo “non parliamo di astratte declamazioni socialiste…..”