Valore-lavoro, prezzi e saggio del profitto: perché la teoria di Marx non funziona
Una presentazione (per quanto possibile) non matematica dei problemi della teoria con alcune riflessioni critiche
Stimolati dalla discussione svoltasi in seno alla Scuola Umbra, e poco soddisfatti della ricostruzione del dibattito pubblicata su questo blog, abbiamo deciso di produrre una disamina dei conclamati problemi della teoria del valore-lavoro di Marx. Le argomentazioni che sarebbe necessario portare per un’analisi generale delle difficoltà che incontra la teoria sono purtroppo dense di aspetti logici ed economici affatto banali. Proprio per questo abbiamo puntato ad un obiettivo più modesto, limitandoci al minimo uso della matematica, e accettando così di perdere qualcosa nella generalità dell’argomento. Ciò nella speranza di rendere la discussione accessibile ad un pubblico il più vasto possibile, e magari sviluppare un serio dibattito in merito.
Per poter affrontare la questione della validità della teoria del valore-lavoro in modo sensato ed accessibile a tutti è necessario innanzitutto introdurre delle definizioni e quindi porsi quattro importanti domande.
Definizioni
Cosa si intende per valore-lavoro di una merce? Per valore-lavoro di una certa merce si intende il lavoro diretto necessario per produrre una unità di detta merce più il lavoro indiretto che è stato necessario per produrre i mezzi di produzione di detta merce, più il lavoro indiretto necessario per produrre i mezzi di produzione dei mezzi di produzione di detta merce, e così via. Le differenti qualità di lavoro sono riportate ad un’unica unità di misura (il lavoro di qualità superiore semplicemente conta come più lavoro della stessa qualità) e la quantità di lavoro necessaria per produrre una merce od un mezzo di produzione è quella media dell’economia considerata.
Cosa si intende per valore di scambio di una merce? Per valore di scambio di una merce deve intendersi la ragione di scambio di detta merce con le altre merci che si realizza nella realtà. In un’economia capitalistica il valore di scambio di una merce è il suo prezzo di mercato relativamente al prezzo di mercato delle altre merci (ad esempio, se un kilo di pane cosa 2 euro e un kilo di patate costa 1 euro, allora il valore di scambio di un kilo di pane è doppio rispetto al valore di scambio di un kilo di patate).
Cosa si intende per capitale costante di una industria? Si intende l’insieme dei mezzi di produzione che vengono utilizzati in più cicli della produzione (quindi beni capitali). Cosa si intende per capitale variabile di una industria? Si intende l’insieme dei salari pagati e delle merci utilizzate in un solo ciclo di produzione (ad esempio, le materie prime o i prodotti intermedi).
Cosa si intende per saggio di profitto? Si intende il guadagno ottenuto, per ogni unità di capitale investito, a valle di un ciclo di produzione (per semplicità fissiamo il ciclo di produzione ad 1 anno per tutte le industrie).
Domanda 1: quale è il problema teorico in esame?
La prima domanda da porci è quale questione teorica vogliamo affrontare con la teoria del valore-lavoro. La risposta a questa domanda è di natura convenzionale (cioè serve per stabilire un linguaggio comune per capirsi meglio) ed ha come obiettivo quello di sgombrare il campo da fastidiosi fraintendimenti. La teoria che consideriamo in questa discussione è esclusivamente quella riferita al problema generale della determinazione del valore di scambio e del saggio del profitto, cioè della spiegazione e previsione dei valori di scambio e del saggio del profitto osservati nella realtà capitalistica.
Domanda 2: quali sono gli obiettivi che si pone Marx?
La seconda domanda è quale sia l’obiettivo teorico che Marx si prefigge con la teoria del valore-lavoro, in che modo cioè egli speri di utilizzare le implicazioni di tale teoria. Sicuramente gli obiettivi sono più di uno, ma certamente tra questi spicca quello di chiarire il rapporto tra i prezzi delle merci osservati in una economia capitalistica e il contributo del lavoro necessario per produrli, con l’obiettivo di comprendere la natura del profitto (e, ragionevolmente, mostrarne l’illegittimità).
Domanda 3: quale la tesi avanzata da Marx?
La terza domanda è quale sia la tesi che Marx cerca od è convinto di dimostrare sulla relazione tra prezzi e valore-lavoro. Qui è necessario fare una distinzione tra la teoria del valore-lavoro classicamente intesa e quella sviluppata da Marx. La tesi della teoria del valore-lavoro classica (per intendersi, quella sviluppata da Ricardo) è che i valori di scambio delle merci (i loro prezzi di mercato) siano proporzionali ai loro valori-lavoro. Tale tesi è falsa, e ciò è stato non solo ampiamente dimostrato, ma è proprio il punto di partenza di Marx per sviluppare la propria teoria (vedasi la trasformazione dei valori-lavoro in prezzi). Infatti, la tesi della teoria del valore-lavoro di Marx è più sofisticata: valori-lavoro e prezzi di mercato non sono proporzionali in generale, ma in aggregato nell’economia. Più precisamente, è solo grazie ai valori-lavoro che possiamo determinare il saggio del profitto e svelarne la natura.
Domanda 4: perché focalizzarsi solo sul profitto e non anche su salari o rendite?
Per capire questa scelta serve una piccola parentesi sulla storia del pensiero economico classico. Il reddito di una economia capitalistica è costituito da tre componenti: salari, profitti e rendite. La natura delle rendite fu studiata da Ricardo e Marx accetta l’analisi ricardiana in pieno. Per questo Marx sviluppa la sua teoria ipotizzando tipicamente rendite nulle (per semplificare le cose poiché considera la questione della rendita già risolta). Per quanto riguarda i salari invece l’idea di Marx (e dei classici) è che la loro evoluzione non sia un fenomeno da spiegare tramite una teoria del valore di scambio. I salari sono considerati da Marx un dato da cui la teoria parte, cioè un dato empirico che non si cerca di spiegare (ovviamente per dar conto dei salari si può pensare alla teoria della lotta di classe o a quella malthusiana, ma siamo in ogni caso fuori dalla teoria del valore di scambio).
L’analisi di Marx
L’ipotesi di concorrenza tra capitalisti: il saggio del profitto realizzato in ciascuna industria è lo stesso
Nel proprio modello di funzionamento dell’economia capitalistica Marx ipotizza che ci siano varie industrie ciascuna delle quali produce con una diversa composizione organica del capitale (cioè con diverse proporzioni tra capitale variabile e capitale costante). Egli ipotizza anche che, in virtù della concorrenza tra capitalisti, il saggio del profitto realizzato in ciascuna industria debba essere lo stesso (se così non fosse, infatti, i capitalisti sposterebbero i propri capitali dall’industria meno redditizia a quella più redditizia). Tale ipotesi è forte ma innocua perché ammettere l’esistenza di potere di monopolio è decisamente semplice e senza conseguenze per la teoria in questione: in certe industrie il saggio di profitto è incrementato di una quantità che dipende dal potere di monopolio.
La domanda di ricerca di Marx, in dettaglio
A partire da questo modello, Marx si chiede quali siano i valori di scambio (i prezzi di mercato) che permettano l’emergere di un saggio uniforme del profitto in tutte le industrie. Tali prezzi sono, secondo Marx, quelli che devono emergere in un’economia capitalistica in cui la competizione tra capitalisti sia lasciata libera di operare per un tempo sufficientemente lungo.
Da un lato ci sono quindi i valori di scambio (i prezzi) che rendono il saggio di profitto uniforme tra le industrie, dall’altro lato ci sono i valori-lavoro delle merci. Vediamo ora perché, al contrario di quanto Marx tenta di dimostrare con la teoria del valore-lavoro, i prezzi delle merci non sono proporzionali al valore-lavoro nemmeno in aggregato. Vediamo anche perché è problematico tentare di determinare il saggio del profitto a partire dai valori-lavoro.
Un esempio con 2 industrie: grano e ferro
Prendiamo il caso di un’economia con 2 beni in tutto (ferro e grano), entrambi utilizzabili come capitale costante, e seguiamo Marx nel suo modo di determinare i valori di scambio (prezzi) e il saggio del profitto. Sfruttando l’ipotesi di competizione tra capitalisti abbiamo che il saggio del profitto nelle due industrie (grano e ferro) deve essere lo stesso. Ipotizziamo quindi che il valore di scambio della produzione di grano (cioè il grano prodotto moltiplicato per il suo prezzo unitario p_g) sia pari alla somma del capitale costante (C_g) e del capitale variabile (V_g) impiegati nella produzione di grano, rivalutata del saggio del profitto per remunerare il capitale investito (moltiplichiamo cioè tale somma per 1+r). Similmente, ipotizziamo che il valore di scambio della produzione di ferro (cioè il ferro prodotto per il suo prezzo unitario p_f) sia pari alla somma del capitale costante (C_f) e del capitale variabile (V_f) impiegati nella produzione di ferro, rivalutata del saggio del profitto per remunerare il capitale investito (moltiplichiamo cioè tale somma per 1+r). In formule abbiamo (il simbolo * indica la moltiplicazione):
(grano prodotto)*p_g = (1 + r)*(C_g + V_g)
(ferro prodotto)*p_f = (1 + r)*(C_f + V_f)
A sinistra dell’uguaglianza leggiamo quindi i valori di scambio della produzione di ferro e di grano, cioè i prezzi che si dovrebbero osservare sul mercato moltiplicati per le quantità prodotte di merci, mentre a destra dell’uguaglianza leggiamo i valori-lavoro dei mezzi di produzione rivalutati del saggio del profitto che i capitalisti ottengono, cioè il valore della produzione. Vi sono alcune varianti a queste equazioni, ma esse ben sintetizzano l’idea di fondo che aveva Marx.
Determinazione dei prezzi e del saggio di profitto
Forte di equazioni simili a quelle dell’esempio precedente, Marx procede a determinare valori di scambio e saggio del profitto. Innanzitutto, si può sempre misurare il valore-lavoro del capitale variabile e di quello costante delle varie industrie, nonché le quantità prodotte di ciascun bene, si può determinare i prezzi delle merci. Rimangono perciò come incognite il prezzo del grano, il prezzo del ferro ed il saggio di profitto. Poiché con due sole equazioni si possono determinare (al più) due incognite, Marx si convince della necessità di una terza equazione che per poter determinare sia i prezzi che il saggio del profitto. La terza equazione è in realtà un’ipotesi, che Marx deve aver pensato essere in qualche modo naturale: il saggio di profitto r è determinato dall’economa nel suo complesso secondo la formula r = s/(c + v) dove s è il pluslavoro (valore-lavoro non pagato ai salariati) di tutta l’economia, c è il capitale costante di tutta l’economia e v è il capitale variabile di tutta l’economia. Grazie a questa terza equazione il saggio di profitto è univocamente determinato, e quindi le due precedenti equazioni possono essere sufficienti a determinare i prezzi.
Questo modello teorico ha due gravi problemi.
Primo problema
Il primo, di cui Marx stesso in parte si avvede e denuncia (vedere Terzo libro del capitale, Trasformazione dei valori in prezzi) è che il costo di produzione (lato destro delle equazioni viste sopra) è espresso in termini di valori-lavoro, che sono diversi dai costi effettivamente sostenuti dai capitalisti e, quindi, non genererebbero il saggio di profitto r. Infatti, i capitalisti comprano e vendono ai valori di scambio, non ai valori-lavoro. Tale problema è, in una certa misura, sanabile ma non entriamo nel dettaglio della questione per concentrarci sul problema successivo.
Secondo problema
Il secondo problema è assai più grave e, sopratutto, insanabile. Assumendo, come fa Marx, che la competizione tra capitalisti porti ad un saggio di profitto uniforme nelle varie industrie e, in aggiunta, considerando il fatto che i capitalisti comprano e vendono ai valori di scambio (e non ai valori-lavoro), abbiamo che il valore di scambio della produzione di grano (cioè il grano prodotto per il suo prezzo unitario p_g) è pari alla somma del valore di scambio del grano utilizzato nella produzione di grano (cioè quantità di grano usato moltiplicato per il suo prezzo unitario p_g) più il valore di scambio del ferro utilizzato nella produzione del grano (cioè quantità di ferro usato moltiplicato per il suo prezzo p_f) più il valore di scambio del lavoro acquistato (cioè i salari dei lavoratori che hanno partecipato alla produzione di grano), somma che deve essere rivalutata del saggio del profitto per remunerare il capitale investito (moltiplichiamo cioè tale somma per 1+r). Similmente, abbiamo che il valore di scambio della produzione di ferro (cioè il ferro prodotto per il suo prezzo unitario p_f) è pari alla somma del valore di scambio del grano utilizzato nella produzione di ferro (cioè quantità di grano usato moltiplicato per il suo prezzo unitario p_g) più il valore di scambio del ferro utilizzato nella produzione del ferro (cioè quantità di ferro usato moltiplicato per il suo prezzo p_f) più il valore di scambio del lavoro acquistato (cioè i salari dei lavoratori che hanno partecipato alla produzione di ferro), somma che deve essere rivalutata del saggio del profitto per remunerare il capitale investito (moltiplichiamo cioè tale somma per 1+r). Formalmente, questo ragionamento porta al seguente sistema di equazioni che deve necessariamente essere soddisfatto:
(grano prodotto)*p_g = (1 + r)*[(grano usato per produrre grano)*p_g + (ferro usato per produrre grano)*p_f + salari]
(ferro prodotto)*p_f = (1 + r)*[(grano usato per produrre ferro)*p_g + (ferro usato per produrre ferro)*p_f + salari]
A sinistra c’è, come nelle equazioni di Marx, il valore della produzione (quantità prodotta per suo prezzo) mentre a destra ora abbiamo correttamente il costo di produzione (mezzi di produzione più lavoro) rivalutato del saggio di profitto che i capitalisti chiedono per investire nell’industria e attivare la produzione. Come si può facilmente dimostrare (ma evitiamo di farlo qui poiché non è il luogo adatto), tale sistema di equazioni determina sia il rapporto tra i prezzi p_f/p_g che il saggio del profitto r. Si noti che non è affatto necessario determinare i livelli assoluti di p_f e p_g, ma è sufficiente determinare p_f/p_g, cioè il rapporto di scambio. Sarà poi il sistema monetario (o il sistema che ne svolge le funzioni) a determinare i livelli assoluti dei prezzi secondo i rapporti stabiliti (si pensi, ad esempio, all’inflazione). Incidentalmente, questo ci permette di ricordare che una terza equazione non è necessaria per gli obiettivi prefissati da Marx: determinare il saggio del profitto e i valori di scambio.
Vediamo ora in maggior dettaglio di cosa consiste questo secondo problema. In virtù di alcune verità osservative (i capitalisti comprano e vendono ai valori di scambio) e delle ipotesi fatte da Marx, il saggio del profitto dell’economia deve essere tale da soddisfare ALMENO la seconda coppia di equazioni, cioè le equazioni in cui figurano i prezzi anche sul lato destro. Tuttavia, tali equazioni sono anche SUFFICIENTI a determinare sia il valore di scambio delle merci che il saggio del profitto. Ciò implica che le equazioni di Marx (quelle con i valori lavoro sul lato destro) devono essere tali da determinare gli stessi valori di scambio e che, al tempo stesso, il rapporto s/(c+v) deve dare il medesimo saggio del profitto (poiché tutte le equazioni si riferiscono alla medesima economia, e quindi al medesimo saggio del profitto). Sfortunatamente, a meno di coincidenze numeriche, non c’è modo per cui ciò avvenga poiché i valori-lavoro sono determinati fuori del sistema dei prezzi e il saggio del profitto è determinato fuori dal sistema dei valori-lavoro. I due sistemi di equazioni non daranno, in generale, gli stessi valori di scambio e lo stesso saggio del profitto, perciò uno dei due sistemi è sbagliato. Poiché il secondo sistema di equazioni qui riportato (quello senza i valori-lavoro) è sicuramente vero anche nella teoria di Marx (di cui utilizza solo l’ipotesi di concorrenza tra capitalisti), mentre il sistema di equazioni di Marx può essere vero (ma non è detto che lo sia) solo prevedendo tutte le ipotesi della teoria di Marx, ne segue che il sistema di equazioni di Marx è sbagliato.
Ricapitoliamo l’essenza di questo secondo problema per chiarirne meglio la criticità. Le equazioni di Marx sono incapaci di stabilire una connessione logicamente coerente tra il valore-lavoro contenuto in una merce ed il suo prezzo in un’economia capitalistica. In particolare, il postulato che il saggio del profitto r sia determinato dai valori lavoro secondo la formula r = s/(c+v) è logicamente incompatibile con altre ipotesi della stessa teoria (e va quindi abbandonato).
Che fine fa lo sfruttamento?
La domanda da 1000 punti (come ci è stato suggerito) è la seguente: se Marx avesse avuto le nozioni matematiche per comprendere e risolvere il problema, ne sarebbe stato soddisfatto rispetto agli obiettivi che si poneva? Certamente la corretta determinazione dei valori di scambio (prezzi) e del saggio profitto (obiettivo di tutti gli economisti classici, Marx in testa), gli avrebbe dato grande soddisfazione. Tuttavia crediamo che Marx non avesse solo questo obiettivo ma anche quello di usare la teoria del valore-lavoro per mandare un messaggio: il profitto viene dal pluslavoro, quindi nasce dallo sfruttamento ed è illegittimo. Questo secondo obiettivo è impossibile da raggiungere in termini di pluslavoro, a meno di definire in altro modo le grandezze in gioco (prezzi, profitto, valore-lavoro). Tuttavia, questo non implica affatto abbandonare l’idea che i lavoratori siano sfruttati (del resto lo erano anche gli schiavi senza che esistesse il profitto e il capitalismo). Significa però riformulare la teoria dello sfruttamento in termini diversi. Il profitto può sempre essere pensato come reddito tolto ai lavoratori in modo illegittimo, basta mostrare che i capitalisti riescono ad imporre ai lavoratori di ricevere un salario inferiore rispetto al loro contributo alla produzione (cosa, a pensarci bene, non troppo complicata, vista l’asimmetria in termini di potere contrattuale a causa del possesso dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti).
da Sollevazione