A 10 anni dall’11 settembre

Non abbiamo mai condiviso le tesi complottiste. Non che i complotti non esistano, anzi ne vengono confezionati a bizzeffe ogni giorno, nei campi più diversi, a tutte le latitudini. Quel che non ci convince proprio è invece il complottismo, cioè la sistematica spiegazione di ogni fatto politico rilevante attraverso la teoria del complotto. Se sappiamo, fin da ragazzi e prima che i complottisti avessero tanto spazio, che non sempre la realtà è così come ci appare a prima vista, quel che non è sopportabile è la spiegazione del mondo attraverso una visione «superiore», di cui solo i complottisti dispongono.

E’ una visione che loro credono vada contro i potenti, mentre in realtà finisce per attribuire proprio ai dominanti di turno un potere indiscusso e totalizzante, condensabile nella convinzione che «al mondo non si muova foglia che la Cia non voglia». Una visione che considera i popoli, le classi, le stesse formazioni politiche, come entità completamente manipolabili da una casta in grado di usarli per i propri fini. I complotti esistono (ci scusiamo per dover ripetere questa ovvietà), a volte riescono, più spesso falliscono, ma per fortuna il mondo non è così come lo pensano i complottisti.

Ci occupiamo di questa questione un po’ perché ce lo impone il decennale dell’11 settembre, ma soprattutto perché il profluvio delle tesi cospirazioniste non risparmia proprio niente, ed oggi porta ad esempio ad etichettare le sollevazioni arabe (all’interno delle quali esistono ovviamente differenze e peculiarità da discutere) come «rivoluzioni colorate». Anche in questo caso cancellando i popoli, le loro lotte, le concrete e spesso complesse dinamiche sociali e politiche. Tanto a che serve analizzare, studiare, cercare di comprendere, se c’è già una bella ed onnicomprensiva spiegazione a portata di mano?

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Generalmente, al verificarsi di fatti rilevanti ed improvvisi, quale ad esempio un importante attentato politico, la teoria del complotto tende a mettere al primo posto il cui prodest?, come unica domanda dalla quale dedurre rispostine assai semplici e scontate. E’ giusto porsi quella domanda?  Ovviamente sì, ma andrebbe fatto insieme ad altri elementi: chi può aver compiuto quella determinata azione, quali nemici dell’entità colpita possono aver agito, quali forze sono in grado di compierla, quali scopi oltre a quello apparentemente più evidente possono esservi, eccetera.

La logica del cui prodest porta poi ad un curioso risultato. Siccome gli attentati vengono sempre condannati dal sistema dei media, si suppone che la vittima – qualunque essa sia – si avvantaggi sempre e comunque in termini di immagine. Per cui la risposta al solito «a chi giova?», sarà alla portata di qualunque bambino di media intelligenza. E la risposta condurrà inevitabilmente alla tesi dell’autoattentato. Viene colpito un esponente del governo di un importante Paese? Saranno stati i servizi di quello stesso Paese per accusare gli avversari interni od esterni. Viene attaccato un determinato partito politico? Saranno stati i dirigenti di quello stesso partito ad aver disposto l’attentato per provare a vincere le prossime elezioni. E così via.

Ma davvero è così semplice? Nel marzo del 2004 la Spagna, alla vigilia delle elezioni politiche, fu sconvolta da una gravissima strage. In una serie di attentati, che colpirono quattro treni, vi furono 191 vittime ed oltre 2000 feriti. Il primo ministro Josè Maria Aznar – considerato favorito dai sondaggi – accusò dell’attentato l’ETA. Il risultato fu la sua sconfitta elettorale a favore del socialista Zapatero.

Se l’esempio spagnolo è eclatante, veniamo alle vicende di casa nostra. Negli anni ’70, per un certo periodo, le Brigate rosse vennero etichettate (soprattutto dal Pci) come  «sedicenti Brigate rosse». Il cui prodest la faceva da padrone. Ma la stessa domanda veniva usata in diverse direzioni e con esisti opposti. Il risultato di questa gigantesca rimozione – l’esistenza di una formazione politico-militare che aveva scelto la via della lotta armata in Italia – fu davvero comico. Alcuni sostenevano che le Br erano uno strumento della Cia contro il compromesso storico. Altri argomentavano che il loro obiettivo era sì il compromesso storico, ma il mandante il Kgb, magari attraverso l’azione di altri servizi d’intelligence del Patto di Varsavia. Altri sostennero che le Br erano manovrate dal Mossad per rendere Israele l’unico paese affidabile per gli Usa nel Mediterraneo. Altri ancora che le loro azioni armate servivano a depotenziare il «movimento», che viceversa avrebbe fatto chissà quali sfracelli.

Naturalmente, ognuna di queste letture conteneva brandelli di verità. Per ragioni opposte, sia gli Usa che l’Urss non vedevano di buon occhio l’ingresso del Pci nell’anticamera del governo, Israele poteva avere i suoi motivi, ed il «movimento» risentì effettivamente dell’impatto delle azioni armate. Ciò non toglie, però, che tutte queste spiegazioni fossero totalmente sbagliate. Le Brigate rosse esistevano, avevano i propri militanti e le loro azioni si inserivano in una precisa ed autonoma strategia politica, facilmente ricavabile dalla massa dei documenti prodotti da questa organizzazione.

Cosa c’entra questa storia con l’11 settembre? C’entra eccome, perché dimostra che il cui prodest molto spesso non spiega proprio nulla. E non spiega nulla non solo perché gli agenti reali spesso non hanno niente a che fare con i supposti mandanti, ma anche perché spesso non è facile stabilire a chi giovi davvero una determinata azione. Ed è su questo aspetto che è utile concentrarsi nel decennale dell’attacco alle Torri gemelle.

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In un recente articolo sul Sole 24 Ore (leggi qui), Mario Platero ritiene che alcuni elementi che hanno determinato l’attuale crisi economica – che ha vissuto indiscutibilmente il proprio scoppio iniziale negli Stati Uniti – siano riconducibili proprio alle conseguenze degli attentati dell’11 settembre 2011. Egli addirittura ipotizza che un tale sviluppo fosse stato intuito, se non proprio previsto da Bin Laden.

Mentre non ci avventuriamo sulle analisi delle strategie di Bin Laden, pur vedendone una certa razionalità,  quel che è evidente è come l’America di oggi sia ben più debole di quella di dieci anni fa. Dunque, se autoattentato è stato, gli obiettivi sono stati clamorosamente falliti. Su questo punto qualsiasi osservatore onesto dovrebbe convenire. Ma non faremo l’errore di dire che siccome le cose sono andate così, allora gli autori degli attentati dell’11 settembre sono sicuramente da ricercarsi nei più intelligenti nemici degli States a livello globale. Non lo diciamo, perché non possiamo dire con certezza chi abbia compiuto quegli attentati. Quel che invece possiamo affermare con tranquillità è che la premessa del ragionamento complottista, il cui prodest, fa acqua da tutte le parti.

Naturalmente, la spiegazione che ha avuto maggior diffusione è quella secondo cui l’11 settembre avrebbe dato carta bianca a Bush per scatenare le sue guerre. Argomento debole per almeno due motivi. In primo luogo gli Usa avevano condotto vittoriosamente due guerre d’aggressione (Iraq 1991 ed anni seguenti con l’embargo, Jugoslavia 1999) senza alcun bisogno di attentati sul proprio territorio. In secondo luogo, se attentato doveva esserci, bastava scegliere un obiettivo minore, magari più odioso e meno compromettente il mito dell’inviolabilità del proprio territorio.

Certo che l’amministrazione Bush, seguita dallo stuolo dei sostenitori della guerra di civiltà, ha approfittato dell’11 settembre, così come in «piccolo» Cossiga approfittò della lotta armata per promulgare leggi liberticide ed autoritarie. Abbiamo dunque avuto l’attacco all’Afghanistan (7 ottobre 2001) e all’Iraq (20 marzo 2003), ma con quale risultato? Se in Iraq gli Usa hanno raggiunto solo parzialmente i propri obiettivi, in Afghanistan la guerra è tuttora in corso (dopo 10 anni! Anche questo era stato previsto dai complottatori?), senza che vi siano credibili prospettive di vittoria per gli Stati Uniti.

Ma queste guerre non erano fini a se stesse. Nella strategia americana esse avrebbero dovuto essere la chiave di volta per il controllo tanto del Medio oriente che dell’Asia centrale, due aree ricondotte infatti nella nuova entità geopolitica denominata dagli Usa «Grande Medio Oriente». Ed il loro dominio era l’elemento decisivo di una strategia planetaria volta a mantenere l’ordine monopolare scaturito dalla dissoluzione dell’Urss e dell’impero sovietico (1989-1991).

Ora, il 2001 si colloca proprio a metà strada tra il 1991 (scioglimento dell’Urss, caduta definitivamente in mano dell’ubriacone al servizio della Casa Bianca, Boris Eltsin), ed il 2011 che vede la potenza nordamericana dentro una crisi insolubile, resa manifesta dall’impotenza di Obama sulla questione del debito.

Chi ci legge sa perfettamente che noi non siamo tra quanti credono ad un imminente crollo della superpotenza a stelle e strisce. Anzi, ne vediamo bene i punti di forza che permangono – la potenza militare in primo luogo, il dominio nelle istituzioni internazionali, il ruolo del dollaro, eccetera. E pensiamo, tra l’altro, che essa non abbandonerà facilmente con le «buone» il proprio ruolo dominante. Tuttavia, lo abbiamo già detto, l’America di oggi è ben più debole di quella del 2001. Che sia più debole economicamente è cosa fin troppo manifesta. Ma è forse riuscito il disegno di controllare il «Grande Medio Oriente»? Assolutamente no. Certo, gli strateghi statunitensi non si arrendono. Continuano le loro guerre e ne fanno di nuove (Libia), proseguono le loro occupazioni e magari ne preparano altre, ma la loro presa sull’area è assai più debole di quella di 10 anni fa.

Ed infine, se il loro scopo era quello di impedire il sorgere di nuove potenze con ambizioni globali od anche soltanto regionali, qual è il bilancio del decennio? Vogliamo forse confrontare l’odierno rapporto di forze Usa-Cina con quello che esisteva nel 2001? E i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) non rappresentano soltanto una nuova realtà economica, essi sono anche il segno dell’emersione di nuove potenze quantomeno regionali, basta guardare al ruolo del Brasile in Sud America. Non solo, era forse pensabile dieci anni fa l’autonomizzazione crescente di un paese come la Turchia? Per chi preferisce un mondo multipolare al posto di quello monopolare, niente male il dopo 11 settembre…

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Sì, ammetteranno i complottisti, tutto questo è vero, ma come spiegate il crollo delle torri che il fisico x ha decretato impensabile, il foro del Pentagono che l’ingegner y ha detto non compatibile con un aereo, la precisione dei dirottatori che il pilota z ha dichiarato impossibile? Ora, a parte il fatto che esistono il fisico x1, l’ingegnere y1 ed il pilota z1 che vi diranno l’esatto contrario dei loro rispettivi colleghi, come del resto avviene tra periti in ogni banalissimo processo a seguito di un incidente stradale, il punto in questo caso è davvero un altro.

Ed è esattamente questo. Se di autoattentato si è davvero trattato, dobbiamo ammettere che esso avrebbe coinvolto diverse centinaia (più probabilmente migliaia) di persone. Immaginatevi soltanto il livello decisionale. Ammettiamo che l’autoattentato sia stato deciso dalla Casa Bianca, che però non avrebbe potuto fare a meno di coinvolgere i vertici della Cia, del Pentagono, di tutte le altre agenzie spionistiche. Consideriamo poi il livello operativo: squadre di minatori (nel senso di posatori di esplosivo) all’opera, abbattimento degli aerei fintamente dirottati, coinvolgimento degli addetti al traffico aereo, occultamento di ogni traccia, coinvolgimento o corruzione delle commissioni di indagine, controllo ferreo affinché nessuno potesse proferir parola. Ed ancora, segnalazione del pericolo a persone da salvare presenti nelle strutture colpite, un’esigenza di cui si sarebbe dovuto tener conto quantomeno nel caso del Pentagono.

E’ possibile che, dopo dieci anni, tutte queste centinaia (più probabilmente migliaia) di persone – non solo decisori ed esecutori diretti, ma anche tutti gli altri indirettamente coinvolti –  ancora tacciano? E’ pensabile che il silenzio regga in maniera così ferrea, tanto più in una società della chiacchiera come la nostra?

I complottisti risponderanno a queste considerazioni esibendo questo o quel frammento di verità, mettendo in luce contraddizioni ed omissioni della versione ufficiale. Tutte cose facilmente spiegabili, dato che in questi casi un governo (tanto più quello americano) ha tanti buoni motivi per omettere questo o quel particolare: l’esigenza politica di non ammettere le falle nel sistema di difesa, quella di non dover ammettere una certa sottovalutazione di alcune informazioni, quella di non rendere pubblici tutti i dispositivi di sicurezza, eccetera.

Sappiamo perfettamente che questi argomenti non convinceranno mai i veri complottisti. Perché il complottismo non è un’opinione, tanto meno una scienza. E’ invece una religione, ed in questo campo, si sa, le conversioni sono davvero rare. Lasciamo dunque ai complottisti il loro giocattolo e le loro certezze. Chi scrive non crede alle loro tesi, ma se davvero avessero ragione, e visto il bilancio di questo decennio, diciamo allora che il più grande degli autoattentati si sarebbe risolto nel più gigantesco, clamoroso e spettacolare degli autogol. E sul piano del bilancio storico è questo che conta.