Il «populismo». Basta ascoltare le parole di Letta per capire che è questo l’odierno fantasma che si aggira per l’Europa. Si tratta di un tema di grande attualità: dal voto al M5S, a quel che accade in altri paesi europei, alla mobilitazione popolare di questi giorni in Italia. Un tema che suscita tabù e snobismo da parte di quella sinistra salottiera ed elitaria che ha da tempo reciso ogni «connessione sentimentale» con il popolo, anche con quello che con spirito proprietario considera «suo».

All’analisi del populismo, nelle sue diverse varianti, ed alla centralità del concetto di «sovranità popolare e nazionale» è dedicato il breve saggio di Mimmo Porcaro che pubblichiamo di seguito. Questo testo è stato scritto per le «Edizioni Punto Rosso» quasi due anni fa, ma i lettori non avranno certo difficoltà ad apprezzarne la grande attualità.


Perché mai la classe operaia dovrebbe votare per la sinistra?

di Mimmo Porcaro

Se si eccettuano alcuni momenti della sua storia, la sinistra italiana non ha mai raccolto la maggioranza dei consensi del proletariato industriale. Ha raccolto, in alcuni casi, la maggioranza dei consensi del lavoro dipendente globalmente inteso, ossia quello composto dal proletariato industriale e dai lavoratori dei servizi, in particolare dei servizi pubblici: mediamente più qualificati, questi ultimi, di quanto in genere non sia la classe operaia. Nelle ultime elezioni politiche, poi (paragonate da Ilvo Diamanti ad un nuovo 1948), anche questa maggioranza è andata perduta, e la distribuzione dei voti ha sostanzialmente ricalcato quella che risultò dalla sfida “fondativa” tra Democrazia Cristiana e Fronte popolare, essendo i voti operai del Pdl e della Lega Nord localizzati, ad un dipresso, proprio nei bacini che furono della vecchia DC. Spiccano, tra le molte suggestioni che le elezioni del 2008 possono offrire, due dati: 1) la parte più significativa dei voti operai in uscita dalla sinistra non è rifluita nelle formazioni del centro-destra, ma nell’astensione; 2) in generale, in Italia, i voti dei lavoratori qualificati vanno a sinistra, mentre quelli dei lavoratori dequalificati e dei giovani (soprattutto dei giovani meridionali) vanno a destra.

Si tende a volte a pensare che l’acuirsi della crisi possa in parte sanare questa apparente discrasia, ma le cose non sono affatto così semplici, perché alcune delle modalità d’azione che la sinistra ha maturato negli ultimi anni tendono più a riprodurre che a ridurre la distanza tra la sinistra stessa ed il grosso dei lavoratori dequalificati (ossia dei lavoratori più esposti alle forme ed ai contenuti della comunicazione populista). Sono almeno tre i punti di maggiore distanza tra quel che resta delle organizzazioni “rosse” (non tratto, qui, della sinistra liberista…) e la classe che essa pretende, quasi per investitura storica, di rappresentare.

Prima di tutto, si è diffuso un modello altruistico d’azione collettiva, tipico delle associazioni di impegno civile: un modello in cui ciò che conta non è la rivendicazione specifica per sé, ma, almeno all’apparenza, la rivendicazione generica per gli altri. Non importa qui il fatto che, per fare un esempio, la rivendicazione di maggiori fondi per la cooperazione internazionale si traduce in maggiori dotazioni per le associazioni che su quel terreno si muovono. La presenza di questo movente egoistico (nient’affatto scandaloso, s’intende) non elimina il fatto che l’appello che genera la mobilitazione non riguarda immediatamente le condizioni di vita di coloro che si mobilitano. Si tratta di un indubbio progresso nella storia della coscienza solidale e dei movimenti di emancipazione, ma è un progresso che non interessa affatto coloro che hanno bisogno, oggi, di risposte immediate ad altrettanto immediati bisogni: le nuove solidarietà fra gli strati popolari possono nascere solo da lotte che sono, in un primo momento, inevitabilmente egoistiche quando non corporative.

In secondo luogo, soprattutto in Italia, la sinistra si è lungamente spesa per la piena valorizzazione dell’opera del Terzo settore in materia di welfare. Cosa assolutamente positiva quando costituisce integrazione di un’attività statale capace comunque di garantire i livelli essenziali di assistenza, ma assai meno positiva quando ci si illude di poter sostituire, nella specifica situazione italiana, l’attività universalistica statale con l’occasionalità dell’attività associativa. Una credibile mobilitazione del Terzo settore, e della sinistra che lo appoggia, a difesa del welfare, avrebbe dovuto prendere le mosse dal ripudio dell’ascesa della sussidiarietà a principio di rango costituzionale. Senza questo ripudio, ed anzi con l’appoggio esplicito al principio di sussidiarietà, una parte purtroppo rilevante del Terzo settore “dà” con una mano, ma “toglie” con due, ossia soccorre solidalmente coloro che sono privi di protezione proprio a causa dell’effetto congiunto della sussidiarietà e della privatizzazione. La maggior parte degli elementari bisogni d’assistenza oggi insoddisfatti, sempre più acuti e diffusi, può trovare risposta solo in un ingente e pianificato intervento di assistenza statale, che non è necessariamente sinonimo di “burocratico”.

Infine, tutta la sinistra appoggia con giustificata convinzione le battaglie per la libera scelta individuale in materia di orientamento sessuale, di modelli familiari e di stili di vita, nonché per il rispetto delle differenze etniche e religiose. Anche in questo caso si tratta di un indubbio progresso, sia perché la “causa” è giusta in sé, sia perché tutto ciò costituisce uno degli antidoti alla costruzione di società autoritarie e populiste (di qualunque tipo), che hanno un inesausto bisogno, per sopravvivere, di stigmatizzare  tutti i comportamenti definiti come “difformi” al fine di nutrire un conformismo di massa a sostegno dei dominanti di turno. Ma purtroppo, anche in questo, caso, un innegabile progresso della cultura della sinistra si traduce in un fattore di incomunicabilità con gli strati più deprivati (economicamente e culturalmente) della popolazione. Questi ultimi infatti, se da un lato condividono pienamente il “disordine affettivo” che connota i nostri tempi, dall’altro non possono spingere questa condivisione fino alla completa messa in discussione – in nome della “libera individualità” – delle strutture familiari e comunitarie, perché queste costituiscono pur sempre, per loro, una condizione essenziale di sopravvivenza ed una forma irrinunciabile di orientamento nel mondo. Ecco quindi convivere, in una larga parte della popolazione italiana, il libertinaggio ed il familismo, il culto per la televisione sedicente trasgressiva ed il culto per i santi. Nessuna sorpresa, quindi, se l’eroe popolare per eccellenza è proprio Silvio Berlusconi, e nessuna sorpresa se i codici politici della sinistra appaiono completamente estranei al “popolo”, quando siano calibrati esclusivamente o soprattutto sulla questione dei diritti individuali.

Infine, come riassunto di tutto ciò, la stessa lotta per la democrazia, quando questa non sia presentata come effetto delle lotte sociali, ma come valore in sé, rischia di aumentare la distanza con strati sociali che non sanno cosa farsene della libertà di scelta politica se questa non comporta effetti sulla propria condizione di vita.

Chi ha ragione, allora? Chi è più “avanzato” e chi è più “arretrato”: la frazione colta della classe lavoratrice o la frazione meno qualificata?

Direi che la frazione colta è, al momento, certamente la più avanzata su tutto, tranne che sull’essenziale. Nel senso che, se è vero che i bisogni fondamentali sono identici per tutte le frazioni dei lavoratori, quelli della frazione colta possono però giovarsi dell’apparente risarcimento costituito da un intero set di forme di mediazione culturale (comunicazione informatica, abitudine alla mobilitazione politica, continua creazione di agorà), mentre quelli della frazione dequalificata tendono ad esprimersi in modi radicali ed assoluti, spesso prepolitici, ma comunque indicanti una sostanziale impossibilità di risolversi nelle attuali condizioni. La disperazione di coloro che non hanno risposte, nemmeno risposte simbolicamente risarcitorie, indica con maggiore nettezza la radicalità della situazione attuale ed il bisogno di uscirne con soluzioni che sono, rispetto agli ultimi trent’anni, del tutto inedite: una nuova, ingente presenza di uno Stato democraticamente controllato e, in non remota prospettiva, una ipotesi socialista come risposta alla crisi del capitalismo.

Qui non posso ovviamente parlare dei contenuti particolari di queste soluzioni, né dei mezzi per realizzarle. In questa sede mi limito a far notare come, per raggiungere questi obiettivi e per tornare in sintonia con i più larghi strati popolari, sia inevitabile avere a che fare col populismo, costeggiarlo, attraversarlo, reinterpretarlo.

Tre sono, a mio parere, gli enunciati fondamentali del populismo:
1) Il  popolo è un soggetto unitario, immediatamente dotato delle più importanti virtù, quali la laboriosità, l’onestà, la semplicità.
2) Ogni popolo si definisce come tale in rapporto ad un nemico esterno al popolo stesso, e l’eventuale traviamento di una parte del popolo e dei suoi capi non può dipendere che dall’opera di divisione e corruzione esercitata dall’esterno.
3) La risposta ai problemi popolari  può avvenire solo attraverso la rottura delle abituali mediazioni istituzionali e culturali, e grazie alla costruzione di un rapporto diretto tra il popolo ed un capo, la cui principale caratteristica è quella di esibire una omologia antropologica con il popolo stesso.
Dati questi tratti comuni, si possono individuare almeno tre varianti del populismo, una reazionaria, una liberista ed una progressista.

La variante reazionaria si fonda su una forte delimitazione degli strati sociali che meritano l’appellativo di “popolo”, dal quale sono esclusi tutti i “diversi” ed in particolare gli immigrati ed i soggetti che attuano comportamenti “alternativi”. Per essa il popolo non si costituisce attraverso le esperienze di autoeducazione ed autorganizzazione che furono tipiche, ad esempio, del primo socialismo italiano, ma grazie alla semplice appartenenza alla comunità e alla continua opera di “purificazione” contro l’elemento esterno. Oltre ai “diversi” i nemici principali di questa variante di populismo, sono alcune categorie di capitalisti: in genere le banche e gli speculatori, contrapposti al “sano” capitalismo produttivo, ma con possibilità di modificare il tiro a seconda delle esigenze tattiche. Tutti i capitalisti che superano questa “selezione”, e sono moltissimi, fanno invece parte del popolo tanto quanto i loro lavoratori, dando così luogo ad una delle più viete forme di occultamento della lotta di classe. Le mediazioni che questo populismo prende di mira sono essenzialmente quelle dei partiti, dei sindacati e degli intellettuali (con l’ovvia esclusione del partito, del sindacato e dell’intellighentzia “popolari”), ma soprattutto quella del diritto, al quale deve essere tendenzialmente sostituita l’espressione diretta della volontà popolare, così come interpretata dal leader.

Mentre la variante reazionaria del populismo è stata oggetto di numerosi studi, minore attenzione è stata dedicata alla variante liberista, se non per quanto riguarda alcuni tratti dell’esperienza di Tony Blair. Questa variante si caratterizza prima di tutto per una frammentazione ed individualizzazione del popolo, che sembra completamente opposta al comunitarismo con cui il popolo viene presentato nella prima variante, ma in realtà è un diverso modo per ottenere lo stesso risultato del comunitarismo, ossia la scomparsa del conflitto di classe e delle sue espressioni politiche. Infatti, inteso come massa di cittadini-consumatori, il popolo diviene un aggregato di individui che di volta in volta sceglie, senza “pregiudizi ideologici”, questa o quella soluzione politica in base a generiche e mutevoli preferenze che non fanno capo all’individuazione costante di precisi interessi di classe. Salta dunque, in questa concezione, la mediazione offerta dai partiti che si richiamano ad identità stabili, e ciò che conta è il rapporto più o meno diretto, o mediato dai soli sondaggi, tra il popolo e l’esecutivo. Ma salta anche, pur se in modo più sottile di quanto non avvenga nella prima variante, la mediazione del diritto, giacché la deregolamentazione tipica di ogni prospettiva liberista lascia campo libero al fluttuare delle norme in relazione ai rapporti di forza che si stabiliscono nel mercato. Infine, anche questo populismo non si esime dall’individuare comportamenti “difformi” da additare come esecrabili per costruire un conformismo di massa: il governo Monti, per esempio, col suo odio maniacale per tutti i lavoratori che hanno ancora memoria delle lotte e dei diritti, ha bandito una crociata a favore della parte sana del popolo, ossia quella che non vorrebbe altro che la piena realizzazione di un (presunto) universo meritocratico, contro la parte “garantita” e perciò profittatrice ed egoista, del popolo stesso.

Mentre la prima e la seconda variante del populismo hanno come tratto comune l’occultamento della lotta di classe, la variante progressista, di cui si hanno esempi in alcuni tratti dell’esperienza latino americana, ma anche nella crescente tendenza alla personalizzazione delle organizzazioni politiche della stessa sinistra europea, si caratterizza in genere per una più precisa individuazione degli avversari (giustamente identificati con uno o più  blocchi di diverse ed articolate frazioni di capitalisti, nazionali e sovranazionali), ed anche per la convinzione che le “virtù popolari” possano esprimersi veramente solo attraverso processi di autoeducazione ed autorganizzazione. Limite di questa posizione, che peraltro non si presenta quasi mai in forma pura, ma come elemento di accompagnamento di esperienze tendenzialmente socialiste, è la bassa istituzionalizzazione e la scarsa autonomia delle organizzazioni popolari, e quindi la loro tendenza a connettersi direttamente al leader e a dipendere da esso.

La presenza di numerose varianti di populismo (quelle appena descritte sono forse le più rilevanti, ma non sono certo le uniche), mostra come il populismo stesso sia un fenomeno politico (e/o un tratto comune a diversi fenomeni politici), dotato di grandi capacità di adattamento e quindi di grandi capacità di diffusione. Come qualcuno ha notato si tratta quasi di uno Zeitgeist, di uno “spirito del tempo”: del tempo in cui, a causa della sconfitta delle passate esperienze socialiste e a causa della destrutturazione del mondo del lavoro e della soggettività popolare, la lotta di classe fatica ad esprimersi come tale e viene deviata in forme distorte, neutralizzata, o espressa in modi indiretti, che ne consentono la diffusione a scapito, però, della chiarezza degli obiettivi e della maturazione dei soggetti.

E’ quindi probabilmente inevitabile, anche a causa dell’indebolimento dei sindacati e della sostanziale scomparsa di una sinistra degna di questo nome, che i conflitti che già si accendono intorno alla gestione capitalistica della crisi assumano una forma tendenzialmente populista. Giungono all’appuntamento con un nuovo, inevitabile ciclo di lotte anticapitalistiche,  generazioni di lavoratori che non sono mai state influenzate e “disciplinate” da un pensiero socialista, che non hanno mai conosciuto sindacati stabili e partiti credibili, e che nemmeno avranno la forza, almeno in un primo momento, di costruire dei veri e propri movimenti.

Infatti il movimento, questa forma dell’azione collettiva con la quale siamo abituati ormai da tempo a misurarci, possiede caratteristiche di continuità, stabilità organizzativa, omogeneità culturale e capacità di gestione pubblica di conflitti di lungo periodo, che possono essere proprie solo di generazioni politiche dotate di ingenti risorse di mobilitazione e di mature abitudini democratiche. Tutto questo tende oggi a scomparire, in una con la scomparsa dei modelli di mediazioni sociale che dei movimenti hanno costituito sia l’incubazione che, sovente, il bersaglio. Assisteremo probabilmente sempre di più a quelli che Sidney Tarrow e Charles Tilly chiamano “conflitti senza movimento”, ossia ad esplosioni di lotte momentaneamente incapaci di sedimentare organizzazione e identità. Conflitti che saranno sempre meno “contenuti” e sempre più “trasgressivi”,  ossia espressi in forme non previste e quindi non tollerate dall’establishment,  disordinate ed aperte verso l’ignoto.

Conflitti disordinati ed aperti verso l’ignoto richiedono un approccio diverso da quelli a cui siamo abituati. Richiedono “forme d’ordine” che, soprattutto in un primo momento, devono raccogliere e dare consistenza alle lotte nello stesso spazio in cui esse si generano, e quindi modalità di organizzazione di carattere mutualistico, capaci di fornire risposte immediate, anche se parziali, agli immediati bisogni sociali. Richiedono, per essere conosciuti, non soltanto studi sociologici condotti dall’esterno, ma vere e proprie inchieste in cui gli “oggetti” dell’analisi siano anche soggetti attivi dell’analisi stessa. E richiedono infine una politica capace di proporre una forte visione del futuro e, nell’immediato, di rompere l’alleanza subalterna delle frazioni colte e qualificate del popolo con la borghesia transnazionale (quell’alleanza che ancora garantisce consistenza alla sinistra liberista e che è una delle matrici dello sviluppo del populismo) e di ricostruire l’alleanza tra le diverse frazioni popolari.

Probabilmente la parola d’ordine capace di raccogliere, tradurre e trasformare il linguaggio populista in cui oggi inevitabilmente si presenta il conflitto di classe, è quella del recupero della sovranità popolare e quindi della sovranità nazionale, intese non come riduzione, ma come estensione della nozione stessa di classe e lotta di classe.

Non mi soffermerò, qui, sul complesso di motivi che rendono necessario il recupero della nozione di sovranità popolare e nazionale: si dovrebbe parlare del significato e della crisi della globalizzazione, delle prospettive di un “ordine” multipolare, della necessità di ridefinire gli spazi minimi della decisione democratica. Dirò solo che la nozione di sovranità popolare, consente prima di tutto di estendere la nozione di classe a tutte quelle frazioni di lavoratori subalterni che, per la frammentazione delle unità produttive e delle tipologie di lavoro o per tradizione culturale non si pensano come membri di classe, e serve inoltre ad aggregare al “popolo” gran parte di quella imprenditoria individuale, familiare o comunque subalterna al mercato capitalistico la cui “conquista” è compito decisivo di ogni movimento di classe. Inoltre, in quanto allude non solo ad una diversa forma di distribuzione del reddito, ma ad una diversa forma di Stato, la nozione di sovranità popolare si mostra capace di concentrare il conflitto di classe non solo sui problemi strettamente economici, ma anche e soprattutto sulle questioni relative ai rapporti di potere tra le classi, la cui mancata “soluzione” impedisce qualsiasi seria e stabile risposta alle stesse questioni relative alla produzione ed alla distribuzione del reddito. Sovranità popolare e nazionale, si è detto, non per preparare perdenti e velleitarie chiusure nazionaliste, ma perché oggi la distruzione dello spazio nazionale è l’obiettivo principale della lotta delle classi capitalistiche egemoni, in quanto elimina l’ambito di decisione democratica potenzialmente costituito dalla nazione, sostituendolo con entità sovranazionali apertamente ademocratiche.

Certo, sovranità popolare e sovranità nazionale, da sole e senza ulteriori specificazioni, possono ben essere le parole d’ordine di qualunque populismo. Ma deve essere chiaro che qui sovranità popolare non è sinonimo di dittatura della maggioranza, e sovranità nazionale non è sinonimo di nazionalismo. Pensiamo infatti alla sovranità popolare nei termini suggeriti da Luigi Ferrajoli, ossia come concetto negativo, che indica che il titolare della decisione democratica non può essere altri che il popolo, ma non intende con ciò che questo popolo possa decidere ciò che vuole, magari conculcando i diritti fondamentali di altre parti del popolo stesso, ed anzi ne sottopone le forme di espressione ai dettami di una Costituzione.

Caratteristica basilare di ogni populismo è quella di considerare il popolo come totalità unitaria: mentre invece il popolo reale è un insieme di gruppi, di interessi e di valori diversi e contrastanti, tanto che una vera sovranità popolare esiste solo quando ogni parte del popolo è posta nelle condizioni di diventare maggioranza, e nessuna maggioranza può manomettere i diritti fondamentali. Quanto alla sovranità nazionale questa, come si è detto, non si identifica col nazionalismo perché, nelle attuali condizioni geopolitiche, si manifesta soprattutto come rivendicazione di poter decidere liberamente quale sia lo spazio sovranazionale in cui la nazione deve inserirsi e quali debbano essere le caratteristiche politiche ed istituzionali di questo spazio. Storicamente il nazionalismo europeo (ed in particolare quello italiano) è stato quasi sempre un modo per deviare la lotta di classe,  trasformando i conflitti interni in guerra contro il presunto nemico esterno. Ma quando la lotta di classe scatenata dai capitalisti si presenta anche come dissoluzione dello spazio nazionale, e quando lo spazio sovranazionale che da quella dissoluzione risulta non appare, o non appare immediatamente, suscettibile di trasformazione democratica, l’idea di sovranità nazionale si presenta come un modo per rilanciare la lotta di classe, come il punto di partenza della costruzione di blocchi sovranazionali capaci di cooperare fra loro e di limitare quella libera circolazione del capitale che è il motivo fondamentale dell’attuale subordinazione dei lavoratori. Un punto di partenza, peraltro, capace di mobilitare energie, risorse e consensi molto superiori a quanto possiamo immaginare.