Il trentennio andato sotto il nome di “globalizzazione” ha riplasmato le società tardo-capitalistiche. Il tessuto sociale emerso nel secondo dopoguerra, segnato dalla centralità delle fabbriche e dalla forte polarizzazione tra lavoro salariato e capitale, venne rimpiazzato da quello della cosiddetta“cetomedizzazione di massa” — una volta si diceva imborghesimento. “Proletari di tutti i paesi arricchitevi! Indebitatevi ma consumate e fatevi i cazzi vostri!”. Questo è stato il pervasivo messaggio ideologico del neoliberismo.

La grande crisi sistemica del 2008-09 (propagatasi dal centro verso le periferie), ha colto di sorpresa queste masse inebetite di parvenus, prigioniere della mentalità ideologica liberista. Questa mentalità non solo non muta alla stessa velocità dei processi sociali, ma anzi oppone resistenza, nell’illusione che tutto possa tornare come prima.

Che sia in corso una vera e propria guerra sociale oramai è sotto gli occhi dei più. Si potrebbe addirittura sostenere che si tratta di una vera e propria pulizia etnico-sociale. Interi gruppi sociali sono vittime di un vero e proprio sterminio di classe. La grande crisi sta producendo, come precipitato, una massa crescente di nuovi poveri, di proletari loro malgrado, di schiavi della globalizzazione. Provenendo dalle più disparate categorie sociali, compresi i cascami della borghesia, queste vittime della guerra sociale di sterminio sono il serbatoio dov’è ammucchiato il carburante esplosivo della sollevazione popolare in fieri.
Questo sistema non vuole cambiare, ubbidisce alla più tetragona volontà di sopravvivenza. Ciò alimenta la tendenza allo scontro sociale, di cui la sollevazione è solo un momento, un tornante.

Ci sono quattro fasi che scandiscono la condotta sociale di questi nuovi poveri. La prima segna il passaggio dal sonno ipnotico al risveglio. La seconda attiene al passaggio dal risveglio all’indignazione. La terza fase è quella in cui l’indignazione si trasforma in rivolta spontanea. La quarta vede la rivolta trasformarsi in sollevazione organizzata.

Noi siamo appena entrati nella terza fase, quella del passaggio dall’indignazione alla rivolta. Il compito dei rivoluzionari è quello di aiutare l’indignazione a diventare rivolta dispiegata. Lo si può e deve fare lavorando su due piani strettamente intrecciati: quello dell’organizzazione e quello della proposta politica .

Sul piano organizzativo si deve costruire in fretta, ovunque sia possibile, una lega dei rivoluzionari forte di nuclei militanti che debbono agire come il lievito della rivolta sociale diffusa. Per assolvere questa funzione devono essere esempio di devozione e di determinazione, punti di gravitazione e di mobilitazione delle decine di migliaia di cittadini già oggi disposti alla lotta.

Sul piano politico essi debbono agire per dare alla rivolta incipiente il respiro strategico, quindi una rappresentanza politica senza la quale essa non avrebbe speranza. In questo contesto si inserisce il nuovo Comitato di Liberazione nazionale (CLN), che non è pensato come una mera addizione di soggettività politiche, bensì come un ampio blocco sociale che dovrà condurre la lotta di liberazione. Ben sapendo che in gioco non c’è un cambio di governo, ma di regime e di modello sociale. I rivoluzionari debbono quindi, da una parte presentare la loro alternativa di società, l’idea di Paese che vogliono realizzare. Dall’altra indicare il programma di fase unitario del CLN, in altre parole le misure che un governo popolare d’emergenza, una volta riconsegnata al Paese la sua sovranità, dovrà applicare per rendere possibile la sua rinascita.

Per sua natura questa lotta di liberazione sarà prolungata, conoscerà fasi di avanzata e di ritirata. Una ininterrotta guerra di movimento che tuttavia si vincerà in un solo giorno. I rivoluzionari sono il cervello e la spada della lotta di liberazione. L’assalto finale alla roccaforte centrale e allo Stato maggior nemico sarà possibile solo dopo che esso sarà stato accerchiato, ovvero dopo che saranno stati espugnati le sue postazioni e i suoi fortilizi, a cominciare da quelli più deboli, e quindi saranno state paralizzate, dal basso verso l’alto, le sue diverse articolazioni di comando.

Le circostanze storiche fanno sì che la lotta di liberazione sociale sia strettamente intrecciata a quella nazionale. La grande crisi non ha solo scompaginato gli assetti sociali, determinando una nuova gerarchia delle classi sociali nei singoli paesi; essa ha scombussolato la gerarchia tra le diverse nazioni. L’Italia, anche attraverso il ricatto del debito, da paese di punta dello schieramento imperialistico è diventata una potenza sub-imperialista periferica, sottoposta al saccheggio esterno. La sollevazione popolare prenderà la forma di una rivoluzione democratica. Questa a sua volta conoscerà alcune tappe. Inizierà con la cacciata del governo della fame e della servitù. Procederà fino al rovesciamento del regime oligarchico. Proseguirà verso lo sganciamento dal sistema di capitalismo-casinò.

Sono diverse le catene con cui è stata scippata al nostro Paese la sua sovranità. Se dobbiamo colpire quella rappresentata dall’euro non è perché abbiamo una qualche fissazione metafisica sulla moneta, quanto perché, delle diverse catene, è quella destinata a spezzarsi per prima. Occorre sempre sferrare i colpi sul punto intrinsecamente più debole del dispositivo sistemico avversario.

L’albero si riconosce dai suoi frutti. La moneta unica è stato uno dei principali strumenti con cui la cupola politica neoliberista, per nome e per conto della potente aristocrazia finanziaria internazionale, ha spazzato via le barriere difensive degli stati-nazione. Il processo di annientamento di ogni forma temibile di resistenza antagonistica non sarebbe stato possibile senza l’abbattimento, in nome dell’internazionalismo imperialista, le paratie dello Stato-nazione. Con ciò la stessa democrazia rappresentativa è stata ferita a morte.

Dalla vittoria o dalla sconfitta della lotta di liberazione nazionale e sociale, dipendono la morte o il risorgimento della democrazia e dello Stato-nazione, che della democrazia rappresentativa è stata la culla storica. Ogni impero deve sbarazzarsi della democrazia, nessun impero può infatti vivere senza un regime di dispotismo politico — oggi nella forma di un sistema bipolare coercitivo.

L’impero euro-atlantico in cui il Paese viene trovarsi come provincia ha oramai due capitali, Washington e Berlino. Esso non si regge grazie ad una aperta occupazione militare, quanto invece — con l’ausilio della frazione della grande borghesia italiana pienamente incorporata nel sistema di saccheggio globalista e di una schiera di proconsoli politici locali — ad una “occupazione economica e finanziaria”. Il nemico il popolo italiano ce l’ha quindi anzitutto dentro casa. Di contro alla credenza che esso sia lontano e imbattibile occorre quindi opporre l’idea che il nemico è invece vicino e battibile.

Più questi proconsoli eseguono gli ordini imperiali, più affamano il popolo, più essi si indeboliscono e imprimono potenza alla molla della sollevazione che verrà.

Non c’è alcuna antitesi, anzi, tra lotta istituzionale ed extra-istituzionale. La prima forma anticipa e annuncia la seconda. I sussulti sociali saranno preceduti da nuove scosse politiche ed elettorali. L’opposizione tra via democratica e via rivoluzionaria è solo nella testa di coloro che sono affetti da “cretinismo parlamentare”. La via rivoluzionaria non è solo l’unica efficace, è la sola autenticamente democratica, dal momento che solo grazie ad essa il popolo lavoratore potrà liberarsi dallo stato di servitù.