«L’unica funzione delle previsioni economiche è quella di far apparire rispettabile l’economia».
J. Kenneth Galbraith
«L’economia dipende dagli economisti quanto il tempo dipende dai meteorologi».
Jean-Paul Kauffmann
A premessa
Sulla pretesa dell’economia di essere scienza, e degli economisti di essere considerati scienziati, rimando ad un mio contributo [DI CHE SCIENZA STIAMO PARLANDO?] Me la prendevo con un disarmante intervento su Il Sole 24 Ore del “luminare” Antonio Guarino (pace all’anima sua) che tacciò l’Appello dei cento economisti (una critica di tipo keynesiano alla politica economica delle oligarchie euriste ma svolta in nome dell’ideale unionista europeo) come “non scientifico” perché lo condannava, a torto, marxista.
Guarino scriveva:
«Che scienza è quella in cui ci si distingue in scuole, peraltro chiaramente legate a opinioni politiche? Per fortuna le cose non stanno così. In tutti i dipartimenti di economia del mondo in cui si fa ricerca scientifica, da Harvard a Standford alle migliori scuole europee, gli economisti non si distinguono in base a faziose visioni del mondo, ma solo in base alla specializzazione scientifica. (…) La scienza economica progredisce con ricercatori che propongono nuove teorie e altri che le sottopongono a verifica empirica. Così si fa in economia, così come in tutte le scienze. I ricercatori di economia cercano solo di capire i fenomeni economici con gli strumenti matematici e statistici che negli anni hanno sviluppato, non vogliono proporre una visione del mondo».
L’idea che uno possa essere considerato scienziato solo se scevro da ogni visione del mondo, solo se fa suo il principio weberiano di separare giudizi di fatto da quelli di valore è lo stigma dei quella peculiare ideologia che va sotto il nome di economia politica.
E qui veniamo subito ad Alberto Bagnai il quale, in un post recente dal titolo Addendum sugli azeri e discours de la méthode scrive:
«Poi c’è un altro elemento, che secondo me è quello cruciale. Io ho scelto fin dall’inizio, e l’ho anche esplicitato, come ricorderete, qui, di combattere quello che si proponeva e veniva percepito come mainstream, usando l’armamentario teorico del mainstream. Questo ha suscitato fin dall’inizio una serie di stolte polemiche con personaggi “puri e duri” di varia estrazione e livello intellettuale. Dal brillante economista post-keynesiano che mi rimproverava di usare l’IS/LM, al marxista-leninista che mi imputava di credere nel mercato (dopo 800 pagine sui fallimenti del mercato), al simpatico infiltrato di provincia che mi rampognava l’uso del “moltiplicatore monetario” nelle mie dispense del 1997». [sottolineature mie]
E’ possibile che io abbia la coda di paglia, ma ho la vaga sensazione che con quel “marxista-leninista” egli si riferisca proprio al sottoscritto. Ammettiamo di sì. Bagnai lascia capire che la mia critica sarebbe stata pretestuosa e faziosa poiché, nel mercato, lui, non crederebbe affatto.
Problema
Lui quale? Visto che di Bagnai ce ne sono almeno due: il posato cattedratico che ricorre all’armamentario concettuale marginalista o Dr. Jekyll, e un cazzuto Mr. Hyde che indossa, in peculiari circostanze, una improbabile maschera anticapitalista. Se insisto ad occuparmi del Dr. Jekyll è perché considero lo sdoppiamento solo un trucco, poiché in sede scientifica non ci si occupa dei travestimenti, e perché, diciamolo, mi annovero tra coloro che Bagnai lo prendono sul serio.
Di eventuali doppie nature lasciamo che si occupi la disciplina che su questo si scorna da duemila anni: la cristologia e la mistica sufi.
Ma che sul serio travisai il suo pensiero? [1] Davvero Bagnai non sarebbe un seguace della teoria marginalista del valore — quella per cui il valore di un prodotto dipenderebbe, non da lavoro contenuto in una merce ma dall’importanza che il consumatore attribuisce al prodotto stesso, quindi, più il prodotto è desiderato, più ha valore?
Non mi pare proprio.
Nello stesso Addendum sugli azeri infatti Bagnai scrive:
«Ora, il fatto è che quella di combattere il mainstream con le armi del mainstream è stata una scelta tattica ben precisa, ed è una scelta vincente, anche se farla richiede una certa intelligenza (e quindi non lo si può chiedere a tutti). Semplicemente, il discorso è: “Sei liberale? Bene, anch’io (del resto, Keynes lo era). Ma allora perché tu vuoi un sistema nel quale viene impedito ai prezzi di dare un segnale che guidi correttamente la libera azione degli individui?”». [sottolineatura mia] Abbiamo dunque, seguendo il suo ragionamento, se quest’ultimo contiene un briciolo di contenuto di verità o rigore scientifico, che i prezzi dovrebbero essere lasciati liberi di “guidare correttamente la libera azione degli individui”. Tornerò sul feticismo manifesto nascosto in questo pastrocchio teorico, ovvero sulla radicale antitesi concettuale per cui, se liberi di muoversi sono i prezzi delle merci l’azione degli individui non sarà mai libera ma al contrario coatta.
Da Smith a Marshall-Lerner…
Cosa si evince da quanto scrive il Nostro? Che la sua non è affatto “tattica” comunicativa o discorsiva [2]bensì la condivisione dell’antidiluviano dogma teologico liberoscambista della “mano invisibile del mercato” che tutto sistemerebbe (una versione secolarizzata della Divina Provvidenza), quindi che i prezzi sarebbero determinati e fissati ex-post dalla pseudo-legge della domanda e dell’offerta, quella per cui l’incontro di acquirenti e venditori condurrebbe al formarsi automatico di un prezzo d’equilibrio, che la quantità domandata sarebbe uguale alla quantità offerta. Il che rimanda a sua volta a Say ed alla sua legge degli sbocchi per cui, a condizione che le forze del mercato siano lasciate libere di operare, si assicurerebbe un equilibrio economico permanente e gli eventuali squilibri provvisori sarebbero destinati a raggiustarsi.
Dunque debbo confermare quanto scrivevo due anni fa. La questione non è solo di astratta dottrina, né tantomeno linguistica, ha delle pesanti ricadute sull’oggi. Se infatti proviamo a distillare l’essenza della critica di Bagnai alla moneta unica è questa: il regime di cambio fisso, impedendo la libera fluttuazione dei tassi e dei prezzi, causa lo squilibrio delle bilance dei pagamenti favorendo quelle economie che con più efficacia hanno perseguito la via della deflazione salariale (e grazie!). Basterebbe dunque, per avere una “economia simmetrica” — concetto tanto caro al Nostro — seguire la condizione di Marshall-Lerner e svalutare la moneta et voilà, le cose tornerebbero al loro posto “naturale” e il motore economico italiano riprenderebbe a tutto gas. Di qui la sua tesi politica che sarebbe del tutto indifferente uscire dall’euro “da destra o da sinistra”, quindi lo sconcio capitombolo del voto alla Lega ruspista salviniana. Le cose non stanno così: il motore dell’economia italiana, per ripartire, ha bisogno di ben altro e la sovranità monetaria è solo una condizione necessaria ma nient’affatto sufficiente. Ciò che chiama in causa non solo retorici riferimenti alla”lotta di classe”, ma un’alternativa di società. Qui sta un punto cruciale: da quanto scrive e dice il Nostro non si intravede alcuna alternativa, se non il miraggio di un capitalismo dal volto umano.
Come ognuno capisce (al netto delle antinomie) si affloscia e cade l’alibi che quella in questione sarebbe soltanto una “tattica” comunicativa. La verità è che, proprio come nel mito platonico della caverna, Bagnai è prigioniero dell’universo simbolico dell’economia politica mainstream e non riesce a venirne fuori. La verità è che, adottando il dogma mercatistico sulla funzione magico-totemica dei prezzi, ovvero la metafisica legge della domanda e dell’offerta (che Marx giustamente considerava il marchio di fabbrica della “economia politica borghese”), in barba alle “800 pagine di fallimenti del mercato”, va a farsi friggere la sua stessa critica al liberismo, sia quello in salsa ordoliberista che più squisitamente neoliberista. E perché va a farsi friggere? Perché, come Bagnai ben dovrebbe sapere, una forma di mercato perfettamente concorrenziale (con il dovuto rispetto per la fiaba di A. Smith) è solo una chimera metafisica. Le forze di mercato, lasciate libere a sé stesse, non hanno mai prodotto né uno stabile equilibrio tra domanda ed offerta né l’ottimale efficienza allocativa. Con le disastrose conseguenze (per la maggioranza dei cittadini, non per chi è in cima alla piramide sociale) a tutti note. Come sosteneva Marx, la produzione dei beni come merci, non solo non sfamerà il mondo, ma porta con sé catastrofi economiche la cui profondità sarà pari allo sviluppo raggiunto dalle forze produttive. E la cosa ci riporta alla causa ultima di queste catastrofi, cioè la sovrapproduzione, che sta alla base del marasma attuale che scuote l’Occidente — e di cui gli altri fattori sono solo concause secondarie. Crisi di sovrapproduzione? Caduta tendenziale del saggio di profitto come portato dello stesso sviluppo delle forze produttive capitalistiche? Bagnai farà una rumorosa pernacchia…
I prezzi nell’era dei monopoli e degli oligopoli
Ammesso che un regime di concorrenza perfetta sia mai esistito, di certo non esiste da quando il capitalismo è passato allo stadio imperialistico, segnato dalla posizione dominante dei monopoli e degli oligopoli, supremazia che ha effetti decisivi sulla formazione dei prezzi e sulla dinamica degli scambi a scala globale. Lo sanno anche i bambini, oramai, che la concentrazione delle risorse naturali, dei mezzi di produzione e di scambio nelle mani di poche colossali imprese multinazionali consente loro non solo di influenzare ma di manipolare unilateralmente i prezzi di vendita delle merci modificando a proprio piacimento sia la quantità offerta che quella domandata. Lasciare liberi i prezzi nei mercati monopolistici globali equivale a lasciar liberi i monopoli di fare il bello ed il cattivo tempo, legittimando non solo la loro caccia al massimo profitto a spese del lavoro salariato, dei popoli e di madre natura, ma pure l’assoggettamento degli Stati. L’euro essendo solo l’ultima e più diabolica forma di scippo delle sovranità degli stati nazionali.
Le cronache di questi giorni sono piene di prove fattuali su come i prezzi (da quelli delle materie prime a quelli delle valute, ma pure a quelli dei titoli finanziari) crollano o salgono non anzitutto grazie alle “cieche leggi di mercato”, ma in virtù delle mosse di potenti decisori globali, siano essi multinazionali, banche centrali o Stati nazionali. Vogliamo poi parlare delle “libere leggi di mercato” che soggiacciono alla madre di tutti gli scambi, quella tra lavoro capitale? C’è forse bisogno di scomodare Marx per capire quale inganno si celi dietro all’idea che capitale e lavoro si confrontino sul mercato ad armi pari? Quale spontaneo incontro può esserci in ambiente capitalistico tra chi, avendo il monopolio dei mezzi di produzione, domanda lavoro e chi, per tirare a campare, può offrire la sola merce che possiede, ovvero la sua forza-lavoro? La parità giuridico-formale nasconde la più grande delle disparità sostanziali. Le centinaia di milioni di migranti che vengono deportati da un capo all’altro del mondo in cerca di lavoro ne sanno qualcosa di come opera la “mano invisibile” e come essa alloca “ottimamente” (per il capitale) le risorse. E ne sanno qualcosa, delle virtù salvifiche delle leggi di mercato, alias dittatura del capitale, i milioni di precari costretti a vendersi per quattro soldi.
La legge della domanda e dell’offerta… Un totem dietro al quale il capitale non solo cela la sua dispotica supremazia, ma vorrebbe far credere che la fonte della ricchezza, sua e quella generale, non sia il lavoro che gli produce un plusvalore, ma sé medesimo.
Ma davvero i prezzi delle merci (non parliamo qui dei titoli finanziari) sono determinati da questa pseudo-legge? Oppure, come sosteneva Marx (correggendo la tesi del “valore intrinseco”), essa è solo un epifenomeno ed i prezzi sono anzitutto determinati dalla quantità di lavoro sociale mediamente necessario per produrle?
Sentiamo Marx:
«Commettereste un grave errore se ammetteste che il valore del lavoro o di qualsiasi altra merce è determinato, in ultima analisi, dall’offerta e dalla domanda. La domanda e l’offerta non regolano altro che le oscillazioni temporanee dei prezzi sul mercato. Esse vi spiegheranno perchè il prezzo di mercato di una merce sale al di sopra o cade al di sotto del suo valore, ma non vi possono mai spiegare questo valore. Supponiamo che la domanda e l’offerta si facciano equilibrio o, come dicono gli economisti, si coprano reciprocamente. Nel momento stesso in cui queste forze contrapposte sono ugualmente forti, esse si elidono reciprocamente e cessano di agire in una direzione o nell’altra. Nel momento in cui domanda e offerta si fanno equilibrio e perciò cessano di agire, il prezzo di mercato di una merce coincide con il suo valore reale, con il prezzo normale, attorno al quale oscillano i suoi prezzi di mercato. Se indaghiamo la natura di questo valore, non abbiamo niente a che fare con gli effetti temporanei della domanda e dell’offerta sui prezzi di mercato. Lo stesso vale per i salari e per i prezzi di tutte le altre merci». [3]
Capiamo che per alcuni lettori la spiegazione di Marx possa risultare inaccessibile. Non spaventatevi, lo è anche per certi economisti della cattedra. Lo studio fa fatica, e non produce risultati se prima non si cambia di paradigma.
La nostra tesi è che il valore delle merci è in ultima istanza determinato dalla quantità di lavoro umano in esse contenuto, ma i loro prezzi possono oscillare (sotto o sopra il valore medio) anche a causa della domanda e dell’offerta. Per correggere Marx quindi: il prezzo non viene determinato solo ex ante, dal lavoro incorporato, ma pure ex post, dalla domanda di mercato. Potremmo dire che è co-determinato, figlio di una correlazione per sua natura non solo mutevole ma contraddittoria.
E Keynes…
Ribadisco perciò la mia critica: considerare quella della domanda e dell’offerta la “legge” che spiegherebbe la formazione dei prezzi delle merci, svincolare i prezzi dal loro contenuto di valore, svela la sostanziale adesione alla teoria marginalista per cui il valore sarebbe determinato non anzitutto a monte, nel ciclo del lavoro produttivo, ma a valle, al lato dei gusti e delle preferenze dei consumatori.
Gli avvocati d’ufficio di Bagnai, infastiditi, agiteranno lo spauracchio: “Ancora con questa solfa della legge marxista del valore? Volete forse abolire il mercato e pianificare tutto? Keynes dava piuttosto la giusta risposta e Bagnai si muove sul solco del maestro”.
Non spetta a noi stabilire il tasso di keynesismo che scorre nelle vene del Nostro ed in quelle degli altri keynesiani in circolazione. Del resto, se sono entrati in uso i suffissi quali neo e post, una ragione dev’esserci. Ed è che nemmeno il pensiero di Keynes è il talmud — come per noi non lo è quello di Marx.
Una domanda i neo e post keynesiani dovranno pur porsela: com’è che il cosiddetto “trentennio dorato” si è sfracellato aprendo la strada ad un nuovo e globale neoliberismo? Ci permettiamo, tanto per restare in tema, ed evitando puerili risposte cospirative, di suggerire una risposta: non sarà che gli “spiriti animali” del capitalismo sono irriducibili ad ogni regolazione pubblica? Che la classe borghese che li incarna tende al dominio incontrastato ed a sussumere lo Stato come sua propria protesi? Non sarà che le politiche keynesiane sono andate a ramengo anche a causa del combinato disposto delle grandi conquiste operaie in seno ai paesi imperialistici (con conseguente caduta dei profitti) e dei successi dei movimenti di liberazione delle periferie che a quei paesi impedirono di perpetrare la mulitisecolare rapina che sostenne il loro sviluppo nonché il successo dello stesso “trentennio dorato”? Che poi, di contro una posticcia leggenda, non siano state le terapie keynesiane a far uscire il capitalismo dall’ecatombe del ’29, è questione assodata da tempo — ci sono volute le immani distruzioni della seconda grande guerra e livelli salariali da fame in cambio di una crescente. produttività del lavoro a far ripartire i motori delle economie capitalistiche nel dopoguerra.
No, non vogliamo “pianificare tutto”. Nel socialismo che immaginiamo resteranno sfere mercantili, ma i grandi settori economici dovranno essere di proprietà pubblica, quindi orientati a rispettare il bene comune. Chiamatela, se volete, “pianificazione”. E’ possibile conoscere ex ante tutti gli output sulla base dei quali orientare la produzione e allocare le risorse sociali? No, non tutti sono conoscibili, ma buona parte lo sosno e comunque non si può lasciare al mercato decidere tutto ex post. Già nella regolazione economica in ambiente capitalistico sono impliciti elementi di pianificazione sistemica. Quindi proveremo ad andare oltre Keynes (sui limiti della sua teoria abbiamo scritto molto, in specie QUI) che per spiegare le crisi generali del capitalismo aveva sì plagiato Marx, ma rifiutandone le radicali implicazioni. Andremo oltre l’idea che la collettività organizzata debba limitarsi a svolgere ruolo di supplenza nei periodi di tempesta affinché poi il mercato torni al suo tran tran. Ci sarà domani lavoro socialmente utile per degli economisti che si rispettino.
Feticismo e reificazione
Mi accingo alla conclusione, appunto spiegando la radicale antinomia contenuta nell’affermazione del Nostro secondo cui “… i prezzi debbono essere lasciati liberi di guidare la libera azione degli individui”. Un pastrocchio teorico dicevo, perché qui le due libertà entrano in aperta collisione, sono anzi in una relazione antagonista.
Abbiamo detto che in mercati monopolistici ed oligopolistici i prezzi non si muovono affatto “liberamente” in base alla pseudo-legge della domanda e dell’offerta, ma vengono in larga misura determinati ex ante da singole potentissime multinazionali (da grandi banche centrali e d’affari e dagli Stati) o tra accordi di cartello fra esse. Inutile dilungarsi nello spiegare che in simili mercati l’economia dei prezzi non solo condiziona la vita degli individui (parliamo anzitutto dei salariati, i soli che pur essendo titolari della merce che possiedono non hanno la facoltà, come può invece un droghiere con le sue mercanzie, di cambiare il prezzo sul cartellino) ma addirittura, manipolando il loro immaginario, predetermina i loro bisogni. Ma di quale “libera azione degli individui” si sta parlando?!
Il gregge degli homine bagnaiani obietterà che né Dr. Jekyll né Mr. Hyde sono a favore, anzi, delle multinazionali, che quindi io starei distorcendo il pensiero di entrambi. Ah sì? Ed allora a quale tipo di mercati gli sdoppiati farebbero riferimento? Ai “bei tempi” andati degli albori del capitalismo? Quando si lavorava come bestie 16/18 ore al giorno, compresi i bambini? Quando si andava in Africa a incatenare gli schiavi? Quando l’Inghilterrà di Sua Maestà colonizzava e depredava mezzo mondo per finanziare la sua rivoluzione industriale? Di certo non fa riferimento al “trentennio dorato”, che fu appunto l’epoca della definitiva affermazione dei mercati oligopolistici e dove ad ogni modo gli Stati “keynesiani” intervenivano, e come, per impedire il “libero gioco dei prezzi”?
Mi ripeto: una forma di mercato perfettamente concorrenziale o in equilibrio è solo una chimera metafisica.
L’homo bagnaianus, letteralmente rapito dalle esibizioni econometriche del Nostro, si chiederà: “E vabbè, mò che centra il feticismo? Di nuovo con questi mischietti marxisti di economia e filosofia?” C’entra eccome invece. Se il feticismo è l’attribuire potere magico agli oggetti, in economia questo feticismo è l’attribuire alle cose create dagli uomini, in questo caso alle merci —«A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e di capricci teologici» scrisse Marx — la capacità di comandare e appunto guidare le loro azioni. Di qui la metamorfosi per cui i rapporti tra gli uomini sono non solo mediati dalle cose, ma trasformati in rapporti tra cose (reificazione).
Cos’è infatti che gli uomini, quando vendono e comprano merci si scambiamo se non il frutto del proprio lavoro, della propria creatività, del loro tempo di vita?
Sono quindi gli uomini reali che producono i soggetti, ed i prodotti un loro predicato. Col capitalismo, invece, avviene l’inversione soggetto predicato, per cui si vale e ci si relaziona in base alle merci che si possiedono, in cima a tutte la loro forma suprema e astratta: il denaro. Di qui il feticismo, «il misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci», visto che «Il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale». [4]
Quindi il Dr. Jekyll, pur conducendo una sacrosanta critica della moneta unica, spesso con argomenti ficcanti, non solo non ha nelle sue corde l’anticapitalismo, sul piano della dottrina, che lo ammetta o meno ed al netto delle piroette tattiche, è un seguace della più apologetica tra le teorie economiche capitalistiche: il marginalismo. Che non è solo una teoria economica ma una vera e propria visione del mondo, quella di Pippo. Visione che Bagnai ha infatti scolpito addirittura ne frontespizio del suo blog:
«L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali…»
Una vera e propria chicca teorica che se non sbaglio avevo già udito al bar dello sport. Il carro viene messo davanti ai buoi, lo scambio e non il processo lavorativo posto a fondamento dell’economia, e quindi la principale contrapposizione sarebbe non quella tra la classe dei lavoratori salariati ed il capitale, bensì (straordinaria scoperta sociologica) tra venditori e compratori (sic!). Una contrapposizione tra individui-mercanti, che poi il libero gioco della domanda e dell’offerta, con l’aiuto provvidenziale della “mano invisibile”, risolverà.
Se non è feticismo questo…
Questa non è la “tattica di combattere il mainstream con le armi del mainstream”. Qui, propriamente, non c’è alcun combattimento.
NOTE
[1] così ricapitolavo il punto di vista del Nostro:
«(1) la crisi non chiama in causa la struttura del sistema capitalistico, essa trae origine da alcuni “squilibri”; (2) dipende dal fatto che i debiti privati sono diventati pubblici; (3) se è anzitutto crisi dell’eurozona, ciò dipende dallo squilibrio delle partite correnti e delle bilance commerciali; (4) l’euro è causa essenziale poiché, che con le parità fisse, impedisce alle leggi di mercato di farsi valere anche nella sfera valutaria. La cura per uscire dal marasma sarebbe quindi semplice: tornare alle valute nazionali, e, grazie al gioco compensativo delle svalutazioni e rivalutazioni, i mercati capitalistici, compresi quelli finanziari e valutari torneranno a scoppiare di salute».
[2] Che Bagnai aderisca alla dogmatica liberista sulla funzione dei prezzi l’ha ripetuto in numerose occasioni. Sentiamo questa perla:
«La legge della domanda e dell’offerta. Vi ricordo un principio fondamentale dell’economia: la legge della domanda e dell’offerta. Su un determinato mercato, se si presentano molti acquirenti (eccesso di domanda) il prezzo dovrebbe salire, se invece c’è scarsità di acquirenti (eccesso di offerta, cioè difetto di domanda) il prezzo dovrebbe scendere. Sì, lo so, mi dite che sono tecnico: ma vi ho detto che non parlo a tutti. Parlo solo a quelli che preferiscono comprare una spigola a 12 euro al chilo presentandosi sabato alle 13 (quando il mercato sta per chiudere e il pescivendolo “ta ‘a tira dietro”, come dicono a Roma), anziché pagarla 20 euro al chilo presentandosi venerdì alle 10 (quando la pressione della domanda è forte e c’è ancora un giorno e mezzo davanti). O, poi se ne hai proprio voglia la paghi anche 40 euro al chilo, per carità, sono fatti tuoi. Ma mi avete capito, no?
Bene. Ora, quello che vale per le spigole, dovrebbe valere anche per le tele di Teomondo Scrofalo, e anche per i titoli di Stato: se c’è molta domanda, il prezzo sale, se c’è poca domanda il prezzo scende». [Aste per tutti i gusti]
[3] K. Marx. Salario, prezzo e profitto.
[4] «L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori»
Karl Marx. Il Capitale. LIBRO I -SEZIONE I -Merce e denaro – CAPITOLO 1 -La merce – IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCANO.