Alcune considerazioni sul giro di Ingrid Betancourt in America Latina e in Europa

Ingrid Betancourt ha compiuto, fra la fine di novembre e la prima metà di dicembre, un serie di visite in alcuni paesi del Sud America (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Ecuador, Perù e Venezuela) e in Europa, Italia compresa, per ringraziare tutte le autorità che si sono impegnate per la sua liberazione.

 

Durante gli incontri con i capi di Stato, con diverse autorità italiane – fra cui il presidente della Camera Fini – e nel corso della  popolare trasmissione di RAI Tre “Che tempo che fa” (puntata del 14 dicembre) condotta da  Fabio Fazio, la signora Betancourt ha più volte ribadito le FARC debbono rilasciare immediatamente  e senza condizioni i prigionieri di guerra, senza accennare minimante alla totale chiusura del presidente Uribe rispetto ad un accordo umanitario sullo scambio di prigionieri, né ai prigionieri di guerra in mano allo Stato colombiano. La signora inoltre, con un linguaggio perfettamente sovrapponibile a quello del governo colombiano e dei suoi protettori statunitensi, ha bollato l’insorgenza con i consueti epiteti di “terroristi e narcotrafficanti”, omettendo tematiche cruciali come quella della violazione dei diritti umani e politici. Non una parola sulle numerose proteste indigene, contadine e studentesche sistematicamente represse nel sangue dal governo Uribe, né sulle truffe architettate ai danni dei piccoli risparmiatori.

Eppure chi scrive ricorda benissimo che alla fine del 2000 la signora Betancourt, all’epoca quasi sconosciuta senatrice del piccolo partito Oxigeno, si recò nella regione di Arauca, sulla Cordigliera Orientale delle Ande al confine con il Venezuela, per assicurare il suo totale ed incondizionato appoggio al popolo indigeno UWA, in lotta contro le multinazionali americane del petrolio che stavano devastando il territorio con il valido appoggio dell’allora governo Pastrana. In quell’occasione la signora garantì anche il suo totale impegno a favore dei diritti umani, politici e sindacali in Colombia.

Già. Ma allora iniziava la campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2002, quindi promettere non costava nulla. Ora la signora Betancourt ha dichiarato che non intende candidarsi alle prossime presidenziali, per cui non solo non promette alcun appoggio a chi in Colombia lotta per l’affermazione proprio di quei diritti di cui la signora nel 2000 si riempiva la bocca, ma anzi assume un atteggiamento totalmente favorevole alla linea di Uribe e dei suoi protettori americani.

Per cui non una parola sui sequestri e sugli omicidi di cui sono vittima i principali e più amati esponenti della Resistenza del popolo colombiano; non una parola sull’assassinio, avvenuto proprio durante il suo giro di incontri, di Carlos Rodolfo Cabrera, portavoce degli sfollati di Araquita e a suo tempo sopravvissuto al massacro dell’Uniòn Patriotica.

Non una parola sul sistema in cui viene amministrata la giustizia in Colombia. Nonostante il responsabile del dipartimento scientifico della Direzione Polizia Giudiziaria capitano Ronald Coy Ortiz abbia dichiarato sotto giuramento alla Magistratura Generale della Nazione che nel computer del comandante delle FARC Raúl Reyes non c’è alcuna corrispondenza di posta elettronica, ma soltanto fogli in formato “Word”, il ministro della Difesa Juan Manuel Santos continua a raccontare che vi sarebbero numerose e-mail. Il signor ministro contraddice grottescamente coloro che hanno lavorato sul notebook, assecondando la manipolazione ordinata dal governo di Uribe ai danni di vari capi di Stato latinoamericani, politici nazionali ed internazionali, intellettuali e difensori dei diritti umani, nel tentativo di criminalizzarli e azzittirli. La signora Betancourt tace.

Non una parola sulle minacce che i paramilitari hanno indirizzato a diverse organizzazioni, fra cui alcune anche italiane, che solidarizzano con le diverse organizzazioni che in Colombia combattono per quelle che un tempo erano, o forse sembravano essere, le priorità della signora Betancourt.

Tutti questi assordanti silenzi sembrano, almeno per il momento, pagare: si parla insistentemente di una candidatura della signora al Premio Nobel per la Pace.

Bella pace, sì! Quella degli oppressori sulla pelle degli oppressi che hanno osato ribellarsi e continuano a farlo.

La Redazione