Il FMLN diventa il primo partito del paese

Nelle elezioni svoltesi il 18 gennaio scorso, il Fronte Farabundo Martì – FMLN, come era ampiamente previsto, ha ottenuto la maggioranza relativa, diventando il primo partito del paese, superando il partito di estrema destra ARENA (Alleanza Repubblicana Nazionalista), che raccoglie i rottami del regime paramilitare degli anni ‘80 e che era ininterrottamente al potere dal 1992, ovvero dalla fine della guerra civile. Il FMLN non ha i numeri sufficienti per formare da solo il governo, e dovrà probabilmente allearsi alla Democrazia Cristiana, ma ha segnato un punto importante in vista del duello decisivo, quello delle elezioni presidenziali previste per il 15 marzo prossimo.

 

La stampa italiana, come sempre prigioniera di un penoso provincialismo, non ha dato la dovuta importanza a questa svolta in Salvador e si è limitata a titolare in maniera quasi scandalistica (e a conferma della propria superficialità), il successo della «ex-formazione guerrigliera marxista-leninista». In realtà il FMLN non era nemmeno negli anni della violentissima guerra civile solo una formazione guerrigliera, e l’ala marxista-leninista era solo una delle sue componenti. Il FMLN che ha vinto queste elezioni è infatti solo una pallida rappresentazione dell’ampia e composita alleanza che condusse la lotta armata contro il regime oligarchico e che siglò gli accordi di pace nel 1992 (Trattati di Esquipulas/2). La firma di quegli Accordi di pace, infatti, era il risultato della sconfitta della sinistra rivoluzionaria (che considerava capestro quei medesimi accordi) e della contestuale vittoria, in seno al FMLN, dell’ala politica che amava definirsi socialdemocratica.
Da allora, emarginata l’ala combattente e sotto la guida di politicanti opportunisti che avevano apertamente abbandonato ogni pur retorico riferimento al socialismo, il FMLN ha si è barcamenato tra le spinte antimperialiste e anticapitaliste dei settori più radicali della sua base e la politica compromissoria dei suoi gruppi dirigenti, diventati una stampella decisiva per sorreggere il sistema bipolare di un paese tra i più filo-yankee del centro – america.

 

Quanto diciamo non vuole sminuire la portata della svolta che va maturando in Salvador. Una vittoria di Mauricio Funes, candidato del Fronte alle prossime presidenziali del 15 marzo. Nessuno si illuda che il FMLN possa imboccare la strada di Chavez o Morales, e forse nemmeno quella, ben più sfumata di Ortega in Nicaragua. Tutta la campagna elettorale del Fronte è stata ed è improntata ad un esasperato realismo politico, tesa anzitutto a non spaventare l’oligarchia semimafiosa che da sempre tiene in pungo il paese. C’è da scommettere anzi che in vista della presidenziali Funes sfumerà ancor di più il già blando discorso politico sul “cambiamento”, non solo a tranquillizzare l’oligarchia dominante, ma pure gli Stati Uniti. I quali, in barba a tutte i discorsi liberal del neoletto Obama, hanno apertamente sostenuto ARENA, ovvero l’estrema destra salvadoregna. L’ambasciata degli Stati Uniti, ovvero il luogo di ultima istanza dove vengono prese le decisioni politiche più scottanti, è più volte entrata a gamba tesa nella campagna elettorale e, allo scopo di spaventare la borghesia e i ceti medi, ha tentato in ogni maniera di mettere in cattiva luce il Fronte, accusandolo di essere alleato delle FARC colombiane e affermando che “..chiunque collabori o esprima la propria amicizia con le FARC non può essere amico degli Stati Uniti”. Accusa ovviamente falsa, che i dirigenti del Fronte, e questo la dice lunga, hanno smentito come una calunnia.

 

Potrà un eventuale governo del FMLN esaudire le grandi speranze del popolo che l’ha votato?
Il paese è in preda ad una crisi sistemica che viene da lontano, aggravata dalla recentissima crisi del capitalismo mondiale. Il 37% dei salvadoregni vive al di sotto della soglia di povertà, il 40% è disoccupato, malaffare e criminalità la fanno da padroni. La principale fonte di ricchezza viene dagli emigranti negli USA, ma questa fonte va pericolosamente essiccandosi a causa della gravissima crisi nordamericana, che viene anzitutto pagata dagli immigrati, alcuni dei quali hanno già imboccato la via del ritorno a casa.
Esaudire le speranze di cambiamento richiede, anche per chi non abbia ambizioni rivoluzionarie, un’audace politica, non solo di redistribuzione delle ricchezze (gran parte delle quali sono concentrate nelle mani dell’oligarchia locale) e una più equa allocazione delle risorse; ma anche coraggiosi spostamenti nei rapporti di proprietà, quelli agrari anzitutto. Richiede infine rompere i rapporti di servaggio e sudditanza dell’economia salvadoregna verso quella nordamericana.

 

C’è da essere pessimisti. Ci pare infatti altamente improbabile che il Fronte adotti una politica chavista. Funes guarda piuttosto all’esperienza di Lula, con la differenza che il Brasile che Lula ha preso in mano era già una potenza industriale e agricola, mentre in Salvador, chi davvero abbia a cuore la qualità della vita della vasta maggioranza della popolazione, non può che andare a togliere ai ricchi per dare ai poveri.