Standard & Poor’s: fase due della catastrofe

Se scoppia la super-bolla del debito sovrano americano 

Cosa c’è dietro l’ammonimento di Standard and Poor’s che ha fatto tremare le borse mondiali. Perché il sistema economico americano è, tra i malati del mondo, quello tra i più gravi. Cosa può succedere se scoppia la super-bolla del suo debito sovrano?

La notizia che l’agenzia di rating Standard and Poor’s ha per la prima volta nella storia abbassato da stabile a negativo l’outlook (1) sugli Stati Uniti ha seminato il panico nei mercati mondiali. In poche ore i tesorieri della grande finanza si sono sbarazzati delle azioni delle banche e delle assicurazioni (di qui il crollo delle borse).
(Nella tabella la crescita del debito pubblico Usa in rapporto al Pil)

Non per caso, visto che proprio banche e assicurazioni sono i principali detentori del debito pubblico americano e degli altri paesi.

L’oro, bene rifugio per eccellenza è schizzato all’in su, sfiorando i 1.500 dollari l’oncia. Ma l’effetto domino ha coinvolto anche i debiti sovrani della Grecia, dell’Irlanda, del Portogallo e anche della Spagna, causando l’aumento dei tassi che questi governi debbono assicurare a coloro che li finanziano acquistando i loro titoli pubblici. Ma sui “periferici” europei torneremo presto. Stiamo agli Stati Uniti.

LA FASE UNO 

L’allarme di Standard and Poor’s, diciamocelo, è come la scoperta dell’acqua calda. Che la più grande potenza capitalistica del mondo fosse gravemente malata lo si sapeva. Nel settembre del 2008 proprio negli USA si manifestò la malattia che afferra il capitalismo mondiale e anzitutto quello dell’Occidente. Vi ricordate quanto accadde? I due ciclopi immobiliari semipubblici Fannie e Freddie crollarono, dopo aver distribuito ai quattro venti le loro obbligazioni-carta-straccia o mortage-backed-security (le obbligazioni garantite dai mutui finite nella bufera della bolla immobiliare del 2007-2008). Wall Street impose al governo Bush junior di nazionalizzare i due colossi, scaricando i costi di questo salvataggio sulle casse pubbliche. Era il 7 settembre. Il bello venne una settimana dopo quando, malgrado questo soccorso estremo, saltò per aria la più grande banca d’affari, la Lehman Brothers, che in pancia aveva buona parte di quella carta straccia. Questa volta la Casa Bianca non intervenne e ciò causò il più grande terremoto finanziario a catena dopo quello del 1929.

Iniziava la prima fase della catastrofe.

L’intero modello di crescita drogata, fondato sulle “bolle” finanziarie e sostenuto sia dalle amministrazioni repubblicane che da quelle democratiche di Bill Clinton, implodeva su sé stesso. Ricordiamo che tra il 2000 e il 2008 non si faceva che decantare il prodigioso sviluppo dell’economia americana. In soli nove anni il Pil crebbe del 18,6% (circa 2mila miliardi di dollari). Ma che crescita fu quella americana? Essa era fondata sul debito (dei privati).

Secondo un recente studio di Kathryn Byun dell’US Bureau of Labour Statistics la “bolla americana «… ha generato soltanto nell’edilizia e nei settori ad essa collegati (cemento, legname e così via) un incremento occupazionale di 1,2-1,7 milioni di persone. Senza contare tutta la gente che è andata in giro per gli Stati Uniti a vendere case e a convincere gli americani a indebitarsi, nonché il gran numero di dipendenti che le banche USA hanno assunto per supportare con sofisticati strumenti finanziari l’impacchettamento dei debiti e la loro ricollocazione sul mercato (purtroppo anche internazionale, per sfortuna di tanti risparmiatori esteri ignari)». (2)

Di qui il fallimento di Fannie e Freddie e di Lehman Brothers, ovvero gli istituti più esposti in questa economia fondata sulla spirale dei debiti. Di qui lo sconquasso estesosi all’economia mondiale e che ha colpito anzitutto quella europea in quanto profondamente interconnessa agli USA e come quest’ultima dominata dal capitalismo-casinò. Sta di fatto che con gli eventi del settembre 2008 la posizione finanziaria predominante degli USA (e occidentale) era colpita letalmente. Qualcuno equiparò quello scombussolamento della gerarchia mondiale delle potenze finanziarie al 1915, quando il baricentro monetario e finanziario si spostò da Londra a New York (3)

Cosa è accaduto dopo di allora? E’ accaduto, in buona sostanza che i governi sono pesantemente intervenuti sui mercati finanziari e, allo scopo di contenere l’effetto domino che si era innescato, hanno “socializzato le perdite”, non solo hanno usato soldi pubblici per comprare o salvare le banche e i gruppi assicurativi altamente indebitati o in bancarotta, ma hanno, con l’intento di contrastare la recessione, immesso sui mercati masse enormi di liquidità a costo prossimo allo zero.

In questo modo si è si tamponata la falla della recessione, ma è come se si fosse curato un tossicodipendente con dosi non meno letali di metadone. Il caso americano è il più emblematico. Il governo federale è ricorso ai mercati per drenare danaro sonante vendendo montagne di titoli pubblici. Davanti alle difficoltà di piazzarli a tassi d’interesse accettabili, lo stesso governo ha obbligato la Federal Reserve, oltre a stampare a tutto spiano fiumi di dollari, ad acquistare quantità enormi dei propri titoli pubblici, con la conseguente inondazione di liquidità (quantitative easing), la qual cosa è stata una manna per la speculazione finanziaria e le banche. In ultima analisi la crisi finanziaria è costata agli USA il 40% del Pil.

Grazie ai “giochi di prestigio della Fed” il giro d’affari a Wall Street è così ripreso in grande stile, con guadagni che non sono finiti solo nelle tasche dei grandi speculatori ma, le cui briciole sono finite nelle tasche del ceto medio americano. Di qui la crescita dei consumi nell’ultimo biennio, la qual cosa ha fatto parlare di “ripresa”.

«Il principale fattore di crescita delle vendite è stato il forte aumento della spesa al consumo, che ha infatti registrato un robusto rialzo del 4,4%, mentre la spesa nei beni durevoli è salita del 21%. Ciò significa che l’accelerazione dei consumi ha influito all’incirca per il 100% sull’incremento del Pil, di cui metà dovuta alla spesa nei beni durevoli. Tuttavia, l’aumento della spesa al consumo non è dipeso da un elevato tasso di occupazione e a un rapido aumento dei redditi, bensì a un calo del tasso di risparmio. I risparmi delle famiglie erano saliti da poco meno del 2% dei redditi (al netto delle imposte) nel 2007 al 6,3% nella primavera del 2010. Poi il tasso di risparmio è crollato di un punto percentuale pieno, al 5,3% nel dicembre del 2010. Una ragione per il calo del tasso di risparmio e il conseguente aumento della spesa al consumo potrebbe essere il netto incremento registrato dal mercato azionario, che è salito del 15% tra agosto e la fine dell’anno. Ovviamente, questo era ciò che sperava la Fed». (4)

Una nuova crescita drogata dunque, dovuta a forti dosi di liquidità endovena che la Fed ha iniettato nell’economia USA. Una crescita fittizia, danaro che non è finito in investimenti veri, nel circuito dell’accumulazione capitalistica, che è andato nuovamente ad alimentare il mostro insaziabile della rendita finanziaria.

Gli stregoni della Casa Bianca e della Fed sono dunque dei folli? No, non lo sono. La ragione per cui si sono riavventurati nelle medesime politiche economiche di bolla che causarono il crollo del settembre 2008, dipendono dal fatto che il dollaro, essendo la principale moneta internazionale di riferimento, consente di spalmare i costi del quantitative easing su tutto il mondo. “L’esorbitante privilegio del dollaro”. (5) «La stessa Standard and Poor’s, nel suo Outlook di ieri non a caso ha ribadito: “Una preferenza globale per il dollaro USA verso tutte le altre valute dà al paese una liquidità esterna unica”. E’ quasi soltanto il privilegio di avere una moneta internazionale, quindi, a salvare l’economia USA da conseguenze ben più gravi per le sue intemperanze». Fino a quando avremo quest’andazzo «Tutti hanno e avranno bisogno di dollari, a cominciare dalle banche centrali straniere: li acquisteranno, li chiederanno in prestito, li parcheggeranno negli assets americani aumentandone il valore, abbassando i tassi d’interesse, alterando il prezzo per il rischio». (6)

Ciò che indica il giudizio di Standard and Poor’s è che, d‘ora in avanti, la musica non può più essere la stessa. Non saranno tanto i Bric(s) che nel loro recentissimo vertice in Cina hanno chiesto di sostituire finalmente il dollaro come principale moneta di scambio con un paniere di valute forti. Saranno proprio i cosiddetti “mercati”, ovvero i grandi pescecani della finanza speculativa a chiedere che gli USA invertano la rotta e ad imporgliela.

LA FASE DUE DELLA CATASTROFE 

A forza di giungere in soccorso del malato usando soldi pubblici gli Stati Uniti hanno un deficit vicino all’11% del Pil e un debito che a fine anno potrebbe superare il 100 per cento. Cifre che collocano gli USA nel reparto dei malati gravissimi del capitalismo internazionale. I conti americani sono poi più scassati di quanto sembri, visto che a queste percentuali sul Pil, che riguardano l’intero debito federale di oltre 14mila miliardi di dollari, vanno aggiunti i debiti degli stati e degli enti locali, altri 3mila miliardi, e le garanzie a suo tempo accordate per Fannie e Freddie, che ammontano ad altri 3mila miliardi. Il tutto fa 20mila miliardi di dollari, ovvero il 140% del Pil. Un debito ben più pesante di quello italiano quindi e ben più grande di quello dei paesi dell’Euro messi assieme (83% del Pil).

«E’ la rapidità della crescita del debito americano che fa riflettere, da 5mila miliardi a fine 2006 a 9mila a fine 2010 per la sola quota “held by the public”. Un aumento analogo di 4mila miliardi aveva richiesto, fino al 2006, un quarto di secolo e non quattro anni». Per questo numerosi analisti parlano di “default strisciante” o “pre-default”. «La cura non viene dall’attuale crescita, che rassomiglia alla velocità di stallo, quella sotto la quale si perde quota. (…) Peter Orzag, ex Ministro del Bilancio di Obama ritiene possibile una vera crisi del debito americano già forse quest’anno». (7)

Non si dimentichi poi di considerare il debito privato degli USA, ben più grande di quello pubblico, e che ammonta a 39mila miliardi — di cui 16 del settore finanziario, 13 delle famiglie e 10 delle aziende. (8)

Siamo quindi alla fase due della catastrofe, la fase dello scoppio della super-bolla del debito sovrano americano. Di qui lo scontro furibondo in atto nel Congresso americano: quali misure adottare per evitare la catastrofe? Chi pagherà il conto? Il monito di Standard and Poor’s è come benzina sul fuoco di questo scontro, tra i repubblicani che chiedono tagli draconiani alla spesa sociale e i democratici che chiedono un aumento delle tasse. Sembra improbabile che l’una o l’altra cura possano salvare l’economia americana da un collasso che travolgerebbe in maniera ben più devastante che il 2008, l’intero capitalismo-mondo, Asia compresa.

«Il calo dei prezzi dei titoli del Tesoro dimostra che i mercati ritengono la minaccia di S&P reale», ha affermato Alan Ruskin della Deutsche Bank. Ieri i Credit Default Swaps sul debito USA sono saliti del 16% a 50 punti». (9) Un livello ancora basso se paragonato all’Italia (143) o alla Grecia (1.215) ma superiore alla media di 40 registrata ai tempi della crisi finanziaria del 2008. Un segnale che i mercati finanziari ritengono lo stato di salute americano peggiore di allora e i titoli emessi dal governo poco affidabili.

Il rischio che lo scoppio della super-bolla sia imminente dipende dal fatto, come fanno notare i commentatori americani, che una riduzione strutturale del deficit sarà rimandata a dopo le elezioni del 2012, quando si dovranno eleggere il nuovo Presidente, l’intera camera dei deputati e un terzo del Senato. Così abbiamo che il paese più indebitato del mondo è l’unico a non aver fatto nulla per ridimensionare un debito cresciuto in modo enorme dopo la crisi del 2008. Infatti Standard and Poor’s, nel suo Outlook ammonisce: «Crediamo che sia concreto il rischio che il sistema politico statunitense non riesca a raggiungere un accordo su come risanare il bilancio entro il 2013». (10)

Ma il capitalismo-casinò non può attendere il 2013. Ci sono troppo ingenti quantità di titoli pubblici americani nella pancia di banche centrali di mezzo mondo, delle banche d’affari, dei fondi hedge e equity, di enti e sindacati, nonché in quella di centinaia di milioni di risparmiatori. I “mercati” si attendono una risposta e una soluzione drastica per diminuire il disavanzo, ovvero misure antipopolari draconiane, ben prima del 2013. I “mercati”, ovvero gli speculatori e gli squali della finanza predatoria internazionale badano ai guadagni e se ne fottono se misure di macelleria sociale possono far saltare la pace interna agli USA. Secondo gli analisti la scadenza fatale è l’estate prossima, quando la cosiddetta “banda dei sei”, la commissione di sei senatori bipartisan del Congresso dovrà prendere pesanti decisioni di politica economica e fiscale. (11)

NOTE

(1) L’Outlook stima la direzione potenziale che assumerà la valutazione del debito nel medio periodo, tra i sei mesi e i due anni.

(2) Marco Fortis, Il Sole 24 Ore del 15 aprile 2011

(3) Mario Margiocco, Il Sole 24 Ore del 19 aprile 2011

(4) Martin Feldstein, Il Sole 24 Ore del 25 febbraio 2011

(5) Frase attribuita all’ex Presidente francese Valéry Giscard D’Estaing

(6) Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore del 19 febbraio 2011

(7) Mario Margiocco, Il Sole 24 Ore del 13 aprile 2011

(8) Fonte: Federal Reserve

(9) Daniela Roveda, Il Sole 24 Ore del 19 aprile 2011

(10) Mrya Longo, Il Sole 24 Ore del 19 aprile 2011

(11) Mario Platero, Il Sole 24 Ore del 19 luglio