Droni (il Pentagono ne ha 7mila) e non solo
Minacciosi rapaci high-tech volteggiano giorno e notte su Afghanistan, Pakistan, Iraq, Yemen, Somalia, Libia e altri paesi. La specie più diffusa è quella dei Predatori, droni dotati di videocamere e sensori all’infrarosso, gli occhi attraverso cui gli operatori li telecomandano da una base negli Stati uniti, a oltre 10mila km di distanza. Individuata la preda, essa viene attaccata con missili «Fuoco dell’inferno». Il Predatore di ultima generazione, denominato Mietitore (ovviamente di vite umane), ne può trasportare 14.
Questi e altri droni stanno rapidamente proliferando: il Pentagono, che dieci anni fa ne aveva una cinquantina, ne possiede oggi oltre 7mila. La U.S. Air Force sta addestrando più «piloti remoti» per i droni che piloti di cacciabombardieri. E sui droni da guerra puntano non solo gli Stati uniti, ma tutte le maggiori potenze. Anche l’Italia usa in Afghanistan (e forse anche in Libia) droni Predatori, telecomandati dalla base di Amendola in Puglia. Grazie ai miliardi di dollari destinati alla ricerca e allo sviluppo, la specie si sta rapidamente evolvendo.
Si stanno sperimentando droni spaziali, come l’X-37B della U.S. Air Force: completamente robotizzato, è in grado di rientrare alla base dopo la missione. Può distruggere satelliti avversari (accecando così il nemico prima dell’attacco); può lanciare dallo spazio i «dardi di Dio», con l’impatto cinetico di un meteorite; può allo stesso tempo lanciare dallo spazio testate nucleari. Nella base aerea Wright-Patterson (Ohio) si stanno sperimentando droni miniaturizzati, che riproducono il volo di uccelli e insetti, compreso il battere delle ali. Nei futuri scenari bellici si prevedono sciami di droni-insetto che, diffusi su un territorio, spiano ovunque e sono capaci anche di uccidere.
Si stanno sperimentando allo stesso tempo, in particolare a Fort Benning negli Usa, robot terrestri da combattimento. Tra questi il «Gladiatore», un veicolo cingolato di oltre una tonnellata dotato di mitragliatrici e altre armi, che sparano sugli obiettivi individuati dalle telecamere. Per i combattimenti soprattutto in zone urbane è ormai pronto un piccolo robot cingolato armato di mitragliatrici, che sparano quando le sue cinque telecamere (capaci anche di visione notturna) individuano una sagoma umana. È già stato sperimentato con successo in Iraq, mentre un modello analogo viene usato in Israele lungo il confine con Gaza.
Nel quadro del programma «Futuro sistema di combattimento» (200 miliardi di dollari), il Pentagono prevede di rimpiazzare entro il 2015 un terzo dei veicoli corazzati con equipaggio, sostituendoli con robot da combattimento. Esperimenti analoghi vengono effettuati dalla marina.
Sta dunque cambiando il modo di fare la guerra: gli Stati uniti e le altre maggiori potenze usano la superiorità tecnologica per imporre il loro dominio con un’armata di droni e robot da combattimento, che riducono i rischi per i militari. Ma la guerra robotizzata facilita l’estensione delle operazioni militari e accresce il numero di vittime civili. C’è da chiedersi a questo punto chi siano veramente i robot. Non le macchine, ma coloro che seguono la via della guerra (promovendola, giustificandola o accettandola supinamente). Camminano come automi verso il precipizio.
da il Manifesto del 19 luglio