Manifestiamo in ogni modo la solidarietà con il governo ed il popolo ecuadoregno
Dunque il piccolo Ecuador ha osato sfidare la Gran Bretagna e, soprattutto, gli Stati Uniti, dove Julian Assange sarebbe certo finito (con il rischio di una pesante condanna per «spionaggio») se il coraggioso governo di Quito non gli avesse concesso l’asilo politico.
Come noto la vicenda è ben lungi dal concludersi, ma – al di là della controversa figura dell’ideatore di Wikileaks, al quale è comunque doveroso esprimere la nostra piena solidarietà vista la persecuzione a cui è sottoposto – due cose vanno dette subito e con la massima chiarezza.
La prima è che le minacce inglesi – dietro alle quali non è certo difficile scorgere l’ombra della Casa Bianca – sono il segno dell’arroganza di un imperialismo messo a nudo nella sua pretesa di fare e disfare le leggi e il diritto internazionale.
La seconda è che il governo ecuadoregno, forte di un indiscusso consenso popolare, ha dimostrato che a questa arroganza si può dire di no. Ed è un no preziosissimo per la lotta dei popoli, un no che merita il sostegno di tutti i democratici, in primo luogo quello forte e convinto degli antimperialisti.
E’ importante, dunque, manifestare in ogni modo la solidarietà al governo ed al popolo ecuadoregno, giustamente orgoglioso (vedi sotto l’articolo di Samir Hassan, uscito oggi sul Manifesto) di una decisione giusta, umana, libera ed antimperialista.
La mamma di Julian portata in trionfo dal parlamento di Quito
(il Manifesto, 17 agosto)
A Londra l’assedio, a Quito una festa popolare. Due modi opposti di vivere, produrre, pensare.
Dunque il piccolo Ecuador ha osato sfidare la Gran Bretagna e, soprattutto, gli Stati Uniti, dove Julian Assange sarebbe certo finito (con il rischio della condanna a morte per spionaggio) se il coraggioso governo di Quito non gli avesse concesso l’asilo politico.
QUITO «Non mi aspettavo tanta gente. Sono emozionata e non ho preparato nessun discorso. Quello che posso dirvi, senza dubbio alcuno, è che Wikileaks e il governo di questo paese hanno molto in comune; a partire dalla fervida fiducia riposta nei diritti fondamentali dell’uomo, e tra questi quello d’espressione e di libertà di stampa».
Era l’inizio di agosto quando, messa da parte l’emozione, Christine Assange ha preso forza e parola davanti alle oltre 200 persone che hanno affollato gli scranni della camera del senato nell’edificio dell’Asamblea Nacional, un quadrato di cristallo e granito che si staglia nel modesto barrio delimitato da El Elejido e La Alameda.
«La verità – aveva detto la signora Assange – è che sono molto impressionata dalla classe dirigente che ho conosciuto in Ecuador: ministri, membri del governo, tecnici delle segreterie, e ovviamente il presidente Correa. Questo mi spinge a dire che l’Ecuador può essere il posto ideale dove mio figlio può trovare asilo».
Dopo aver incontrato il presidente Correa, aggiornandolo sulla situazione di precaria salute psicologica di cui gode il figlio, la signora Assange ha avuto prova della febbricitante pressione pro-asilo che sta attraversando la capitale ecuadoriana: associazioni e partiti (Pce, Fenocin, ovvero la Federazione nazionale delle organizzazioni contadine, degli indigeni e degli afro-ecuatoriani), giovani studenti e organizzazioni universitarie, movimenti sociali e membri dell’Asamblea.
Pedro de La Cruz, indigeno e membro del parlamento ha sintetizzato l’appoggio del governo in poche semplici frasi: «Lo ammettiamo e non ci vergogniamo; siamo un popolo orgoglioso. E altrettanto orgogliosi ci sentiamo oggi, perché siamo sicuri di essere impegnati in un braccio di ferro in cui noi tuteliamo la libertà di espressione e di informazione. E tutto questo perché Wikileaks non si è voluto piegare al diktat dell’Impero. Un motivo in più per accogliere Julian a braccia aperte».
Nella girandola di interventi che si sono susseguiti il 2 agosto, spicca oggi quello di Samuele Mazzolini, che in qualità di organizzatore e appartenente ai movimenti sociali aveva aperto la giornata di solidarietà ricordando come le relazioni tra il governo di Quito e Wikileaks non fossero cosa nuova se si fosse volto il pensiero all’operato di Assange.
Mazzolini lo ha definito come un nuovo genere di «yellow journalism» (giornalismo scandalistico, ndr), frutto di ricerche concrete e non riciclate e soprattutto volte ad offrire, anche a costo di mettere a repentaglio la propria incolumità, una linea controinformativa. Questo, a suo parere, rappresenta un elemento che ben si sposa con la concezione di libertà d’informazione sancita nei diritti promossi dalla «Revoluciòn Ciudadana» di Correa.
Raggiunto dal manifesto appena terminato il saluto finale a Christine Assange, lo stesso Mazzolini (che oggi lavora presso il Ministero della pianificazione e dello sviluppo) ha poi aggiunto: «La battaglia per Assange rappresenta un fatto inedito in Ecuador e risponde a un più generale riorientamento della politica estera del governo di Correa. Basti vedere l’impegno militante della nuova diplomazia ecuadoriana: il console di Londra Fidel Narváez non è quasi uscito dall’Ambasciata dal giorno in cui Assange vi si è rifugiato. La difesa dei diritti umani e l’anti-imperialismo sono ormai politiche di stato».