In merito alla rielezione di Obama

Da mesi oramai i media nostrani non facevano che parlare della campagna presidenziale americana. Un effluvio di notizie, spesso di gossip demenziale. Uno sciame di giornalisti occupati a fornire servizi in tempo reale, il più delle volte privi di costrutto. Giornalisti provinciali, nel doppio senso di superficiali e di provincia: gazzettieri del centro imperiale. Finalmente il tormentone è finito e si torna a parlare di cose serie, poiché nulla è meno serio, ovvero nulla è più vacuo di una campagna elettorale negli Stati Uniti.

Ci chiedono un commento della riconferma di Obama. L’occasione è utile perché ci consente di ribadire un concetto: per quanto siano grandi le differenze tra il candidato perdente e quello vincente, tra i democratici e i repubblicani, poco cambierà nella politica globale degli Stati Uniti. Certo l’impronta di questa o quella Presidenza ha un peso, ma esso non è determinante. L’Impero, arroccato a difesa della propria supremazia, deve seguire giocoforza una strategia tesa alla preservazione del proprio indiscusso dominio planetario. Cent’anni e passa di evidenze empiriche stanno lì a dimostrarlo. Non sono stati i repubblicani ad entrare con tutti e due i piedi nelle due grandi guerre imperialiste, né a scatenare l’inferno contro Cuba, né a compiere le aggressioni al Vietnam, all’Iran o alla Jugoslavia. Ai tempi della Guerra fredda quanto diciamo era un luogo comune a sinistra, e non solo in quella rivoluzionaria. Col crollo del Muro di Berlino, l’euforia imperialistica ha contaminato un po’ tutti, così che, mentre gli Usa sono diventati ancor più baldanzosi e arroganti, gran parte della sinistra si è voluta inchinare ai vincitori e, come accade spesso ai servi, dimenticata la loro sudditanza, han voluto immaginare buono il proprio padrone.

La seconda ragione, non meno sostanziale, per cui poco cambia per i popoli oppressi del mondo, è che l’opposizione tra democratici e repubblicani si svolge tutta nel campo imperialista. Sbaglia chi vuol vedere lo spettro politico USA con gli occhi europei. Laggiù la dicotomia destra-sinistra ha una diversa sostanza. Qui da noi, con l’avvento del socialismo, sinistra è stato, con tutti i limiti, rappresentare la spinta emancipatrice delle classi proletarie, di contro a quelle capitalistiche dominanti. In Nord America non abbiamo mai avuto un “partito operaio” di massa, tantomeno di orientamento socialista. Il Partito democratico è sempre stato uno dei due strumenti di dominio, solo più liberale, di quello repubblicano. Insomma, abbiamo sì negli Usa una destra e una sinistra, ma tutti e due non solo ostili al socialismo, ma tenacemente imperialistici.

Siamo dunque esterrefatti dal titolo de il manifesto: Yes we cannabis. Che si fa? La si butta in barzelletta? Quasi peggio di quando Obama venne eletto la prima volta, che lo stesso giornale “comunista” titolò con un secco e ruffianesco Yes we can! Ma lasciamo stare, per carità di patria le sbandate dei sinistrati.

«Questa notte, più di duecento anni dopo che una ex colonia si conquistasse il diritto di determinare il suo destino, il compito di perfezionare la nostra unione fa un passo avanti. E va avanti grazie a voi. Va avanti perché avete riaffermato lo spirito che ha trionfato sulla guerra e sulla depressione, lo spirito che ha risollevato questa nazione dalle profondità della disperazione alle vette irraggiungibili della speranza, la certezza che anche se ciascuno di noi persegue i suoi sogni individuali, noi siamo una famiglia americana, e cresciamo o cadiamo assieme, come un’unica nazione e un unico popolo».

Qui, in questo passaggio del discorso celebrativo di Obama, abbiamo un condensato di pensiero americanista, ovvero l’idea del primato mondiale degli Stati Uniti, nient’affatto cosmopolitico o kantiano (ci dispiace di scomodare Immanuel Kant), ma sordidamente incardinato all’idea reazionaria del primato dello Stato nazione a stelle e strisce. E certo che anche negli Usa esistono gli sfruttati e gli oppressi ma, o si considerano del tutto estranei alla contesa politica, oppure sono sudditi devoti della classe dominante, dei patrioti. Che poi mandino i propri figli ad arruolarsi nei Marines o vadano a votare per Obama, la differenza sta solo sulla scala dell’introiezione sciovinista.

Fino all’ultimo la rielezione di Obama è stata in bilico. Disoccupazione alta e sostanziale stagnazione economica malgrado il fiume di dollari sgorato dalla Fed. Un paese più povero di quattro anni fa, un bilancio in politica estera sostanzialmente fallimentare. Aggiungi un’affluenza alle urne diminuita: sembravano esserci tutte le condizioni per una grande sconfitta di Obama. Invece no, i repubblicani hanno perso. Due milioni di voti in meno. Ma andiamo a guardare questi dati.

Il primo su tutti: hanno votato in meno della volta scorsa, il 50% di contro al 53%. In parole povere: Obama è presidente con poco di più di un quarto degli aventi diritto — evviva la “democrazia americana”! Qual è stato il bacino elettorale dove Obama ha pescato a man bassa? Tra le minoranze etniche anzitutto. Il voto “etnico” è salito dal 26% al 28%. Vota insomma poco più di un quarto degli immigrati ma qui Obama ha sfondato: l’80% delle minoranze ha votato per lui. In particolare Obama sembra abbia ottenuto (dati New York Times) il 70% tra gli ispanici, l’8% in più del 2008, e tra gli asiatici, dove ha avuto il 73% dei consensi. Ma la roccaforte, in termini assoluti, è stata la minoranza afroamericana, che ha votato per lui al 93%.

Di converso, a conferma del taglio verticale della società americana, Obama ha diminuito i suoi consensi tra l’elettorato bianco: ha preso il 39% di contro al 43% del 2008 — secondo altre fonti la perdita è stata addirittura del 19% [Mario Platero, Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2012]. Degno di nota che la percentuale di votanti bianchi sia diminuita al 72% dal 74% del totale. Un dato che indica due cose: che la crisi economica, certo, ha colpito anche i bianchi, ma che sono pur sempre i bianchi, in quanto componente privilegiata, la base sociale reale del bipartitismo imperialistico. E’ vero che considerando tutto il corpo elettorale l’astensione negli USA è altissima, ma se si considerano solo i bianchi la partecipazione si tiene su livelli anche più alti di quelli europei.

Per la seconda volta, questo ci pare il primo significato della rielezione di Obama, ha perso la minoranza Wasp (acronimo per White Anglo-Saxon Protestant), la casta bianca che, coi democratici o i repubblicani, ha sempre sfornato le elite dominanti e deciso i presidenti.

La grande finanza? Come ha preso la rielezione la grande finanza speculativa? Che quella nordamericana — i grandi agglomerati bancari come JP Morgan e Citygroup, i diversi fondi speculativi — avessero tifato per Romney non è un mistero. Loro sono stati i grandi finanziatori repubblicani. Essi temono che i democratici rispolverino il vecchio Glass Steagall Act, la legge varata dopo la Grande depressione, che impediva alla banche l’investment banking, ovvero di dedicarsi alla speculazione finanziaria usando i depositi dei clienti. Ciò significherebbe lo smembramento dei colossi finanziari americani, e forse la fine dei giochi sui derivati. Ma non tutta la finanza globale è a stelle e strisce. Anche in questo mondo di vampiri sono divisi. Non è un segreto che il grosso della finanza mondiale tifasse per Obama e temesse Romney, troppo sbilanciato a favore della supremazia della finanza predatoria yankee. Un pericolo, quindi, per i già traballanti equilibri post Lehman.