Si riaccendono le tensioni in vista delle elezioni

Si dovrà tornare sul Sudan, questo immenso paese-polveriera. Le molteplici tensioni interne, dovute alle differenze etniche, linguistiche e politiche, si incrociano con le soverchianti pressioni geopolitiche. Nel frattempo, acquietato temporaneamente il conflitto in Darfur, si riaccendono le scintille tra nord e sud, scintille che potrebbero causare un incendio dalle conseguenze imprevedibili.

 

 

Aprile 2010 potrebbe essere una data spartiacque, visto che si svolgeranno in quel mese elezioni presidenziali e parlamentari, così come previsto dagli Accordi di pace (Comprehensive Peace Agreement-CPA) siglati nel gennaio 2005.

 

Questi accordi posero fine alla seconda guerra civile che squassò il paese a partire dal 1983, e che altro non era se non la continuazione di quella precedente (1955-1972), e che vide darsele di santa ragione l’Esercito regolare da una parte e, dall’altra, le milizie sudiste organizzate nel Movimento di Liberazione del Popolo del Sudan (SPLM) capeggiate  dal suo principale leader John Garang.

Proprio gli Accordi di pace del 2005 prevedevano, tra le numerose clausole, che si sarebbero svolte elezioni nazionali nel 2010 e successivamente, nel 2011, un referendum nel sud del paese con il quale si dovrebbe decidere se i sei stati che compongono il meridione resteranno dentro la federazione oppure sceglieranno la via della secessione. Il condizionale è d’obbligo, appunto perché il paese è preda di aspre tensioni che potrebbero degenerare in una terza guerra aperta, con il che addio non solo al referendum del 2011, ma pure alle elezioni dell’aprile 2010.

Due i segnali che la crisi potrebbe precipitare. Il primo interno, il secondo esterno. Ma strettamente intrecciati l’uno all’altro.

Sul fronte interno le opposizioni ad al-Bashir e al suo Partito Nazionale del Congresso (NCP) stanno iniziando a contestare “palesi violazioni” riguardo alle procedure di iscrizione dei cittadini alle liste elettorali. In altre parole accusano le autorità centrali di truccare le carte e adombrano, con cinque mesi di anticipo sull’apertura dei seggi, che l’NCP, con l’aiuto degli apparati statali che gestisce, sta orchestrando una sistematica e preventiva frode elettorale. E’ l’inequivocabile segnale che, quali che saranno i risultati, l’SPLM e le altre opposizioni che capeggia (le correnti islamiste un tempo radicali raccolte attorno allo spodestato al-Turabi, il variopinto fronte darfuriano e il cosiddetto “Partito Comunista”) si stanno preparando, più che a vincere la contesa elettorale, a contestarla anticipatamente, preparandosi alla parte di protagonisti in una eventuale “rivoluzione colorata” (vedi l’ultimo tentativo in questo senso l’Iran), ovvero ad un rovesciamento “dal basso” ed extraparlamentare del regime di al-Bashir.

Per questo più sopra usavo il condizionale, perché se le opposizioni imboccassero questa strada, consistente nella delegittimazione preventiva delle elezioni, esse potrebbero ritirarsi dalla disputa elettorale e quindi offrire il destro al governo che potrebbe vedersi obbligato ad annullarle. In questo caso è facile prevedere che lo scontro degeneri in un nuovo devastante conflitto armato.

Le probabilità che i fatti piglino questa piega sono alte. Non solo il governo si sta preparando a questo esito ma pure le opposizioni, e anzitutto il SPLP. Da mesi l’Occidente, e anzitutto gli USA stanno inviando, via Ciad, Uganda e Kenya ogni sorta di armi, leggere e pesanti alle milizie sudiste, per non parlare del sostegno logistico e finanziario. E quindi vediamo come le vicende interne che attengono alla crisi sudanese siano indissolubilmente intrecciate a quelle geopolitiche.

Il recente (19 ottobre) e articolato documento diffuso dal Dipartimento di Stato americano relativo alla crisi sudanese, pelosamente chiamato “apertura” di Washington ad al-Bashir, altro non è che un ultimatum alle autorità di Khartoum: “o fate come diciamo noi e rispettate i patti, oppure aspettatevi il peggio”. Una simile minaccia non può non condizionare pesantemente le dinamiche politiche sudanesi. Se gli alleati diretti degli americani, anzitutto il SPLM, vi hanno letto l’autorizzazione a prepararsi allo scontro finale per abbattere il regime di al-Bashir, anche all’interno di quest’ultimo potrebbero sorgere delle crepe, tra l’ala dura e antimperialista e quella disposta ad un compromesso. Nelle prossime settimane vedremo chi l’avrà spuntata.

Poiché gli strateghi americani hanno un “Piano A” e, come sempre, uno “B” di riserva. Il “Piano A” prevede il rovesciamento del governo di al-Bashir, portando al potere i suoi lacché capeggiati dal SPLM. Magari con le elezioni se possibile, altrimenti con la collaudata tecnica della “rivoluzione colorata”. In questo caso che il Sudan resti pure una nazione federale e unita. Altrimenti, “Piano B”, muoia Sansone con tutti i filistei, fuoco alle polveri e si vada alla guerra anche a costo di smembrare il Sudan, di frantumarlo in tanti pezzi (Jugoslavia docet).

Che questa strategia abbia di mira anche la Cina, che sia pensata per contrastare la crescente influenza cinese in Sudan e in tutta l’Africa non v’è alcun dubbio. Due piccioni con una fava: togliere di mezzo il radicalismo antimperialista impersonato da al-Bashr e dal NCP per cacciare la Cina dal paese e, in prospettiva, dall’intero continente. Non è che Pechino possa essere all’oscuro di questo lampante disegno, e infatti puntella come può il governo di Khartoum e il suo esercito. Ma chi ritiene che la direzione politica cinese sia intenzionata ad andare allo scontro frontale con gli americani compie un errore madornale. La Cina, ammesso che voglia davvero tenere duro, sa bene che non può, data la schiacciante superiorità militare degli USA e data la rete di alleanze che questi ultimi hanno tessuto attorno al Sudan, accettare uno scontro frontale con Washington e quindi, alla fine, accetterà di farsi da parte accettando un “onorevole compromesso”, ovvero continuare i suoi affari petroliferi con l’eventuale regime sudanese che dovesse rimpiazzare quello attuale.

Il “piccolo” colossale problema è che se la situazione precipitasse, se il “Piano A” dovesse fallire, se il blocco capeggiato da al-Bashir dovesse resistere, come ci auguriamo, e gli americani ponessero in essere il piano di riserva, una guerra fratricida che portasse allo smembramento del Sudan su linee etiche avrebbe ripercussioni gigantesche, non solo su tutti e nove i paesi confinanti che sono anche loro dei bricolage di etnie e tribù tenute assieme per miracolo. Potrebbe prendere corpo una guerra regionale di vastissime proporzioni e dalle conseguenze imprevedibili.