“Il figlio di un serpente è un piccolo serpente”

Proprio un anno fa, nell’articolo Congo. L’infinita guerra per procura, parlando del sanguinoso conflitto nelle due regioni congolesi del Nord e Sud Kivu, ponevamo in evidenza come la vera causa del macello che dura ormai da quindici anni non fosse affatto di natura etnica ma risiedesse nella lotta furibonda per accaparrarsi le materie prime. Dietro alle diverse milizie in lotta, dicevamo, c’era il conflitto tra i veri burattinai, le multinazionali dei metalli, spalleggiate dai governi occidentali, che hanno tutto l’interesse a mantenere l’intera regione nel caos. Malgrado la cattura nel febbraio scorso del più famigerato Signore della guerra, Laurent Nkunda, nonostante il recente “accordo di pace” tra Kinshasa e Kigali, la situazione resta drammatica, visto che le diverse milizie continuano ad agire indisturbate e a farne le spese sono le popolazioni locali, le cui sofferenze hanno pochi eguali.

Com’è noto la grave crisi economica che ha colpito anzitutto le economie dei paesi occidentali, tra i diversi “effetti collaterali”, ha prodotto l’impennata del prezzo dell’oro, diventato un fondamentale bene-rifugio per molte banche, centrali e non, oltre che per i magnati del capitalismo. Ciò determina una lotta accanita per accaparrarsi questo metallo prezioso. Il caso vuole che la zona dell’Africa di cui parliamo, la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, anzitutto Nord e Sud Kivu, sono ricche di oro. Ma non solo di questo. Il sottosuolo cela anche wolframite, cassiterite e, anzitutto, coltan, un minerale strategico nell’industria militare, informatica e delle telecomunicazioni. Nord e Sud Kivu ne posseggono circa l’80% delle riserve mondiali. Questa ricchezza è tuttavia per i popoli di queste regioni non una fortuna, o un’opportunità, ma una grande maledizione. Tutte le multinazionali e le diverse potenze vogliono assicurarsi l’approvvigionamento strategico del coltan e degli altri preziosissimi  minerali, e questa competizione è la prima causa delle guerre che devastano la zona da tanto tempo. Il che dimostra una cosa, che l’imperialismo, come modus operandi del capitalismo, è sì uno stadio successivo del tradizionale colonialismo, ma questo non vuol dire che non ne abbia conservato la sua principale caratteristica, quella della più sfrontata rapina di materie prime ai danni dei paesi che le posseggono a tutto vantaggio di quelli “più evoluti e democratici” che le trasformano e utilizzano. Ciò che accade nel Nord e Sud Kivu non ha nulla da invidiare al saccheggio perpetrato a suo tempo dagli spagnoli ai danni degli Incas. Oggi non è più necessario colonizzare per rubare, oggi si ruba e basta. E se un tempo il saccheggio era compiuto con forze armate bianche, oggi esso viene espletato con forze armate nere, con milizie ascare, il che costituisce per gli imperialisti un indubbio vantaggio. Non solo perché a lasciarci le penne sono “i negri”, anche perché gli occidentali possono imbastirci sopra la loro narrazione ideologica delle “guerre etniche” e mascherarsi così, proprio loro che sono i mandanti, da “civilizzatori”, da “peace keepers”.

Questa guerra sporca è la continuazione di quella che venne definita la “prima grande guerra pan-africana” iniziata nel 1997 e formalmente finita nel 2002, che vide coinvolti sette eserciti stranieri, svariate milizie locali nonché migliaia di Caschi blu. In verità quella guerra (che si dice fece – direttamente e non – quasi 3milioni e mezzo di morti), non è mai finita. Oggi gli stessi stati regionali, con alle spalle le grandi potenze, continuano a scontrarsi usando e foraggiando le diverse milizie. Regna dunque, nella regione, il caos, un caos funzionale ai rapinatori, che possono così appropriarsi delle ricchezze del Kivu, per di più a costi più bassi di quelli nominali. E’, questo, un altro esempio di come il confine tra affari e criminalità organizzata, tra legalità e illegalità, è scomparso. Un sintomo infallibile del carattere criminogeno del capitalismo globalizzato. A ben vedere attualmente abbiamo tre tipi di conflitto in uno: una guerra tra stati, che chiama in causa anzitutto il Ruanda; una guerra inter-congolese, tra il centro e la periferia; un conflitto tra milizie e signorotti della guerra che impongono la legge del taglione e si contendono l’accesso alle miniere. Alle spalle l’ombra delle grandi potenze mondiali.

Questi stessi mandanti imperialisti, sull’onda dell’esecrazione per il macello in corso in questa regione hanno formalmente dichiarato una campagna di boicottaggio contro i “minerali insanguinati del Congo”. In pratica la Repubblica Democratica del Congo non può esportare i contesi minerali in questione. Ecco dunque la pandemia del contrabbando e dell’estrazione e del commercio illegali, estrazione e contrabbando di cui le diverse milizie costituiscono gli agenti diretti. In barba al boicottaggio i minerali escono dal paese illegalmente, anzitutto verso Ruanda e Burundi, per poi essere acquistati da compratori internazionali. Secondo fonti congolesi ufficiali nel 2008 solo 123 chili sono stati esportati regolarmente, ma siccome sono stati estratti più di 5mila chili d’oro, abbiamo così che la percentuale venduta di contrabbando è quaranta volte superiore a quella commercializzata legalmente. La dimensione del furto è ciclopica. I compratori al mercato nero sono ovviamente gli occidentali, i quali sanno bene che proprio grazie a questo traffico possono autofinanziarsi i diversi signori della guerra locali e le loro milizie private mascherate da forze di autodifesa tribali o etniche. La stessa Cina non è affatto estranea a questo mercimonio insanguinato. Compra indirettamente utilizzando dei prestanome, si parla della Thailandia.

E’ addirittura un prete cattolico, monsignor Sikuli Paluku, arcivescovo di Butembo, a denunciare che i governi occidentali per primi hanno tutto l’interesse a che il caos regni in questa zona dell’Africa. Ascoltiamolo: «Le ricchezze minerarie del nostro paese sono una delle ragioni di questo conflitto senza fine, in cui gli stessi congolesi si combattono gli uni contro gli altri, fratelli contro fratelli. Spesso per interessi che stanno fuori dal nostro paese. E’ una situazione di violenza, ingiustizia, sfruttamento che non possiamo più tollerare.» (Avvenire del  6 dicembre)

A pagare le conseguenze del macello la inerme popolazione civile. I più fortunati riescono a scappare dai combattimenti e vanno ad ingrossare le file degli sfollati (ad oggi sono un milione e ottocentomila!), molti altri vengono costretti ad arruolarsi, e crepare nelle miniere o addirittura ridotti in schiavitù. I più deboli sono quelli che pagano il prezzo più salato, anzitutto le donne. Secondo le notizie rese note dagli organismi assistenziali dell’ONU in Kivu avvengono migliaia di stupri ogni anno. Un’inchiesta condotta dall’UNFPA nel 2006 ha individuato in Congo 50mila casi di stupro, 25mila solo in Sud Kivu. I responsabili? Miliziani, poliziotti, soldati regolari, banditi comuni. Questa incredibile barbarie, che alcuni hanno definito “genocidio sessuale”, è purtroppo solo una parte della tragedia. Lo stupro è una vera e propria arma di guerra, l’atto simbolico che sancisce la vera e propria schiavizzazione delle donne da parte dei militari con divise di diverso colore. Moltissimi i casi di donne rapite rese incinte. Dopo aver partorito in condizioni drammatiche in mezzo alla giungla, magari riescono poi a scappare e tornare a casa col figlio del nemico. Ma qui le aspetta un cinico ostracismo, visto che in Kivu si dice che “Il figlio di un serpente è un piccolo serpente”.