Situazione fluida

Tunisia: impressioni di viaggio (2)

Tunisi, 9 febbraio
Tunisi non è la Tunisia. Tanto più non lo è stata durante le settimane di sollevazione che hanno portato alla fuga di Ben Ali. E non lo è nemmeno adesso, che il movimento popolare, ottenuta le prima, simbolica vittoria, pare riprendere fiato.

La  sollevazione popolare sembra infatti avere seguito la strategia per cui le città piccole e medie delle “province proletarie” hanno letteralmente accerchiato la capitale, postribolo piccolo-borghese, santuario di burocrati, sbirri e militari, in una parola roccaforte del benalismo. Non deve quindi stupire che a causa della sua composizione sociale parassitaria (come ogni grande metropoli moderna del resto) Tunisi sia saldamente in mano al potere, alla vecchia nomenklatura benalista solo superficialmente riverniciata.

Non è cosi nel resto del paese. Malgrado dopo il 15 gennaio la sollevazione abbia rallentato il suo ritmo, essa è viva e scalpita. In alcune province si mantiene in posizione offensiva, non riconosce legittimità alle autorità (ri)costituite, rivendica un cambio non solo formale ma sostanziale, in alcuni casi non solo politico ma pure sociale.

Ieri 8 febbraio l’Esercito è dovuto intervenire in diverse località per impedire agli assedianti di occupare o appiccare il fioco ai governatorati regionali. Due manifestanti morti, decine quelli feriti. Oggi la sinfonia popolare ha eseguito lo stesso spartito. Tutte le città capoluogo in mano ai dimostranti. Capeggiate quasi ovunque dai giovani disoccupati e dagli studenti le manifestazioni hanno preso di mira i governatori, tutti benalisti, chiedendone le dimissioni immediate. In diversi casi l’Esercito non ce l’ha fatta a fermare le proteste, poiché avrebbe dovuto fare delle vere e proprie stragi. Così nelle città di Gabès, Kébili, La Manouba, Zaghouan, Siliana, Nabeul, Tozeur, Medenine e, sempre in prima linea, Sidi Bouzid, che dopo un mese e mezzo si conferma l’epicentro della sollevazione popolare.

Nelle province la rivolta, essendo animata dai poveri, non reclama solo “libertà e democrazia”, ma assieme, “giustizia sociale”. E’ cioè una rivolta sociale e non solo politica. Nella capitale prevale invece, lo vedi parlando coi giovani studenti ben riconoscibili come figli della classe media, una mentalità libertaria e democratica, oso dire individualista e, dato che ci sono, occidentalista. Sono giovani del tutto simili ai nostri, un po’ no-global, un po’ progressisti, un po’ individualisti. Qui puoi toccare con mano la potenza pervasiva del modello di vita europeo, percepito come occidentale. Lontanissimi dall’Islam, non meno che da ideali rivoluzionari egualitari. Minimalisti al fondo, privi di ogni più pallida finalità.

E’ nelle zone più povere che trovi più profondità, una radicalità verace, refrattaria ai canti delle sirene occidentaliste. E’ proprio nei quartieri degradati della periferia che incontri l’Islam. Qui era la roccaforte dei salafiti tunisini, quando negli anni ’90, mentre l’Algeria era in fiamme, fecero tremare Ben Ali. Il regime, con la scusa di combattere il terrorismo, sostenuto da Europa e USA, rispose col pugno di ferro. 30 mila prigionieri, decine e decine i morti ammazzati, i torturati, gli scomparsi. Molti salafiti sono ancora in prigione, la “rivoluzione” non li ha perdonati. Per loro non c’è stata clemenza.

Sterminati, i salafiti non si sono ripresi più. L’Islam politico tunisino ha oramai un volto diverso, quello del movimento Ennahda, di cui il leader storico Rached Gannouchi (stesso cognome del primo Ministro ad interim, Mohammad), appena rientrato in Tunisia dopo lungo esilio, assicura che Ennahda rispetterà i diritti delle donne, la divisione dei poteri, il pluralismo politico, le libertà democratiche. Tuttavia c’è chi pensa, qui, che siano solo dichiarazioni di facciata, che se davvero Ennahda conquistasse il potere, sarebbe la fine del secolarismo e delle libertà. Io tendo invece a credere che il partito islamico sia sincero. A parlarci ti convinci che più che ad una repubblica islamica Ennahda guarda al modello dell’AKP in Turchia.

In concreto, ed è un fatto importante, gli islamisti non sostengono le autorità ad interim, e rivendicano, esattamente come l’estrema sinistra e il “Fronte del 14 Gennaio” la formazione di una Assemblea Costituente. Affermano insomma che i vecchi luoghi del potere benalista, fuggito Ben Ali, non sono più depositari  di alcuna autorità legittimante, che quindi l’attuale governo dovrebbe farsi da parte per indire immediatamente le elezioni per, appunto, l’Assemblea Costituente.

In buona sostanza lo stesso approccio dell’estrema sinistra, ma tra quest’ultima e gli islamisti, contrariamente che in Libano, in Palestina e per alcuni versi anche in Egitto, non corre buon sangue. Un fronte comune sembra oggi impossibile.

Anche a causa della divisione delle forze popolari, il governo ad interim si tiene in piedi, continua a far finta di legiferare, in verità esso nasconde che il potere vero in Tunisia è oggi in mano ai militari, a chi detiene il monopolio della forza armata.

Per farsi un’idea di come il potere tenti di rafforzarsi in assenza di ogni vera fonte popolare di legittimità, basti sapere che il Parlamento ha proprio ieri adottato un provvedimento in base al quale esso, in buona sostanza, si priva dei suoi poteri legislativi per consegnarli al Presidente ad Interim, Fouad Mebazaa. Quest’ultimo, per ben sei mesi, potrà legiferare e rendere esecutive le leggi, senza passare per l’approvazione parlamentare. Un atto autoritario, antidemocratico, di chiaro segno bonapartistico.

Di che stupirsi? Il Parlamento di cui stiamo parlando è quello di Ben Ali, la gran parte dei deputati vennero eletti come candidati del RCD, il partito di Ben Ali appunto. Solo questo Parlamento di zombi poteva scegliere come Presidente ad Interim uno che era, fino al 14 gennaio scorso, un membro dell’Ufficio politico del RCD, e poi consegnargli tutti i poteri.

Un passaggio istituzionale cruciale, che mette in mostra la debolezza delle autorità interimali, la paura dei politicanti borghesi di quella che chiamano “anarchia sociale”, e che in verità è una specie di potere popolare dal basso che si va consolidando, anzitutto nelle province, e che minaccia l’ordine provvisoriamente ricostituitosi.