Brevi riflessioni sulla rivoluzione egiziana
E una polemica con i complottisti nostrani

Ora che il tiranno se n’è andato è il momento di iniziare un primo bilancio sulla rivoluzione egiziana. Le informazioni su quello che è successo nei 18 giorni (25 gennaio – 11 febbraio) che hanno portato alla caduta di Mubarak non mancano, anche se i media si sono concentrati un po’ troppo su Piazza Tahrir e troppo poco sul resto del paese. C’è confusione, invece, sulla natura della sollevazione popolare e dunque sulle sue possibili linee di sviluppo.

Nei commenti del «giorno dopo» tutti hanno vinto. Mentre al Cairo si festeggia, anche i grandi protettori del faraone in fuga – Casa Bianca in primo luogo – cantano vittoria. Festeggiano l’Iran, Hezbollah ed Hamas, ma festeggiano pure i peggiori nemici delle resistenze popolari, coloro che fino a qualche giorno fa consideravano il rais come un intoccabile (per quanto imbarazzante) baluardo degli interessi occidentali in Medio Oriente. Se tutti gridano vittoria, qualcuno inevitabilmente si sbaglia: ma chi?

Non abbiamo la sfera di cristallo e dunque non possiamo sapere quale sarà il suo sbocco, ma quella in corso è in tutta evidenza una vera e propria crisi rivoluzionaria. Non una semplice rivolta, né una sollevazione limitata all’obiettivo della caduta del despota. Nel grande movimento che ha paralizzato il paese per quasi tre settimane c’è di tutto: la voglia di spazzare via un regime dittatoriale e corrotto, la richiesta di giustizia sociale, la volontà di farla finita con una politica estera dettata da Washington e subalterna ad Israele.

Mille rivoli, come sempre avviene nei processi rivoluzionari, sono confluiti in alcuni obiettivi immediati, in primis la cacciata di Mubarak, dando luogo ad un autentico fiume in piena che ha invaso le strade della capitale e delle altre città. Un fiume che ha toccato l’intera nazione, che ha scosso le stesse forze di sicurezza (si pensi alle evasioni di massa dalle carceri), che ha visto protagonisti i giovani ma anche gli operai in sciopero.

Come in tutti i processi rivoluzionari – di cui la vittoria del 11 febbraio è da considerarsi soltanto una prima tappa – l’esito non può essere mai predeterminato. Se il movimento popolare ha dalla sua la grande ampiezza raggiunta, i «continuisti democratici» del mubarakismo hanno dalla loro il sostegno dell’imperialismo americano. Se è vero che gli Usa non hanno più la forza di un tempo, è altrettanto vero che il movimento di massa non dispone ancora di una vera direzione, mentre le stesse forze d’opposizione al vecchio regime appaiono abbastanza divise. E se l’esercito alla fine ha dovuto mollare il rais, al termine di quello che deve essere stato uno scontro interno non di poco conto, è altrettanto vero che si tratta pur sempre di quello stesso esercito che ha costituito la base decisiva del trentennale regime di Mubarak. Tutto questo per ribadire che l’esito della lotta in corso è tutt’altro che scontato.

Ma quale «rivoluzione colorata», ma quale «ottantanove»?

Se non possiamo sapere chi vincerà alla fine di questo scontro, dobbiamo invece contestare alla radice due interpretazioni che circolano sulla rivoluzione egiziana, così pure come su quella tunisina: che si tratti di una sorta di «rivoluzione colorata», che il processo a catena che sembra essersi innescato nel Nord Africa e più in generale nel mondo arabo sia assimilabile in qualche modo alla caduta del «blocco sovietico» nel 1989.

Interpretazioni di questo tipo vengono alimentate da alcuni organi di stampa, come spesso avviene in maniera bipartisan. Se sulle pagine de il Giornale Marcello Foa paragona i fatti egiziani alle cosiddette «rivoluzioni colorate», citando esplicitamente i casi di Serbia, Georgia ed Ucraina; la Repubblica privilegia invece il riferimento all’ottantanove. Evidentemente, ognuno ha il suo modo di consolarsi per la perdita di un caro amico…

Queste tesi strampalate, ed in particolare la prima, vengono riprese da diversi ambienti, certamente ultra-minoritari, ma con una qualche efficacia sul web. L’ambiente internettaro è infatti assai favorevole ai complottisti di ogni tipo, gente la più disparata ma unita dalla convinzione che al mondo non si muove foglia che la Cia non voglia. Che poi ragionamenti di questo tipo vengano rilanciati da blog come Conflitti e Strategie, che pure insiste sulla tendenza al multipolarismo, è una contraddizione facilmente spiegabile dalla manifesta allergia dei sui curatori verso tutto ciò che rimanda al «popolo».

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Ma occupiamoci prima dell’assurdo paragone con il 1989. Quale sarebbe il legame con le recenti sollevazioni sulla sponda sud del Mediterraneo? Semplice, il loro effetto a catena. E siccome i sostenitori di questa tesi ne individuano la comune radice nella domanda di «democrazia», ecco che due più due fa quattro. Ma gli effetti a catena non sono una peculiarità del 1989. Dobbiamo ricordare il 1848, oppure la concatenazione delle lotte anticoloniali? Forse – se non ci fosse dall’altra parte una manifesta malafede – basterebbe ricordare che il mondo arabo ha un elemento in più in grado di spiegare il contagio rivoluzionario. Il mondo arabo non è soltanto una regione caratterizzata da contiguità territoriale, da strutture e problemi sociali similari; è anche e soprattutto  un “mondo” che condivide largamente una cultura ed usa una stessa lingua. Dettagli? Probabilmente sì per chi vuole restare agganciato alla tesi (per lui) autoconsolatoria della ripetizione di un ottantanove in salsa araba.

Costoro non si prendono minimamente la briga di spiegare un’altra “piccola” differenza: mentre l’ottantanove vide l’affermazione di regimi o comunque di governi filo-occidentali, il 2011 arabo ha visto finora la caduta di due regimi asserviti all’occidente. Certo, i gazzettieri dell’«esportazione della democrazia» favoleggiano di rivolte a Gaza contro Hamas, in Siria contro Assad, in Libano contro Hezbollah ed il nuovo governo che ha mandato a casa Hariri. Ne favoleggiano, ma si sono viste? Quel che si è visto sono le rivolte, per ora vittoriose, di Tunisia ed Egitto. Quel che si è visto è la scesa in campo di imponenti movimenti popolari in Algeria, Yemen e Giordania. Guarda caso queste rivolte hanno tutte luogo in paesi e contro regimi amati e sostenuti dall’occidente, Stati Uniti in primis.

Il riferimento all’«ottantanove» è dunque del tutto fuorviante. Fra l’altro, se il crollo del blocco sovietico sanciva l’affermazione della tendenza monopolare, a netta dominanza Usa, dell’imperialismo; i fatti di questo inizio 2011 non sono invece il segno di un’opposta tendenza – ovviamente contrastata con tutti i mezzi da Washington – verso una fase multipolare? Domanda senza risposta, come sempre avviene quando si vuole affermare una convinzione puramente ideologica come quella dell’«ottantanove» arabo.

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Passiamo ora alla tesi delle «rivoluzioni colorate». Essendo questa tesi del tutto imparentata con la precedente, anche le considerazioni fin qui svolte valgono come confutazione di questa ridicola interpretazione dei fatti di queste settimane. Ma qual è l’argomento principe dei sostenitori di questa teoria? Semplice, che gli Usa hanno deciso a tavolino la sostituzione di uomini che per quanto servili andrebbero rimpiazzati con regimi ancora più funzionali al proprio dominio, magari anche perché più presentabili in termini «democratici».

Che una potenza imperialista come gli Usa possa concepire un simile disegno è perfino scontato. Ma la domanda da porsi è un’altra: è questo il caso che abbiamo di fronte? Certo, agli Usa piacerebbe avere come alleati in Medio Oriente regimi servili, basati su masse letargiche se non accondiscendenti, con regolari elezioni a certificare l’esistenza di una formale democrazia. Ma trapiantare l’Europa di oggi nel Medio Oriente di oggi, perché di questo all’ingrosso si tratterebbe, non sembra proprio un’impresa possibile.

Restando al caso egiziano, si pensa forse che sia possibile arrivare ad elezioni minimamente regolari senza che ciò determini l’ascesa al potere di un blocco comunque non accettabile per gli Stati Uniti? Qui non stiamo parlando di una qualche forma di rivoluzione socialista, ma della semplice possibilità che si delinei uno sbocco alla “turca”, per di più in un paese che per quella via potrebbe riassumere un ruolo guida del mondo arabo. E’ questo uno scenario favorevole agli Stati Uniti? E ad Israele? Ma per favore…

Ma perché inventarsi inesistenti «rivoluzioni colorate», quando l’atteggiamento di Obama è facilmente spiegabile in base al normale comportamento di una superpotenza di fronte ad uno sconquasso che rende ingovernabile nelle vecchie forme un importante paese ad essa asservito? Cosa doveva fare, dal suo punto di vista, la Casa Bianca, davanti alla sollevazione egiziana se non esattamente ciò che ha fatto?

Ed esaminare quel che ha fatto è tutt’altro che inutile. In prima battuta ha sostenuto Mubarak, come prima Ben Ali; poi ha iniziato a parlare di riforme ma sempre gestite dal dittatore; successivamente ha riconosciuto la necessità di una «ordinata transizione»; infine, ma solo all’ultimo, ha mollato il suo uomo. Un piano preordinato, o molto più semplicemente un adattamento dettato dagli eventi?

Una superpotenza è tale – e gli Stati Uniti lo sono, nonostante i primi segni del declino della loro egemonia – se sa giocare le proprie carte anche negli scenari più sfavorevoli. Chi la guida non è così stupido da contrapporsi frontalmente ad una marea umana come quella che ha cacciato Mubarak. Altre sono le armi da usare. Detto per inciso, è qui che si vede la differenza tra la potenza ancora  dominante e quelle di serie B e decadenti. Differenza che si è vista, ed in maniera clamorosa, tra il pur annaspante attivismo americano e la totale paralisi di un Europa i cui penosi leader altro non hanno saputo fare se non rilanciare ogni dritta e perfino ogni aggiustamento tattico del duo Obama-Clinton.

Cosa c’entra tutto ciò con le «rivoluzioni colorate»? Evidentemente nulla. E poi, gli impressionanti numeri della mobilitazione egiziana, dicono o no qualche cosa? Eppure si tratta di numeri neppure comparabili con i fatti di Serbia, Ucraina e Georgia. E non si dica che ciò dipende semplicemente dal fatto che l’Egitto è più popoloso. Non lo si dica, perché i «rivoluzion-colorati» mobilitavano al massimo qualche decina di migliaia di persone per qualche ora, qui si sono mobilitati  diversi milioni di persone per 18 giorni, ed avendo davanti un imponente apparato repressivo più le squadracce del partito di Mubarak. E non è forse vero che la quantità, a certi livelli, diventa anche qualità?

La verità è che dietro a certe analisi c’è solo un pregiudizio: il disprezzo, qualche volta celato, ma sempre più spesso manifesto, verso i popoli. Per costoro quando le masse popolari si muovono – e siamo i primi a sottolineare che ciò non avviene di frequente – esse sono sempre mere massa di manovra di gruppi di dominanti in lotta con altri gruppi consimili. Per costoro il ruolo delle masse nella storia è nel migliore dei casi pari a zero, essendo nel peggiore quello degli utili idioti. Non ci soffermiamo oltre su questa concezione elitaria della storia, se non per rilevare qual è il risultato ultimo di questo disprezzo, quello cioè di certificare preventivamente l’inutilità di ogni lotta, di ogni battaglia che non sia già inscritta nei progetti dei dominanti. Il grave è che non siamo di fronte ad una spiegazione, per quanto ben poco plausibile, di un singolo avvenimento o serie di avvenimenti. No, siamo di fronte ad una vera e propria concezione, che viene allegramente applicata ad ogni vicenda, ad ogni contesto, a qualunque latitudine.

Cosa accadrà adesso?

Dato che, al contrario di costoro, la nostra opinione è che la rivoluzione egiziana abbia solo segnato una tappa, concludiamo tornando brevemente alle sue possibili linee di sviluppo. In questo momento tutto è in mano all’esercito, ma non è ben chiaro come l’esercito voglia gestire la cosiddetta «transizione». Molte sono le domande: si arriverà ad un’Assemblea Costituente? Quando potranno tenersi le elezioni politiche? Come si strutturerà l’attuale opposizione oggi extra-parlamentare? E, prima di questo, chi gestirà davvero la transizione, l’esercito da solo od all’interno di un governo di unità nazionale?

Sulla questione del rapporto tra esercito e movimento popolare bisogna però spendere qualche parola. Nota giustamente un osservatore liberale come Sergio Romano (Corriere della Sera, 13 febbraio) che quello avvenuto al Cairo è sostanzialmente un colpo di stato militare. Indubbiamente è così. Ma si tratta di un golpe stabilizzante che chiude la partita, o di un fragile equilibrio politico che ha evitato l’abisso della guerra civile? La risposta giusta è la seconda.

Molti sono rimasti sorpresi quando, nel tardo pomeriggio di venerdì 28 gennaio, i carri armati dell’esercito sono stati accolti festosamente dai manifestanti, in qualche caso ricambiati dai soldati. C’era certamente in quell’abbraccio una buona dose di illusioni che non potranno reggere la prova dei fatti, ma c’era anche una non disprezzabile razionalità politica. Da una parte, quella dell’esercito, c’era il tentativo di proporsi come forza super partes, l’unica in grado di prendere in mano la situazione; dall’altra, quella del movimento popolare, c’era la consapevolezza di dover evitare una brutale repressione che l’avrebbe affogato nel sangue prima ancora di potersi organizzare sul serio. L’instabile equilibrio raggiunto ha portato ad un putsch applaudito dal popolo. Questo esito apparentemente paradossale, certamente solo transitorio, può stupire solo chi ama ragionare a prescindere dai concreti rapporti di forza. Ma non poteva essere questo il caso delle forze protagoniste della grande sollevazione egiziana.

Abbiamo già citato Romano, ed è utile riportare la lapidaria conclusione del suo commento: «Sappiamo soltanto che al Cairo, per il momento non vi è ancora un vincitore. Il capitolo della crisi non si è concluso e potrebbe riservare, prima della fine, altre sorprese». E’ esattamente così. Il movimento popolare non si è certo venduto all’esercito. Ha accolto positivamente la svolta dell’11 febbraio solo perché in questo modo si è aperta a tutti gli effetti una nuova fase, nella quale gli obiettivi democratici e quelli sociali potranno trovare il modo di organizzarsi politicamente. La partita è del tutto aperta e la rivoluzione egiziana è tutt’altro che archiviata.

Tra le grandi questioni in gioco vi è quella della collocazione internazionale dell’Egitto, in particolare rispetto ad Israele, alla questione palestinese ed alla vergognosa compartecipazione al criminale assedio imposto alla Striscia di Gaza. Questa mattina, secondo quanto riporta l’agenzia Mena, il consiglio supremo delle forze armate ha assicurato che l’Egitto rispetterà i trattati regionali e internazionali che ha firmato. Una dichiarazione assai scontata, dato che l’esercito si è impegnato a trasferire i poteri ad un «governo civile eletto». In sostanza, il pretesto della «transitorietà» serve ora a coprire la volontà di conservare la vecchia collocazione internazionale a fianco degli Stati Uniti e di Israele.

Potrà reggere una simile impostazione? La risposta è sì se l’esercito avrà la forza di mantenere il potere – altro che transizione! -, è no se si arriverà davvero ad elezioni minimamente regolari. Le  forze scese in piazza, pur nella loro diversità, sono tutte decisamente antisioniste. Ed il desiderio di riscattare 30 anni di mubarakismo e la precedente svendita (accordi di Camp David) di Sadat si è avvertita con forza in queste settimane.

Ecco perché, se tutti hanno cantato vittoria dopo la cacciata del rais, solo alcuni alla fine potranno  davvero festeggiare. Ed è assai più probabile che possano farlo le forze delle resistenze antimperialiste (a partire da quella palestinese), piuttosto che quelle che al carro di Washington cercano di portare su un binario morto il grande movimento popolare che si è sviluppato. Chi vivrà vedrà, ma la vittoria della rivoluzione è possibile.