La Libia, prendendo a prestito un paio di concetti imperialisti, da “Stato canaglia” è oramai diventato uno “Stato fallito”. Del che, proprio gli imperialisti, sono i primi responsabili. Sull’onda delle “primavere arabe” anche la Libia venne lambita dal fiume in piena della mobilitazione popolare. Ed anche in Libia accadde che la rivolta, iniziata da settori giovanili di ceto medio animati da aspirazioni democratiche (dimostratesi presto illusorie) una volta rotti gli argini ed entrate in scena le larghe masse, fosse caduta sotto l’egemonia di forze a vario titolo islamiste sunnite. Queste ultime divise profondamente tra i movimenti locali legati alla grande Fratellanza musulmana da una parte, e i settori più radicali (takfiriti, jihadisti, ecc).

La Casa Bianca, il Pentagono, la piovra imperiale americana, pensavano di poter facilmente “cavalcare la tigre” invece, anche in Libia, sono stati disarcionati. Pensavano, dando il contributo militare decisivo al rovesciamento di Gheddafi, che sarebbe poi stato facile isolare gli “estremisti islamici” per mettere sul trono qualche loro fantoccio. In effetti così è stato, ma per scoprire presto che la Libia era andata in pezzi, che la giurisdizione del governo di Tripoli ha un raggio di un paio di chilometri quadrati, che il territorio è sotto controllo delle più diverse, agguerrite quanto sgangherate milizie tribali. Eh sì, poiché, al netto delle ostentazioni di fede, le numerose brigate che si contendono il controllo del territorio (e dei pozzi petroliferi) hanno un carattere anzitutto tribale. Come avemmo modo di sottolineare durante la caduta del regime gheddafiano, nulla si poteva capire della società libica senza tenere nella debita considerazione il carattere tribale della sua struttura sociale, di cui la Jamayria, era solo una superficiale verniciatura.

Sta di fatto che appena rovesciato Gheddafi la Libia è in preda ad una vera e propria anarchia militare, uno Stato non c’è, ed i “signori della guerra” fanno il bello e il cattivo tempo.

Khalifa Hiftar, quello a capo delle milizie che il 18 maggio hanno addirittura dato l’assalto al Parlamento con l’intenzione di “ripulire il paese dagli islamisti”, è uno di loro. Egli rientrò da un lungo esilio dorato negli Stati Uniti, era colui che gli americani avevano foraggiato affinché diventasse il nuovo uomo forte di Tripoli. Un fantoccio calato dall’alto in modo talmente scaltro non poteva ottenere alcun consenso e, soprattutto non era gradito alle forze islamiste, né alla Fratellanza né tantomeno ai settori più radicali, che con patetica superficialità i media occidentali catalogano come “qaidisti”.

Sembrava che questo fantoccio fosse uscito di scena, invece ricomparve mesi addietro quando, occupata una stazione Tv, annunciò di aver conquistato il potere e di aver fatto fuori i “terroristi islamici”. Il tutto si rivelò presto una pagliacciata. Fu chiara però una cosa, che Khalifa Hiftar si presentava come campione della lotta, non solo contro le milizie tribali vicine all’islam radicale, ma pure alla Fratellanza musulmana.

Nel frattempo, dopo tre anni di anarchia interna e di sconquassi regionali sono cambiati i mandanti ed i pupari di Khalifa Hiftar. Come hanno dimostrato gli eventi in Iraq, in Yemen, in Siria, in Egitto, gli Stati uniti sono stati sostanzialmente cacciati dalla ribalta del Medio oriente, e faticano a non perdere posizioni nel Maghreb e nell’Africa subshariana. Non che gli Usa, Israele e la NATO non affondino ancora i loro artigli, ma non sono più la Casa Bianca e le sue protesi i soli a distribuire le carte.

E’ lo scontro tra potenze regionali a tenere banco. Quali sono queste potenze è presto detto: Arabia Saudita, Iran, Turchia, Egitto (la Siria essendo ormai un paese in cocci e le ambizioni dell’Emiro del Qatar come minimo velleitarie). Non si pensi di poter tirare una linea: questi di qua contro quelli di là. Ogni regime fa il suo proprio gioco e punta alla supremazia regionale. Lo si vede chiaramente nel ginepraio siriano dove, la tenuta del regime baathista, ha finito per spaccare radicalmente l’alleanza tattica tra Turchi, sauditi e qatarioti. Turchia e Qatar sostengono la Fratellanza musulmana mentre i sauditi, oltre ad essere impegnati per far saltare il ponte di Tehran sul Mediterraneo, non sono meno decisi a frustrare le ambizioni neo-ottomane della Turchia di Erdogan. I sauditi hanno infatti deciso di stroncare la potenza internazionale della Fratellanza musulmana, considerata una longa manus di Ankara. Lo scontro tra Turchia e Arabia saudita è un fattore importante, che ha indebolito le milizie islamiste che combattono contro il regime di Assad, che ne ha approfittato per lanciare l’ennesima controffensiva che si è recentemente conclusa con la riconquista della strategica città di Homs.

E’ alla luce di questa opposizione tra sauditi e turchi che si spiega un evento di prima grandezza: il golpe militare di el-Sissi in Egitto; golpe messo in atto malgrado la riluttanza della Casa Bianca ma col totale appoggio dei sauditi. Un golpe che ha significato una sconfitta cocente per le ambizioni Turche.

L’Iran, impegnato a consolidare l’assestamento interno dopo la caduta di Ahmadinejad, ha tratto vantaggio dalla battaglia tra Ankara e Riyadh, non solo perché l’alleato Assad può respirare, ma perché ha consentito un riavvicinamento alla Fratellanza musulmana, dopo la frattura prodottasi a causa della guerra civile siriana. Il vuoto lasciato dall’indebolimento dell’impero americano sta lentamente spingendo il Medio oriente sul piano inclinato di un conflitto di grandi proporzioni. Le analogie vanno prese con le pinze, ma dovessi azzardare un’ipotesi la regione sta andando verso una specie di “Guerra dei Trent’Anni”, quella che devastò l’Europa dal 1618 al 1648 e che aprì la strada, ma sulle ceneri della Germania, all’epoca degli Stati-nazione. In quest’area per sua natura instabile ed esplosiva, i fattori di conflitto, sociali, economici e geopolitici, vanno infatti aumentando ogni anno che passa. Potrebbero sfociare in un scontro generale che coinvolgerà diversi stati, tutti alla ricerca di un più “adeguato” equilibrio e riassetto. Sarà da vedere se ne verrà fuori una “Pace di Westfalia”.

Ripulito il paese dalla Fratellanza musulmana, i sauditi e i militari egiziani non sono solo impegnati e bonificare la penisole del Sinai e a strangolare Gaza. Essi vogliono finalmente riportare ordine in Libia. Non possono tollerare che la confinante Cirenaica resti in mano agli islamisti diventando il retroterra strategico dei loro nemici interni. Di qui l’appoggio aperto dei militari egiziani e di Riyadh al tentato golpe di Khalifa Hiftar. Alcune fonti arabe hanno affermato che l’aviazione egiziana sarebbe già intervenuta in Cirenaica bombardando alcune postazioni delle locali milizie islamiste. Non meno preoccupato dell’anarchia militare libica è il governo algerino di Abdelaziz Bouteflika il quale, temendo di perdere il controllo dei pozzi ai confini con la Libia, spalleggia il tentativo egiziano di mettere ordine non solo a Bengasi ma a Tripoli. Questa minacciosa tenaglia spiega il timido riavvicinamento tra i Fratelli musulmani libici e alcune milizie “qaidiste”.

Ad una settimana dalle elezioni presidenziali in Egitto (e ad un mese da quelle annunciate in Libia) il regime egiziano ha fatto capire chiaramente, proprio per bocca di al-Sissi, quali siano le intenzioni dei golpisti egiziani. I mezzi d’informazione etiopici hanno diffuso quanto dichiarato da al-Sissi nel corso della sua recente visita ad Addis Abeba il 15 maggio scorso:
«Il nostro esercito ha intrapreso grandi operazioni militari nel Sinai affinché non si trasformi in una base per i terroristi, ciò che destabilizzerebbe i nostri confini. Se l’Egitto è instabile lo è l’intera regione. Noi abbiamo bisogno, nella lotta al terrorismo, dell’appoggio americano». Passando alla Libia ha detto: «La Libia, che è precipitata nel caos dopo l’insurrezione pro-occidentale che ha defenestrato Muammar Gheddafi, è diventata la principale minaccia alla sicurezza dell’Egitto, e ciò a causa dell’infiltrazione di jihadisti che attraversano il confine per combattere le nostre forze di sicurezza. (…) L’Occidente deve fare attenzione a quanto sta accadendo nel mondo, l’estremismo è in espansione». Ha poi dato una frecciata proprio all’Occidente affermando che «l’appoggio che ha fornito ai ribelli anti-Assad ha prodotto una nuova proliferazione del Jihadismo e la frammentazione del paese, mentre la Siria deve restare unita». [Walta Info del 16 maggio]

Ciò a conferma della natura del regime militare in Egitto, della lettura che essi hanno dell’esplosiva situazione mediorientale, ma pure del fatto che sbaglia che li vede come fantocci. Essi infatti non lo sono, si considerano potenza regionale e parte in causa della grande partita che ridisegnerà l’area nel futuro prossimo.