Un killer dell’ Osbat al-Ansar o del Jund al-Sham? Quale dei due gruppi islamisti radicali avrà ucciso l’esponente di al-Fatah Mostapha al-Khatib? O si è trattato forse di una faida interna al movimento di Fatah?
Di questo si discuteva giovedì scorso, 6 novembre, nel labirinto di vicoli, tra gli anfratti di Ein el-Hilwe (il più popoloso e significativo campo profughi palestinese in Libano) presidiati da questa o quella milizia armata. Ma sì, forse sono stati i ragazzi del Jund al-Sham, per vendicarsi dell’attacco subito due mesi fa da parte di una delle milizie di Fatah,  l’organizzazione più consistente in questo campo e che sin dal 2003, senza successo (anzi al costo di serie perdite), tenta di espellere dal campo profughi i gruppi islamisti combattenti che alcuni sbrigativamente mettono nel stesso sacco salafista.

Non è solo per questo ennesimo fattaccio che nel campo di Ein el-Hilwe la vittoria di Obama appare sideralmente distante. Qui, ai confini dell’abisso, dove come in un campo di concentramento centomila esseri umani vivono segregati e tra gli stenti, dove il presente ha il colore nero della pece e il futuro puzza di sangue, non vedi traccia di obamismo. Qui, tra i figli e i nipoti di chi conobbe la Nakhba e subì l’esilio dalla Palestina, la speranza è un lusso che può sopravvivere solo nelle parti più buie e protette del cuore d’ognuno. In queste circostanze, dopo tante sconfitte e umiliazioni, la speranza non la leggi sui volti, non la vedi scritta sui muri, non vibra nell’aria come una volta. Forse è l’ultima a morire, o forse no. Per i palestinesi di Ein el-Hilwe è un seme delicato, ed essi l’hanno nascosto sotto terra, al riparo dalle incursioni, dalle guerre, dalla catena sventurata degli eventi.

«Obama? E’ pur sempre uno che sta dalla parte di Israele, che quindi sta contro di noi, contro il nostro diritto al ritorno, contro la nostra liberazione. Cosa vuoi che cambi per noi se al posto di Bush arriva Obama? Farà finta di avviare negoziati di pace, ci porrà condizioni capestro che non potremo accettare, per poi sostenere la prossima guerra israeliana».

Come dare torto a quanto pensa il palestinese in questo recesso chiamato Ein el-Hilwe, il campo profughi che la stampa occidentale, con crudele e odiosa falsificazione, definisce un covo di jihadisti, scambiando la rabbia più sacrosanta del mondo come odio per il mondo in quanto tale. Invece non è così. Questa gente ama la vita un milione di volte di più del pasciuto cittadino occidentale, certo non per questa vita fatta su misura solo per quelli che stanno sopra, per i primi. I nostri benpensanti, sempre lesti a passare armi e bagagli dalla parte del vincitore (si chiami Bush o Obama), esecrano l’islamizzazione sociale, irridono le utopie salafite di un ritorno ai tempi gloriosi dell’Islam. Viste più da vicino queste utopie hanno invece tutto il sapore del riscatto degli ultimi, del desiderio irriducibile di giustizia, della riappropriazione della dignità perduta da parte dei poveri che Dio, se c’è, non può lasciare soli per sempre, in balia del male che ammorba il mondo degli uomini che sembrano ubbidire al demonio.

Le possibili conseguenze della vittoria di Obama non sfuggono invece alle elite politiche della Resistenza, sia o no di matrice religiosa. Tra i quadri e gli intellettuali legati ai movimenti combattenti aleggia un certo ottimismo. Bush, il nemico numero uno, è stato sonoramente battuto e con lui l’oltranzismo bellicista, l’idea paranoica di portare a spasso la democrazia con le bombe e le invasioni. Con Bush se ne va per sempre il disegno del Nuovo Grande Medio Oriente. La sconfitta di Bush si deve grazie alla vittoria di Hezbollah su Israele, grazie alla tenacia del popolo palestinese e di Hamas, alla Resistenza irachena e a quella afghana, come anche alla perseveranza di Iran e Siria. Obama ha potuto sconfiggere McCain perché Bush era già stato battuto in Medio Oriente dalla Resistenza. Non c’è da cantare vittoria, ma da sfregarsi le mani sì. Ora le Resistenze possono godere di questo momento e prendere respiro e slancio. Ma nessuna illusione. E’ solo un a parentesi. Prima o poi la bestia americana tornerà all’offensiva. Bisogna prepararsi alla prossima guerra che è inevitabile, poiché gli USA non vorranno né rinunciare alla loro supremazia né sacrificare Israele. Tuttavia, proprio per meglio prepararsi è bene prendere tempo, visto che il prossimo conflitto sarà più impegnativo di quello del 2006 nel Libano del Sud. Che Obama faccia dunque la sua manfrina tattica mettendo la diplomazia e i negoziati al primo posto. Tutti qui sanno che l’imperialismo e i sionisti hanno bisogno di tempo per scatenare una nuova offensiva, ma non è detto che il tempo giochi a loro favore. Il tempo potrebbe piuttosto favorire il rafforzamento di Cina, Russia, Iran, e dunque in ultima istanza danneggiare il nemico numero uno e favorire le Resistenze.
Questo pensano, a torto o a ragione, i movimenti di Resistenza in Medio Oriente.

Moreno Pasquinelli