Le sconfitte del LTTE e la svolta nella vita politica del paese

di Moreno Pasquinelli

Il governo di centro-sinistra capeggiato dal primo ministro Mahinda Rajapakse, ringalluzzito dalle recenti vittorie militari contro la guerriglia Tamil, sta soffocando il paese con un’offensiva propagandistica e nazionalista senza precedenti. La fanfara dei media esulta per la conquista di postazioni strategiche e grida all’imminente vittoria finale sui “terroristi” del LTTE (Tigri per la Liberazione per il Tamil Eelam). La destra sinhalese dell’UNP (Partito Unito Nazionale) fa il controcanto, mentre il terzo partito del paese, il JVP (Fronte di Liberazione del Popolo) è vittima di una crisi senza precedenti.

 

Ma andiamo con ordine.
Dopo quasi trent’anni di guerra civile il conflitto che oppone le Tigri al regime di Colombo sembra essere giunto ad una svolta decisiva. Il 15 novembre le Tigri dovettero abbandonare Pooneryn, cittadina della costa nord-orientale, in mano loro da ben 15 anni. Venerdì 2 gennaio l’esercito cingalese, dopo un assedio durato settimane, espugnava Kilinochchi, la roccaforte militare delle Tigri, vero e proprio centro nevralgico delle zone da tempo liberate e controllate dal LTTE. Pochi giorni dopo l’esercito strappava alle Tigri anche l’Elephant pass, porta di accesso alla penisola di Jaffna, la capitale del nord. Una settimana fa, a conferma di un’avanzata che pare irresistibile, l’esercito ha infine espugnato Mullaitivu. Una serie di cocenti sconfitte per le Tigri, considerate uno dei più agguerriti movimenti guerriglieri del mondo, secondo l’antiterrorismo americano anzi, il più efficiente e temibile.

 

Come dicevamo il regime di Colombo esulta, strombazza ai quattro venti che l’annientamento del LTTE è oramai cosa fatta, questione di giorni. Se così fosse, se davvero le Tigri, a causa di queste sconfitte, uscissero di scena, questo sarebbe in effetti un evento storico destinato ad avere ripercussione decisive nella vita politica dello Sri Lanka. Se si eccettua il periodo 1987-89, segnato dal tentativo insurrezionale del JVP (finito a sua volta in un bagno di sangue), il conflitto che ha opposto le Tigri Tamil all’Esercito è, dalla fine degli anni ‘70, la questione attorno alla quale tutte le altre hanno girato.

 

La lotta armata del popolo Tamil non fu un’invenzione del leggendario leader delle Tigri, Velupillai Pirapaharan. Chiunque conosca anche solo un poco la storia e le vicende di quest’isola, sa che la minoranza Tamil soffre un’effettiva oppressione in uno stato che si pretende democratico ma che porta stampato in fronte il suo essere anzitutto sinhalese prima ancora che capitalista. Le Tigri erano, alla fine degli anni ‘70, solo uno dei movimenti guerriglieri che sollevarono la questione dell’autodeterminazione e quindi scelsero la strategia della lotta armata di liberazione nazionale. Questi movimenti, fondati pressoché tutti quanti da intellettuali d’estrema sinistra, giunsero alla decisione di imbracciare le armi solo dopo che tutte le altre strade per assicurare alla minoranza Tamil pieni diritti, si erano rivelati fallimentari.
Le Tigri di Pirapaharan diventeranno la prima forza del fronte guerrigliero solo col passare degli anni, non solo grazie alla loro determinazione nel combattimento contro l’esercito, garante di ultima istanza del predominio della maggioranza sinhalese. Le Tigri diventeranno egemoni solo dopo avere spazzato via senza alcuna pietà le altre formazioni guerrigliere, quelle formazioni che si dichiaravano disposte ad accettare un’autodeterminazione senza ricorrere alla secessione. Una volta ottenuta con ogni mezzo la superiorità, le Tigri non abbandoneranno tuttavia né l’approccio militarista verso il nemico, né l’estremo settarismo riguardo alle altre forze politiche Tamil. Questi due fattori, che fecero per tutto un periodo la forza delle Tigri, possono aiutarci a capire le cause della loro attuale debacle.

 

La guerra è sempre la continuazione della politica con altri mezzi. Dobbiamo dunque comprendere anzitutto le cause politiche delle sconfitte che le Tigri stanno subendo negli ultimi mesi. La prima di questa cause è il venir meno dell’appoggio popolare proprio tra i Tamil. Una guerra di liberazione, per quanto sacrosanta, non può durare all’infinito, tanto più quando il popolo vive negli stenti, manca di tutto, anche del cibo per sfamare i bambini. Ci sono stati momenti in cui le Tigri, all’offensiva, avrebbero potuto siglare accordi vantaggiosi coi traballanti governi di Colombo. Pirapaharan ha invece sempre scommesso sulla vittoria totale, sulla secessione come sola opzione strategica, sull’uso del terrore per spaventare il nemico. Questa linea non ha solo allontanato larghi settori della popolazione tamil, già stanchi dei metodi spietati con cui le Tigri imponevano il loro assoluto predomonio nelle zone liberate. Ha aiutato I governi di Colombo a cementare un vasto consenso sociale tra la maggioranza sinhalese all’idea speculare che nessun compromesso era possibile se non l’annientamento delle Tigri medesime. Invece di lanciare un ponte verso la popolazione non Tamil (non solo sinhala ma pure musulmana), invece di puntare a spezzare il blocco politico tra la sinistra e la destra sinhalese, la linea dura (rivelatasi avventurista) di Pirapaharan ha aiutato l’ala più sciovinista dello schieramento sinhalese ad ottenere e stabilizzare la propria supremazia, anche tra la minoranza musulmana (che pur essendo di lingua Tamil non ha mai appoggiato le Tigri). Ed è grazie a questo ampio consenso che lo stesso morale delle truppe regolari, affette per anni dallo sfilacciamento, è stato ristabilito.

 

Una prova evidente di quanto diciamo l’abbiamo guardando a quanto sta accadendo alla sinistra cingalese. Dipende anche dal settarismo e dal nazionalismo estremo di Pirapaharan se le forze di sinistra che sostengono il diritto dei Tamil all’autodeterminazione, pur storicamente molto radicate in Sri Lanka, sono confinate in una posizione di estrema debolezza. E non sarà un caso se il principale partito di sinistra del paese, il JVP, pur considerando inviolabile e sacra l’unità del paese (ovvero presentandosi come nemico acerrimo delle Tigri), ha subito una pesante scissione di destra, guidata dal loro più popolare leader, Wimal Weerawansa, il quale, appena cacciato dal partito, ha formato, proprio sulla base di un aggressivo nazionalismo sinhala, un blocco con l’estrema destra sciovinista. Un dato su cui il vecchio leader del JVP Amarasinghe dovrà pur riflettere. Egli ha voluto posizionare il JVP, agli inizi di questo decennio, nel campo del nazionalismo e del populismo sinhalesi. Questo posizionamento, è vero, ha portato il JVP a diventare il terzo partito del paese, ma ora che lo sciovinismo è stato scatenato, non si accontenta dell’antipasto, travolge e sbrana lo stesso JVP.

 

Si capisce l’esultanza dell’attuale governo di Colombo: non sta solo ottenendo vittorie militari nel nord contro la guerriglia Tamil, sta strappando consensi trasversali a sud, e pensa davvero di aver aperto un ciclo nuovo nella vita politica del paese, un ciclo che si apre infatti col ridimensionamento brutale della sinistra radicale e il simmetrico rafforzamento della destra sciovinista e fascistoide.

 

Ci sono evidentemente altri fattori che spiegano le sconfitte attuali delle Tigri. Alcuni attengono più squisitamente alla sfera militare o di strategia militare. Il primo fra tutti è stata la decisione di tenere ad ogni costo le zone liberate, il rifiuto di pensare per tempo ad una veloce ritirata preventiva, allo scopo di salvare il grosso delle proprie forze, per permettere una eventuale controffensiva in condizioni migliori. Ma anche la ragione di questo errore è politica. Il gruppo dirigente attorno a Pirapaharan non ha solo sottovalutato le forze del nemico, ha sopravvalutato le proprie e, quel che più conta, è restato prigioniero del proprio simbolismo, dell’immagine della propria mitica invincibilità. Pirapaharan ha usato questo mito non solo per disciplinare e tenere agguerrite le sue truppe, né solo per terrorizzare i soldati nemici, ha usato questo mito come strumento di consenso tra i Tamil per cementare la propria egemonia.
Più che il cedimento di alcuni luoghi strategici è il crollo di questo mito tra le masse che potrebbe segnare l’inizio della fine del LTTE.