Sull’appello contro Ahmadinejad firmato da Slavok Zizek e altri accademici

 

Non è questa la sede per esprimere un giudizio sulla controversa opera teorica del filosofo sloveno Slavoj Zizek, a torto o a ragione considerato uno dei massimi filosofi viventi. Vorremmo invece spiegare il nostro radicale dissenso relativamente all’appello  lanciato il 25 giugno scorso da 130 docenti universitari dal titolo che è tutto un programma: «Ahmadinejad, Berlusconi e l’era postdemocratica»

(http://www.carta.org/campagne/dal+mondo/17887).

 

Leone Trotsky, in una sua fulminante battuta del 1940, affermò che ogni volta che degli intellettuali  iniziavano a parlargli di questioni etiche la mano gli correva al suo portafogli. Sarebbe da attualizzare in questo modo: ogni volta che degli intellettuali occidentali salgono in cattedra per dare lezioni di democrazia urbi et orbi, anzitutto nei tempi dell’Obamismo (che del bushismo raccoglie il lascito primordiale: l’esportazione della democrazia obbligatoria negli “stati canaglia”), verrebbe da mandarli tutti, come ai tempi della rivoluzione culturale cinese, a zappare la terra.

 

Ma veniamo all’appello.
Colpisce, più ancora che la sperticata apologia delle ragioni dei manifestanti che sono scesi in strada per Mousavi e contro Ahmadinejad, la smisurata superficialità di quella che pretende  fungere da base analitica dell’appello. “Il regime autoritario approda alla crisi finale”, come dire che le proteste per i presunti brogli non solo annunciano l’auspicato crollo di Ahmadinejad, ma quello di tutto l’edificio istituzionale della Repubblica Islamica. Quanto fallace sia questa interpretazione è oggi evidente a tutti i più attenti osservatori di cose iraniane. Un tale macroscopico errore di valutazione si spiega per due ragioni: con l’ignoranza pura e semplice da una parte; dall’altra, tipica sindrome del movimentismo compulsivo che assale gli intellettuali europei, col vezzo delle sparate iperboliche e ad effetto.
L’appello in questione ha tuttavia un suo perché. I firmatari, tra cui lo Zizek, dovendosi smarcare preventivamente dall’accusa quasi ovvia di stare dalla stessa parte del regime nordamericano (lo stesso che ha occupato l’Iraq e occupa l’Afghanistan col pretesto di esportare la democrazia e i diritti civili) o di perorare una nuova “rivoluzione arancione” stile Ucraina o Georgia, ricorrono ad una chiave interpretativa che vorrebbe apparire al tempo, politicamente corretta e eversiva. Il movimento di protesta per i firmatari non era affatto una rivoluzione colorata, né figlia di un complotto occidentale, non quindi, Dio ce ne scampi, di un movimento reazionario. I manifestanti infatti non chiedevano l’importazione dei modelli liberal-democratici euro-americani; la  “dimensione originale e liberatoria” del sommovimento è che esso invocava, parole testuali, un “islam buono”.

 

Voilà! gli intellettuali di sinistra hanno trovato la quadra per giustificare la loro adesione al tentativo di rovesciamento del presidente Ahmadinejad, poiché i manifestanti vorrebbero non adottare il modello imperiale di democrazia obbligatoria, quanto un evanescente “islam buono”  di contro  a quello cattivo. In questo modo Zizek e con lui gli accademici firmatari pensano di essersi posizionati in un luogo indipendente, né a destra né a sinistra, ma in alto, talmente in alto che sono finiti nello spazio siderale delle fumisterie ideologiche buoniste, Ma non al riparo della critica evidentemente. Vittima dell’illusione che ogni movimento di piazza sia per sua natura salutare e liberatorio, l’appello non vuole prendere in considerazione la principale caratteristica degli eventi iraniani, ovvero che essi sono il risultato di uno furibondo scontro al vertice della Repubblica islamica. Se i firmatari avessero preso in considerazione questo fatto c’avrebbero pensato, non una ma dieci volte a dire che lo scontro era tra un “islam buono e uno cattivo”. Se Mousavi avesse vinto le elezioni, o meglio, se le proteste lo avessero portato, lui e i suoi committenti alla Rafsanjani al potere malgrado la sconfitta elettorale, lorsignori avrebbero avuto modo di verificare che il loro fantomatico “islam buono” si sarebbe rivelato una volgare panzana. Se la mettiamo infatti sul piano del “fondamentalismo”, ovvero dell’applicazione più ortodossa della giurisprudenza islamica, Mousavi e Rafsanjani non sono da meno, sono anzi “peggiori” di Ahmadinejad, che non è certo l’uomo del potente clero shiita, e che dal grosso di questo è anzi malvisto, sia per la sua radicalità antimperialista e nazionalista, sia per la sua lettura messianica dell’islam medesimo.  Avrebbero almeno potuto, i firmatari, dare uno sguardo a prima di Ahmadinejad, a quando il potere l’avevano saldamente in mano i cosiddetti “riformisti”, quelli che, tanto per capirci, hanno sostenuto Mousavi. Quel decennio che si concluse con l’esautorazione dell’unico autentico riformista illuminato, Khatami, e questo con l’assenso dello stesso Rafsanjani. Se lo avessero fatto non avrebbero preso la cantonata del cosiddetto “islam buono”.

 

Un dubbio comunque deve essergli venuto ai firmatari. Ecco allora che per sorreggere il loro “alto” posizionamento sono dovuti ricorrere alla madre di tutte le sparate, quella pass partout, quella in nome della quale casca l’asino, cioè si giustifica tutto: che Ahmadinejad, reggetevi forte, sarebbe un fascista. Dice infatti l’appello:
«Dobbiamo trarre un paio di conseguenze cruciali da questo quadro. Innanzitutto, Ahmadinejad non è l’eroe dei poveri islamici, ma un corrotto islamico-fascista populista, una specie di Berlusconi iraniano la cui mescolanza di pose da clown e spietata gestione del potere sta causando disagio persino presso la maggioranza degli ayatollah. La distribuzione demagogica di briciole ai poveri non ci deve ingannare: dietro di lui non ci sono solo gli organi di polizia e un apparato di public relations molto occidentale, ci sono anche i nuovi ricchi, il risultato della corruzione di regime [la Guardia rivoluzionaria iraniana non è una milizia operaia, ma una mega-corporation, il più forte centro di potere del paese]».

 

Sorvoliamo per carità di patria sull’equipollenza stabilita tra Ahmadinejad e Berlusconi (una trovata demagogica buttata lì tanto per raccattare qualche firma in più). Colpisce, a parte lo stile odioso, il concetto per cui la politica del presidente Ahmadinejad, una politica che combattuto la corrottissima nuova borghesia verde (quella che ha sperato nella vittoria di Mousavi) e che ha teso a redistribuire con coraggiose misure ugualitarie la ricchezza a favore della povera gente, venga liquidata come fascista e populista. Di questo passo occorrerebbe liquidare come populisti-fascisti Chavez o Evo Morales. E infatti i loro nemici reazionari così li chiamano: populisti-fascisti, con tanto di trattino. Lungi da noi dal far passare Ahmadinejad come un socialista, è che non si puo’ tollerare una tale brutale liquidazione, non fosse che perché oscura tutta la dialettica sociale in atto in Iran, perché non mette in luce che proprio su questo piano decisivo, su quello della distribuzione della ricchezza e dell’attacco ai privilegi di classe, si è giocata e si gioca la partita del potere a Tehran.

 

L’appello dipinge Mousavi come uno che vorrebbe “la resurrezione del sogno popolare che ha sostenuto la rivoluzione di Khomeni”. I firmatari dimenticano che il sogno che mosse quella rivoluzione e che spiega il suo carattere di massa e popolare, era appunto la speranza di porre fine alla ingiustizie sociale e alle ineguaglianze. Non spetta a noi misurare chi dei contendenti sia più coerente con gli ideali della “rivoluzione islamica”, sappiamo invece con certezza che Mousavi è la bandiera del grande capitalismo e della borghesia persiana, mentre Ahmadinejad, piaccia o meno, si affermò e vince ancora per essere la bandiera della giustizia sociale e della lotta al sionismo e all’imperialismo. Per essere cioè considerato, dalla maggioranza della povera gente, se non come il loro condottiero, come il male minore rispetto ai pescecani suoi avversari.