Da un nostro lettore abbiamo ricevuto, e pubblichiamo molto volentieri, il racconto di 20 giorni vissuti nella Terra di Palestina occupata.

Venti giorni nella Palestina occupata

di Edoardo Bottini

Sono tornato in Italia da poco, dopo 20 giorni trascorsi nel campo profughi di Askar, nei pressi di Nablus. Sono partito come volontario con l’associazione Zaatar (sul loro sito www.associazionezaatar.org si trovano tutte le informazioni sulle loro iniziative).

Continuo a pensare a chi in Palestina deve vivere ogni giorno con quello che io, da privilegiato internazionale, ho solo assaggiato.

Il popolo palestinese vive quotidianamente sotto la minaccia di un arbitrario potere militare di una potenza occupante straniera che si manifesta, prima di tutto, in una militarizzazione del territorio fatta di checkpoint fissi e mobili, tanto che i palestinesi sono abituati a informarsi più volte, durante qualunque viaggio, sulla situazione di questo o quel CP. Un’altra faccia della militarizzazione della Cisgiordania è il muro di separazione, che in realtà  è il muro dell’appropriazione: 10 metri di altezza di cemento armato sormontato da filo spinato e controllato da torrette militari che espropria terreni ai villaggi palestinesi con il risultato, ad esempio, di impedire ai contadini di coltivare la propria terra. La lunghezza del muro è doppia rispetto a quella della Green Line del 1967.

Ho avuto la fortuna di trascorrere 20 giorni ad Askar e, quasi tutte le notti, l’esercito israeliano compiva incursioni nel campo per effettuare arresti o semplicemente per affermare il proprio arbitrario potere di sottoporre tutta la popolazione del campo ad un coprifuoco non dichiarato, ma di fatto vigente. Abbiamo chiesto ai volontari palestinesi se ci fosse qualcosa che noi, da internazionali, potevamo fare contro queste incursioni, come avvicinarci con un megafono dichiarando la nostra nazionalità . Ci è stato risposto che di notte i militari non hanno rispetto per nessuno, sparano a qualunque cosa si muova. Ci viene raccontato di come un abitante del campo sia stato ucciso perché si trovava sul tetto della propria casa durante una di queste incursioni: gli occhi indiscreti di un testimone non sono bene accetti nell’unica democrazia del Medio Oriente.

La stessa logica di soppressione del dissenso la trovi applicata sin dall’ingresso in Israele, al Ben Gurion, dove un volontario internazionale viene respinto perché ha partecipato a manifestazioni non violente contro l’occupazione con l’ISM. O a Bil’in, una delle città  divenute simbolo della resistenza palestinese con la sua manifestazione settimanale contro il muro dell’apartheid: l’esercito israeliano accoglie i manifestanti pacifici con il lancio di lacrimogeni ad altezza uomo.

La violenza militare viene poi usata da Israele anche, e soprattutto, per l’appropriazione indebita di territorio. Come a Hebron, la città  della vergogna: una città  fantasma, dalla quale i palestinesi sono costretti a fuggire a causa dei soprusi dei coloni protetti dai militari. Il 70-80% dei negozi che costituivano il vecchio suk del centro storico sono ormai chiusi: mentre attraversiamo questo anomalo mercato arabo, vediamo le reti metalliche sopra le nostre teste, messe là per proteggere le vie dal lancio di rifiuti, molotov e quant’altro da parte dei civilissimi coloni. Hebron, città  costellata da CP, è l’esempio di quello che Israele intende quando parla di convivenza con i palestinesi: ghettizzazione degli arabi, soprusi quotidiani di coloni invasati protetti dai militari e, quindi, furto della terra palestinese.

La logica militare è quella che vige anche nella scelta della localizzazione degli insediamenti, sempre posti sulle cime delle alture, a controllare il territorio circostante. Gli insediamenti in Cisgiordania sono vere e proprie città circondate da muri e filo spinato, presidiate da militari: tutti violano la convenzione di Ginevra che vieta ad un esercito occupante di trasferire civili sul territorio occupato. Le strade che collegano tra loro i vari insediamenti sono proibite ai palestinesi che rischiano l’arresto o anche la vita nel malaugurato caso in cui decidessero di percorrere una di queste vie, interamente in territorio palestinese.

La violenta follia dei coloni non si riversa solo contro le persone ma anche contro il territorio: leggevo una statistica secondo la quale soltanto il 10% dei rifiuti prodotti dai coloni viene riciclato, mentre il restante 90% viene sversato in territorio palestinese.

Personalmente ho visto come i coloni si approprino di corsi d’acqua da utilizzare come discarica.

L’occupazione è nella parole di tutte le testimonianze dei palestinesi: ciascuno ha una storia di soprusi, torture, carcere, pallottole da raccontare.

Un professore universitario di Nablus, che abbiamo avuto il piacere di incontrare, ci racconta di quando, partecipando ad un congresso negli USA, continuava a sentire associare ad Israele la descrizione propagandistica “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Ci dice sorridendo: “Beh, io sono stato torturato dall’unica democrazia del Medio Oriente“, mentre ci mostra le cicatrici delle pallottole.

Lo stesso professore ci racconta di una manifestazione, il 30 Marzo 2001, in cui 50000 manifestanti pacifici decidono simbolicamente di procedere verso il CP di Awara, alle porte di Nablus. Il presidio militare li accoglie coi soldati schierati e i fucili puntati, quindi inizia a sparare sulla folla pacifica. Si conteranno 6 morti e la fine della tradizionale marcia del 30 Marzo a Nablus. Se i militari israeliani sparano sulla folla disarmata è legittima difesa, se la folla reagisce lanciando pietre è  perché gli arabi sono dei barbari.

Una delle domande che mi sono sentito rivolgere più spesso in questi giorni è stata: “Cosa faresti tu se il tuo paese fosse sottoposto a un’occupazione militare?“. Per fortuna, non riesco nemmeno a immaginarlo, questa  è la verità .

Ho sentito parlare di resistenza e ho visto come il popolo palestinese resiste quotidianamente alla violenza dell’occupazione e all’indifferenza del mondo: senza dimenticare e senza perdere la speranza nel futuro. Le declinazioni della parola resistenza in Palestina sono diverse ma tutte hanno a che fare con l’attenzione alla società  civile: dai teatri ai centri di sviluppo socio culturale, dalla creazione di una rete di contatti tra chi vive i soprusi dell’occupazione all’organizzazione della società  civile. Solidarietà  e comunità  sono due tra le parole che in Palestina non senti mai ma che respiri ogni giorno.

I palestinesi vogliono la pace e tutti ricordano la felicità  provata all’indomani degli accordi di Oslo, che sembravano finalmente porre fine all’occupazione. La realtà  dei fatti dimostra che Israele non aveva alcuna intenzione di restituire la Cisgiordania e Gaza ai palestinesi: in 5 anni sorsero più di cento nuovi insediamenti e il numero dei coloni raddoppia passando da 200 mila a 400 mila unità . Una crescita demografica miracolosa e una esplicita dichiarazione di intenti riguardo la restituzione della terra ai palestinesi.

La situazione oggi, per quello che ho potuto capire io, è sempre molto fluida ed oscilla tra chi predice una nuova Intifada se la situazione non cambierà , e chi invece è convinto che aspettare e costruire una società  civile sia la soluzione migliore.

Tutti però sono d’accordo su una cosa: il primo punto è porre fine all’occupazione della Cisgiordania e di Gaza che dura da 60 anni. Qualunque autorità  che proceda ad accordi con Israele in cui questo non sia il nodo cruciale non rappresenta il popolo palestinese.

Quando lasci Askar, l’unica cosa che i palestinesi ti chiedono è di parlare di ciò che hai visto. Esattamente quello che Israele non vuole. E non è questione di pietà , è in gioco l’affermazione di un principio per tutta l’umanità : nessuno ha il diritto di occupare con la forza una terra e cacciarne gli abitanti. Ecco perché credo che fare parte di un campo di lavoro nei territori occupati costituisca non solo l’occasione di vedere con i propri occhi quale violenza subiscano quotidianamente i palestinesi, ma anche, e soprattutto, la partecipazione ad una forma di resistenza civile nella quale siamo coinvolti tutti.