«Come comandante dell’Isaf nulla mi è più caro della sicurezza e della protezione del popolo afghano». Così si è espresso il generale Stanley McChrystal, il nuovo zar americano di Kabul, rivolgendosi al popolo afghano attraverso gli schermi televisivi. Usando questo linguaggio egli ha tentato di giustificare l’ennesima strage di innocenti compiuta dalle truppe occupanti: l’uccisione, ormai accertata, di 90 civili nel raid di un caccia statunitense F.15. Decine di vittime si sono così aggiunte alle migliaia di morti, mutilati e feriti che sono già agli atti della «sicurezza» e della «protezione» garantite in questi anni dalle milizie dell’Isaf e della Nato all’insegna della loro proclamata missione umanitaria.
Come è noto, Stanley McChrystal è stato nominato comandante delle forze Isaf-Nato da Barack Obama solo di recente, ma sembra che del presidente egli cerchi di mutuare molto rapidamente sia l’ambizione politica che l’enfasi comunicativa. L’ambizione lo spinge a esigere l’invio in Afghanistan di altri 45mila militari americani per rinforzare ulteriormente l’operazione «Colpo di Spada», voluta dal presidente. L’enfasi lo ha indotto a dichiarare che il suo unico obiettivo è di conquistare «la mente e i cuori» degli afghani. Altrettanto persuasivo sarebbe stato Osama bin Laden se dopo la strage terroristica dell’11 settembre avesse promesso al popolo degli Stati Uniti «sicurezza e protezione» e si fosse impegnato a conquistare «le menti e i cuori» degli americani.
In realtà chi conosce minimamente il popolo afghano e ha toccato con mano le sue infinite sofferenze, sa bene che la retorica umanitaria degli occupanti oggi non ha il minimo effetto. Sa bene che gli afghani non dimenticano le migliaia di vittime provocate dalle armi di distruzione di massa usate dagli aggressori a partire dall’ottobre 2001. Stando alle analisi dello studioso americano Marc Herold, almeno 3.700 sono stati i civili uccisi nei tre mesi della prima ondata dei bombardamenti statunitensi. In media 67 persone al giorno.
Il popolo afghano ricorda la strage di almeno 500 detenuti nel carcere di Mazar-i-Sharif e le bombe perforanti sganciate nella regione di Tora Bora e ai piedi delle Montagne Bianche, oltre alle migliaia di tonnellate di bombe Blu-82 sparate dalle cannoniere AC-130, per non parlare dell’ondata di violenza sanguinaria scatenata nel 2006 nel sud Afghanistan dalle truppe Nato. E gli afghani non dimenticano – non potranno mai dimenticare – i micidiali ordigni sparsi sul territorio dalle cluster bombs sganciate dagli Stati Uniti e scambiati dai loro bambini per giocattoli o cibo, perché di colore giallo come le razioni militari. Il popolo afghano ricorderà a lungo le torture di ogni genere, inclusa l’infame waterboarding, praticate da esperti statunitensi in prigioni segrete a Kabul e a Bagram su prigionieri appartenenti all’etnia Pasthun e sospettati di essere terroristi talibani. E non può dimenticare il destino delle centinaia di «nemici combattenti», anch’essi sottoposti a trattamenti disumani, tuttora illegalmente incarcerati negli Stati Uniti – non solo a Guantanamo – e in molti altri paesi.
È dunque una evidente impostura sostenere che la guerra contro i Taliban in atto in Afghanistan è una guerra per la pace, per il benessere del popolo afghano e per la sconfitta del «terrorismo globale». Gli eufemismi umanitari di Barack Obama e dei suoi stretti collaboratori come il generale McChrystal non possono illudere o ingannare nessuno. La guerra in Afghanistan è sempre stata una «guerra terroristica» sotto false apparenze umanitarie ed è tuttora motivata da ragioni strategiche alla luce di una visione egemonica e neo-imperiale del mondo nel contesto dei processi di globalizzazione economica, politica e militare. È una strategia che dopo il crollo dell’Unione sovietica ha portato gli Stati Uniti e i loro alleati a una lunga serie di guerre di aggressione, che non sono state meno crudeli, violente e sanguinarie del global terrorism, e che non lo hanno sconfitto.
Se tutto questo è vero, allora il primo passo politico e teorico da fare dovrebbe essere quello di rivedere in profondità la nozione stessa di «terrorismo internazionale». E domandarsi chi sono i terroristi da combattere, senza escludere l’ipotesi che terroristi siamo anzitutto noi occidentali, inclusi gli italiani.
dal Manifesto – 8 settembre 2009