Uno sguardo al panorama politico alle porte delle elezioni di gennaio

Dopo che per anni aveva occupato il centro del palcoscenico mondiale, l’Iraq è stato eclissato, anzi cancellato. Si tratta in verità di una gigantesca rimozione. L’assassino, malgrado sia ancora sulla scena del delitto, vuole che il mondo dimentichi i propri crimini. L’oblio è la continuazione della guerra con altri mezzi, è l’arnese per far credere che il paese è finalmente pacificato, che quindi quella di Bush è stata una “guerra giusta”. Ma la pace che regna in Iraq è cimiteriale, galleggia sul sangue, e questo nutre spettri che potrebbero tornare sulla scena. Torneremo presto sul problema della sconfitta storica subita dalla Resistenza irachena. Il presente articolo tenta di descrivere la situazione del paese alle porte delle prossime elezioni politiche.

 

Sangue, petrolio e corruzione

A sei anni da “La caduta” (così gli iracheni chiamano il crollo del regime baathista causato dall’invasione americana scattata il 20 marzo 2003) l’Iraq è un ammasso di macerie, una nazione tenuta assieme con lo sputo, sull’orlo dell’implosione. “Le forze americane saranno fuori dell’Iraq entro la fine del 2011, ma si lasciano dietro un paese che è un relitto che galleggia a malapena. La sua società, la sua economia, e il suo stesso paesaggio sono stati fatti a pezzi da 30 anni di guerre, sanzioni e occupazione. (…) Quanti paesi al mondo hanno sopportato traumi di questo genere? (…) Il governo iracheno annuncia con orgoglio che nel maggio 2009 sono stati ammazzati solo 225 iracheni, naturalmente molto meglio dei 3.000 cadaveri torturati che venivano scoperti ogni mese al culmine della guerra nel 2006-7”. (The Indipendent, 23 giugno 2009).
Anche volendo chiamare pace la situazione funerea di cui il governo di al-Maliki va fiero, va detto che egli questa pace armata fino ai denti l’ha comperata, arruolando nelle forze armate quasi seicentomila cittadini e portando i dipendenti statali a ben due milioni (il doppio che ai tempi di Saddam Hussein).
Senza l’ausilio delle truppe occupanti, senza il ricorso al terrore e al pugno di ferro e senza questa vera e propria corruzione a scala industriale la “ristabilizzazione” del paese sarebbe stata impensabile. Questa politica corruttiva fu resa possibile quando il prezzo del petrolio era alle stelle e raggiunse la quota di 140 dollari al barile. Al-Maliki non esitò ad aumentare costantemente gli stipendi. Si tenga conto che un soldato semplice iracheno riceve un salario mensile di 600-700 dollari, una cifra enorme in una società ricacciata all’età della pietra. Per farsi un’idea basti pensare che il poliziotto afghano, per lo stesso lavoro, non riceve più di 120 dollari al mese. A questa massa sterminata di dipendenti pubblici, addetti alla sicurezza e all’amministrazione, vanno aggiunti i circa centomila miliziani sunniti del Sahwa, o “Consiglio del Risveglio”, ovvero dei combattenti della vecchia Resistenza passati armi e bagagli con gli americani, che li hanno infatti iscritti sul loro libro paga ma che ora chiedono al governo di al-Maliki di caricarseli sulle sue spalle. Ma su questo torneremo.

La pace, assicurata dallo sciame sterminato di guardie e sbirri, non è fragilissima solo a causa del fiume di sangue che ha attraversato il paese e che impedisce un accordo politico tra i vari gruppi confessionali, nazionali e politici. La pace è fragile perché il paese, malgrado il conflitto si sia placato, è economicamente devastato: l’economia è in pezzi, e chi non abbia almeno un parente stipendiato dallo Stato soffre, letteralmente, la fame più nera. L’industria nazionale è stata distrutta e non c’è traccia di una sua rinascita. La stragrande maggioranza dei cervelli, centinaia di migliaia di cittadini che rappresentavano l’intelaiatura della società irachena, sono scappati all’estero, anzitutto in Giordania e in Siria (si calcola che gli esuli siano non meno di due milioni, poco meno di un decimo della popolazione, ai quali va aggiunta la sterminata massa di sfollati interni).
L’agricoltura è al collasso, anche a causa di una desertificazione che riguarda il 95% del paese, con la conseguenza che la pianura mesopotamica, il luogo in cui sono nate l’agricoltura e l’irrigazione, è diventata arida. Così l’Iraq è diventato uno dei maggiori importatori di generi alimentari del mondo. Buona parte della popolazione vive in condizioni di totale pauperismo e sopravvive solo grazie ai sussidi  statali, che costano 6 miliardi di dollari l’anno. Un popolo tra i più fieri del Medio Oriente è dunque diventato un popolo di mendicanti e di accattoni, che sopravvive solo grazie alla forsennata dissipazione dei proventi petroliferi.

Ma anche da questo angolo visuale le cose mettono al peggio. Questi proventi stanno vertiginosamente diminuendo, non solo perché il greggio è precipitato dai 140 dollari al barile alla metà di oggi, ma perché la produzione dei grandi giacimenti sta letteralmente crollando. I nove super-giacimenti iracheni, che furono i più produttivi al mondo, sono al collasso a causa di abbandono, gestione catastrofica, investimenti insufficienti. Adesso il governo è al verde, ha bloccato le assunzioni pubbliche e sta negoziano uno standby loan di 5milardi e mezzo di dollari con il FMI. Una cifra dà l’idea del macello sociale: nel giugno scorso la produzione petrolifera era di 2,41 milioni di barili, inferiore ai 2,58 milioni che venivano estratti subito prima dell’invasione americana e ben lontana dai 3 milioni e mezzo del 1979. Certo, l’Iraq continua a galleggiare, oltre che sul sangue, sul petrolio (i giacimenti super-giganti del sud-est formano la più consistente concentrazione conosciuta di tali giacimenti al mondo), ma il petrolio non viene fuori da solo e non fluisce sui mercati grazie alla provvidenza. Occorrono investimenti colossali affinché una risorsa naturale possa trasformarsi in ricchezza, in denaro, e l’Iraq non ha e non avrà la possibilità di trovarli da sé. Ecco quindi che gli squali petroliferi occidentali si sono avventati sulla preda. Il governo al-Maliki, pochi mesi fa, ha assegnato loro contratti  della durata di venti anni, contratti che gli iracheni considerano una vera e propria liquidazione delle risorse strategiche del paese.

Il quadro politico emerso dalle elezioni provinciali

Non si capirebbe niente dell’Iraq odierno se non si tenesse conto che esso è di fatto stato annientato come nazione, che molto più del Libano esso è diventato un paese diviso confessionalmente, con la capitale Baghdad che ha conosciuto la più massiccia e violenta pulizia confessionale dai tempi della divisione tra India e Pakistan. Questo è stato in effetti il primo colossale risultato dell’invasione americana, un risultato cercato e voluto dagli strateghi della Casa Bianca. E da questo dato occorre partire per comprendere l’attuale scenario politico iracheno. Se il Nord è di fatto autoamministrato dai kurdi, fatte salve, sempre a nord, le poche enclavi turcomanne, il resto del paese è stato spezzettato e fatto a brandelli in base a criteri di appartenenza religiosa e omogeneità confessionale. Ogni zona corrisponde ad una setta religiosa, sunnita o shiita, assiro-caldea o mandeo-sabea, yazida o shabak. Gli stessi seggi in parlamento, in stile libanese, sono assegnati anche in base a quote confessionali. Ma da questo quadro occorre partire, come vedremo, per tirare un bilancio storico della Resistenza irachena e della sua sconfitta.
Le elezioni provinciali svoltesi nel gennaio scorso ci corrono in soccorso per decifrare l’intricato panorama politico iracheno.
Il dato più eclatante è l’aumento dell’astensionismo rispetto alle elezioni precedenti: ha votato solo il 51% degli aventi diritto, segno del distacco crescente tra la popolazione e le varie cricche politiche in lizza.
Il secondo dato di grande importanza è che ogni comunità ha votato in maniera massiccia in base al criterio della propria aderenza o alla propria setta religiosa o alla propria comunità nazionale. Gli shiiti hanno votato per le diverse liste shiite, i sunniti hanno fatto altrettanto, i curdi per i candidati curdi. Ne è emerso un quadro politico che il quotidiano iracheno Awat al-Iraq ha definito “spezzatino in salsa provinciale”. Tenendo presente che le elezioni non si sono svolte nelle tre province settentrionali sotto pieno controllo curdo, né in quella di Kirkuk (il dissenso attorno al destino di questa provincia resta uno dei motivi decisivi dell’attrito ormai ossificato tra arabi e curdi), nelle restanti 14 province in cui si è votato hanno ottenuto seggi ben 20 liste, molte delle quali di coalizione, il che indica quanto disgregato sia lo scenario politico iracheno.

L’analisi del voto mette in luce alcuni dati salienti. 1) Il primo è l’affermazione della coalizione che fa capo al premier Nuri al-Maliki, l’Alleanza per lo Stato di Diritto, una coalizione al novanta per cento composta di candidati shiiti non ubbidienti a Teheran e il cui perno è il partito Dawa (di cui il braccio armato è Shahid al-Sadr). Ma questa vittoria è stata, rispetto alle previsioni, ben più modesta del previsto. Di fatto al-Maliki ha conquistato la maggioranza assoluta solo a Baghdad e Bassora. In tutte le altre province la lista di al-Maliki o è stata costretta a coalizzarsi per governare o è stata costretta a sedere tra i banchi dell’opposizione. 2) Il secondo dato vistoso è stata la batosta subita dal partito shiita del Consiglio Supremo Islamico Iracheno di Abdel Aziz al-Hakim (ex SCIRI, il cui famigerato braccio armato è al-Badr), quello notoriamente più vicino a Teheran. Basti pensare che il Consiglio controllava la provincia di Baghdad e adesso ha solo 3 seggi.  3) Il terzo dato è la modesta affermazione della lista che fa riferimento a Moqtada al-Sadr, il Movimento Indipendente del Popolo Libero, che è comunque ago della bilancia per formare i governi in diverse province. 4) Il quarto è stata la nettissima affermazione delle liste sunnite nelle province in cui i sunniti sono la grande maggioranza, anzitutto ad al-Anbar e a Ninive. Salta agli occhi comunque lo sparpagliamento dei sunniti, divisi tra liste islamiste (Partito Islamico dell’Iraq), laico-nazionaliste (il Fronte Iracheno per il Dialogo Nazionale di Salah al-Mutlak) e quelle tribali  legate agli sceicchi locali facenti capo al cosiddetto Movimento del Risveglio (al-Sawa). 5) Ultimo, ma non meno importante: la sonora sconfitta non solo del Congresso Nazionale Iracheno di Ahmad Chalabi (l’agente diretto di Bush e del Pentagono), ma pure della lista Lista Nazionale Irachena di Eyad Allawi (che fu il primo ministro fantoccio installato dagli occupanti nel maggio 2004), sconfitta che paga a salato prezzo pure il suo più fido alleato, il cosiddetto Partito Comunista Iracheno.

Verso le prossime elezioni politiche

Il 16 gennaio 2010 si svolgeranno, parallelamente al referendum sulla presenza delle truppe americane, le elezioni politiche per eleggere il parlamento, che a sua volta dovrà scegliere sia il presidente che il primo ministro.
Ricordiamo il carattere fraudolento delle precedenti elezioni del dicembre 2005, organizzate mentre la battaglia della Resistenza irachena contro gli occupanti e loro alleati toccava il suo apice. Che fossero state elezioni fraudolente non c’è ormai alcun dubbio e non solo per l’astensione pressoché  totale delle popolazioni delle zone sunnite. I dati sull’affluenza alle urne, come ormai ammesso da più parti, furono deliberatamente truccati, non foss’altro perché non esisteva al tempo alcun attendibile registro nazionale degli aventi diritto. Inizialmente i media, imbeccati dal Pentagono, parlarono di una percentuale di votanti del 72% che poi scese al 59%. In realtà nessuno saprà mai quella effettiva, come non si saprà mai l’ampiezza delle frodi.
Fatto sta che in quelle elezioni gli shiiti e i curdi fecero man bassa dei seggi in parlamento, ottenendone circa 220 su un totale di 275. Da solo il variegato blocco dei partiti shiiti, col nome di Alleanza Irachena Unita, con il determinante sostegno del grande Ayatollah al-Sistani, ottenne ben 128 seggi. Facevano parte dei questo blocco una ventina di partiti, tra cui alcuni leaders vicini a Moqtada al-Sadr, ma l’egemonia andava ai due partiti predominanti, entrambi legati a vario titolo a Teheran. Quali? Anzitutto il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq (SCIRI) di Abdul Aziz al-Hakim, e il Partito Islamico Dawa, guidato da Ibrahim al-Jaffari e Nuri al-Maliki.

Il fatto saliente della campagna elettorale ormai in corso è la definitiva spaccatura del blocco shiita, ovvero dell’Alleanza Irachena Unita. Sfruttando la sua posizione di forza come premier, confortato dal successo della sua lista alle recenti amministrative, al-Maliki ha annunciato che si presenterà alle prossime elezioni con una sua lista, in contrapposizione al Consiglio Supremo Islamico Iracheno di Abdel Aziz al-Hakim (ex SCIRI). Che questa mossa fosse nell’aria si era capito da alcuni mesi, sin da quando il vecchio numero uno Ibrahim al-Jaffari era stato estromesso dal Partito Islamico Dawa.
Due le ragioni della rottura di al-Maliki coi suoi tradizionali alleati del Consiglio Supremo: questi ultimi hanno respinto al mittente la pretesa di al-Maliki di detenere la posizione di guida del blocco shiita. In secondo luogo, mentre il Consiglio Supremo rivendica apertamente la sua natura di partito confessionale, il Dawa ha mitigato il suo profilo religioso e punta a gettare un ponte alle forze nazionaliste sunnite, compresa l’area ex-baathista raggruppata nel Consiglio del Risveglio (anzitutto la corrente dello sceicco Ahmed Abu Risha). Un sintomo inequivocabile di questo riposizionamento sono i dissidi sempre più gravi insorti negli ultimi mesi con i curdi, non solo sullo status della città di Kirkuk, ma sulla portata dell’autonomia delle regioni curde.
Per tutta risposta il Consiglio Supremo, preso atto della spaccatura con il Dawa, ha lanciato ad agosto una nuova coalizione, la Alleanza Nazionale Irachena (al-Ittilaf al-Watani al-Iraqi). La nuova alleanza proclama anch’essa di essere aperta, ma resta sostanzialmente un blocco shiita. Oltre ad Ibrahim al-Jaffari, e a partiti minori, hanno dichiarato di entrare nell’Alleanza Nazionale Irachena i sadristi e, pensate un po’, Ahmed Chalabi, che da uomo del Pentagono ora ostenta i suoi ottimi legami con l’Iran.

In pieno movimento è anche il fronte sunnita, che sta conoscendo vistosi riposizionamenti tattici.
Quello che era considerato il principale partito sunnita, il Partito Islamico dell’Iraq-Fronte dell’Accodo Iracheno (a suo tempo la sezione irachena dei Fratelli Musulmani), conosce un sostanziale declino. La sua partecipazione al governo di al-Maliki, il suo appoggio alle istituzioni fantoccio messe in piedi dagli americani dopo l’invasione (ha fatto parte sia del Governo ad interim messo su dal Pentagono che del Governo Transitorio nato nel maggio 2005) ed infine il suo rigido carattere confessionale sunnita hanno ridimensionato molto la sua influenza.
Decisive sono invece le manovre in atto nell’area del Sahwa, ovvero nel Fronte del Risveglio, forte di ampio sostegno tra i sunniti sia a Baghdad che in al-Anbar. Pienamente legittimato come movimento politico legale per essere passato con gli americani allo scopo di dare la caccia ai jihadisti salafiti-takfiriti, il Fronte del Risveglio non è in verità che un blocco alquanto eterogeneo tenuto assieme, più che da comuni principi politici, dal patto di cooperazione di alcuni  potenti sceicchi e capi tribù, pressoché gli stessi che hanno sostenuto fino alla fine il regime baathista di Saddam Hussein. Tre gli elementi comuni che tuttavia caratterizzano questo fronte: il nazionalismo, il rifiuto del confessionalismo e, di conseguenza, delle quote confessionali nelle istituzioni.
In vista delle elezioni alcuni sceicchi e capitribù hanno annunciato di voler correre alle elezioni con un’alleanza che s’è data il nome di Bandiere dell’Iraq (Bayariq al-Iraq). Rifiuto delle quote confessionali e della lottizzazione partitica e appello all’unità nazionale: questi sono i punti qualificanti della neonata alleanza. Uno dei leader è lo sceicco Ali al-Hatim, portavoce della potente tribù dei Dulaimi e leader di uno dei tanti gruppi politici sunniti, il Fronte Nazionale per la Salvezza dell’Iraq. Al-Hatim ha annunciato che della sua alleanza fanno già parte una ventina di gruppi e varie tribù, nonché l’uomo politico più votato a Kerbala, Yusuf al-Habubi. Al-Hatim non ha escluso l’ipotesi di alleanze più ampie, ma si è ben guardato dall’indicare quali.
Da Bandiere dell’Iraq restano tuttavia fuori due rappresentanti di spicco della comunità sunnita: lo sceicco Hamid al-Haiss, leader del Consiglio di Salvezza di al-Anbar, che a sorpresa ha addirittura aderito alla Alleanza Nazionale Irachena, e Thamir al-Tamimi, noto esponente guerrigliero e al tempo ricercato dell’Esercito Islamico in Iraq, che da tempo è passato a fare il consigliere del governo di al-Maliki. L’eventuale passaggio dell’ex comandante dell’Esercito Islamico con Bandiere dell’Iraq (ritenuto molto probabile dal quotidiano al-Hayat), grazie all’influenza di cui gode tra i sunniti, darebbe un grande slancio alla neonata alleanza.

Mentre gli “eserciti” elettorali si sono ormai schierati, il cosiddetto Partito Comunista Iracheno è alla disperata ricerca di partners elettorali. Il suo segretario Hamid Majid Musa (che ricordiamo, con gli auspici di Bush, nel 2003 – 2004, dopo l’invasione, fu ministro nel governo fantoccio) ha di recente annunciato che non rientrerà a far parte della Lista Nazionale Irachena guidata dal famigerato Allawi, confermando che la separazione da Allawi è determinata dal rifiuto dei “comunisti” di far parte di una coalizione su basi confessionali, come da quello del sistema delle quote.

Che le imminenti elezioni, con la probabile vittoria di al-Maliki, possano davvero stabilizzare il paese non lo crede nessuno dei media iracheni e arabi indipendenti più autorevoli. Non lo pensiamo nemmeno noi. Ai nodi irrisolti, sociali e politici, su cui è sospeso il paese, si aggiungono fattori regionali e internazionali di tensione che tendono a rendere quei nodi esplosivi.