Il dibattito strategico nel Partito Comunista Unificato del Nepal (maoista)
Il 25 dicembre il Primo ministro nepalese Madhav Kumar, leader del secondo Partito del paese, il Partito Comunista del Nepal (Unificato Marxista-Leninista), notoriamente filo-indiano, partiva in visita ufficiale a Pechino. Due gli scopi della visita: spiegare a Pechino che i loro investimenti sono i benvenuti, ma anche che Nuova Delhi si opporrà con ogni mezzo a che il Nepal sia satellizzato dalla Cina. Nelle stesse ore i rivoluzionari del Partito Comunista Unificato del Nepal (maoista), quello di Prachanda, assieme ad altri piccoli raggruppamenti comunisti nepalesi, celebravano il 116° anniversario della nascita di Mao Zedong. Durante queste celebrazioni ha lasciato il segno una dichiarazione del vice-segretario dei maoisti. Mohan Baidya, alias “Kiran”. Parlando a nuora perché suocera intendesse, “Kiran” — che come segnalavamo ai lettori è anche il leader dell’ala dura del PCUN(m), quella critica della linea Prachanda e che pare essere maggioritaria — ha perentoriamente affermato che la recente ondata di proteste che stanno scuotendo da novembre il paese sono rivolte non solo “contro un governo e un presidente incostituzionali”, ma pure contro “l’espansionismo indiano e per la piena sovranità nazionale”.
Nuova ondata di proteste
Nel maggio scorso il leader maoista Prachanda fu costretto a rassegnare le dimissioni da primo ministro. Ne dammo prontamente conto denunciando quanto decisive fossero state le pressioni di Nuova Delhi. Da allora questo piccolo ma straordinario paese è in preda a nuove convulsioni sociali destinate ad aumentare.
Dopo le grandi manifestazioni di giugno, promosse dal partito di Prachanda, i mesi di novembre e dicembre sono stati segnati dall’irruzione sulla scena di un nuova massiccia rivolta popolare. A partire da novembre i maoisti, sostenuti dalla fitta rete di organismi sociali, sindacali e politici che egemonizzano, hanno promosso non solo manifestazioni in tutto il paese, ma una serie di scioperi generali che hanno letteralmente paralizzato il paese. Non si tratta soltanto di un blocco delle aziende, pubbliche e private. Nel sub-continente indiano lo chiamano “Hartal”, uno sciopero generale imperniato su picchetti, ronde popolari e cortei che bloccano a macchia di leopardo le strade e le vie di comunicazione, che impongono la chiusura a tutti gli esercizi commerciali, nonché a tutti gli uffici pubblici, compreso il Parlamento. Insomma, uno sciopero generale vero, sem-insurrezionale. La polizia, agli ordini del governo, ha risposto spesso duramente, come quando venerdì 4 dicembre ha ucciso tre contadini che occupavano “illegalmente” delle terre. In risposta a queste uccisioni, il giorno dopo, i manifestanti hanno attaccato stazioni di polizia, incendiato mezzi di trasporto, attaccato i negozi che erano restati aperti.
Gli scontri, durissimi, si sono ripetuti durante lo sciopero generale “Hartal” di tre giorni (17,18 e 19 dicembre), sciopero politico nel senso più classico perché indetto per chiedere le dimissioni del Presidente della repubblica, accusato di non applicare la decisione formale del governo di esautorare il capo delle forze armate e di sabotare gli accordi dell’anno passato che prevedevano di democratizzare l’Esercito incorporando in esso gli ex-guerriglieri maoisti.
Il dibattito in seno al partito maoista
In queste altamente critiche circostanze il partito di Prachanda, il PCUN(m), mentre resiste con ogni mezzo al tentativo dei suoi avversari politici nepalesi di ridimensionare la sua forza e di normalizzare la situazione (il tutto col pieno sostegno di Nuova Delhi), si interroga sulla strategia da seguire.
Ne parlavamo esattamente un anno fa, quando la disputa interna al partito maoista divenne di dominio pubblico e le critiche alla linea di Prachanda vennero apertamente a galla. L’ala dissidente, che molti davano addirittura per maggioritaria, era guidata, come detto, dal vice-segretario “Kiran”, secondo i quale, dato il fallimento della scelta tattica della competizione sul piano democratico, il partito si sarebbe dovuto preparare a ritornare alla lotta armata per conquistare tutto il potere.
Questo non deve far pensare che la linea proposta da Prachanda consistesse in una specie di “riformismo legalitario”. Per niente. In più interviste Prachanda chiariva che la sua fondamentale preoccupazione fosse quella di assicurare il successo della rivoluzione democratica e antimperialista nepalese. Il problema, di squisita natura strategica, era quello di indicare attraverso quali passaggi tattici si sarebbe potuta ottenere la vittoria finale. Per Prachanda occorreva evitare ogni fuga avventuristica, scegliendo una linea che assicurasse al partito una sostanziale egemonia tra le masse popolari. La domanda che Prachanda poneva ai suoi era: ammesso che possiamo conquistare tutto il potere con una generale prova di forza, come potrà uno stato rivoluzionario sopravvivere in condizioni di accerchiamento? Come potrà resistere, un governo rivoluzionario in un paese debole, alla certa aggressione indiana?
Scambiare queste giuste e realistiche preoccupazioni per una specie di “linea gradualistica e legalitaria” sarebbe quanto di più sbagliato.
Negli ultimi mesi, mentre il partito all’esterno si mostra determinato a sviluppare l’opposizione al governo centrale facendo leva, non su azioni minoritarie ma sulla massiccia mobilitazione delle masse; al suo interno il dibattito e il confronto fra le due linee non si è fermato. La diatriba deve essere diventata altamente teorica, investe la strategia del partito e deve avere sfiorato la vexata quaestio del “socialismo in un paese solo”.
Una prova, secondo noi, è data dalla recente (agosto) intervista rilasciata al World Poeple’s Resistance Movement da Baburam Bhattarai, fino ad un anno fa membro eminente dell’Ufficio politico del PCUN(m) ma ora in posizione sostanzialmente minoritaria. In attesa di pubblicarla integralmente in lingua italiana, ci pare doveroso riportarne l’ultimissima parte. Leggiamo.
«D. Vista la situazione di continue pressioni e la possibilità di un intervento degli imperialisti americani e degli espansionisti indiani, pensi che il socialismo in un solo paese possa svilupparsi in Nepal?
R. Baburam Bhattarai. La questione è teorica e deve essere dibattuta. Siamo nell’era dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria. L’imperialismo consiste in uno sviluppo ineguale e combinato, così la rivoluzione in un singolo paese, non è solo possibile ma un dovere, dal momento che una rivoluzione simultanea in tutto il mondo è impossibile. Questo è un punto cardinale del leninismo, che resta valido e che dobbiamo ben comprendere. Ma nello specifico caso di un piccolo paese come il Nepal, schiacciato da grandi paesi come l’India o la Cina e soggiogato dall’imperialismo USA, se tu non hai appoggio, un appoggio internazionale, se non c’è un forte movimento rivoluzionario internazionale, sarà davvero difficile sviluppare la rivoluzione. Sarà forse possibile portare avanti una rivoluzione per strappare il potere statale, ma per mantenere questo potere statale e procedere verso il socialismo e il comunismo c’è bisogno del sostegno del movimento proletario internazionale. Per questo il grado di appoggio e di solidarietà internazionale è importante. Oggi siamo in un contesto mondiale pienamente globalizzato, in cui l’imperialismo raggiunge ogni angolo del mondo. Se non c’è una forte organizzazione proletaria per combattere contro l’interventismo imperialistico, sarà davvero difficile una rivoluzione in un piccolo paese.
Quindi, se per noi resta un dovere fare la rivoluzione nel nostro paese, dobbiamo sapere che per sostenerla e svilupparla noi abbiamo bisogno dell’appoggio delle forze proletarie internazionali. Per questo dobbiamo dare più importanza ad internet e ai legami con la comunità internazionale. Questo è tanto più importante per un paese piccolo come il Nepal. Infatti, nei mesi scorsi, noi abbiamo discusso la questione».
Affermazioni importanti, che fanno premio dell’intelligenza, dell’esperienza e della cultura politica dei compagni nepalesi, che a torto, gli spocchiosi intellettuali occidentali hanno dipinto come trinaciruti stalinisti o maoisti d’antan. Che Baburam Bhattarai affermi poi, proprio mentre il paese sembra ri-precipitare nella guerra civile, l’importanza di una discussione sulla centralità del sostegno internazionale, o addirittura sulla staliniana teoria del “socialismo in un paese solo” (lui lascia intendere che forse andava bene per un grande paese come la Russia ma non certo per il Nepal) è tanto più significativo e indice del tipo di dialettica interna tra la “linea dura” e quella “morbida”. Ove Baburam Bhattarai, pur su posizioni autonome, è in quota della “linea morbida” di Prachanda.
A queste affermazioni si debbono aggiungere quelle che Baburam Bhattarai avrebbe pubblicato su un giornale nepalese di estrema sinistra. Quali affermazioni? Queste: «Oggi la globalizzazione del capitalismo imperialista è aumentata notevolmente se confrontata con quella dei tempi della rivoluzione d’Ottobre. Lo sviluppo dell’information technology ha trasformato il paese in un villaggio globale. Tuttavia, a causa dello sviluppo combinato e diseguale intrinseco all’imperialismo capitalista, ciò ha creato disuguaglianza tra le diverse nazioni. In questo contesto ci sono ancora (alcune) possibilità di rivoluzioni in singoli paesi come la rivoluzione d’Ottobre; ma per sostenere la rivoluzione abbiamo decisamente bisogno di un’ondata rivoluzionaria globale o quanto meno regionale in un paio di paesi. I marxisti rivoluzionari dovrebbero riconoscere che nel contesto attuale il trotskismo è diventato più efficace dello stalinismo per l’avanzamento della causa del proletariato». (La scintilla rossa, luglio 2009, n° 1, pag.10,)
Come si vede esse fanno il paio e sono in linea con quelle dell’intervista da noi citata più sopra. Certo non è di poco conto che un dirigente maoista di spicco faccia un elogio del trotskysmo e affermi che “I marxisti rivoluzionari dovrebbero riconoscere che nel contesto attuale il trotskismo è diventato più efficace dello stalinismo per l’avanzamento della causa del proletariato”.
Consigliamo tuttavia prudenza a chi vuole ad ogni costo interpretare la dialettica interna al PCUN(m), come la tradizionale disputa tra trotskysti e stalinisti. Lo ha fatto ad esempio nel suo sito Falce e Martello, lanciando un titolo scoop quanto aleatorio “Il Partito Comunista del Nepal riconosce il ruolo di Leon Trotskij”.
Anzitutto le opinioni di Baburam Bhattarai non sono quelle ufficiali del partito. Anzi, non lo sono per niente. Baburam Bhattarai è sostanzialmente isolato dai maoisti ortodossi del partito, per quelli della “linea dura” di Kiran egli esprime addirittura “deviazioni piccolo borghesi e democraticiste”. Lo stesso Prachanda sembra non l’abbia voluto difendere nel novembre dell’anno passato, in occasione del grande scontro interno. A causa delle divergenze, durante il periodo della lotta armata, egli venne addirittura messo dal partito in stato d’arresto. In secondo luogo vorremmo ricordare a coloro i quali continuano ad osservare il mondo attraverso le lenti appannate della loro fede settaria, che le posizioni di Baburam Bhattarai sono perfettamente compatibili con un maoismo non ossificato (vedi il nostro articolo su Lin Biao).
Falce e Martello infatti utilizza strumentalmente queste affermazioni di Baburam Bhattarai chiosando con il prevedibile pistolotto sullo scontro tra stalinismo e trotskysmo e sul fatto che quest’ultimo avesse ragione. Un classico! Neanche una parola sulla questione essenziale su cui Baburam Bhattarai affronta l’ostracismo del suo partito: quali mosse e quale politica dovrebbero compiere oggi concretamente i rivoluzionari in Nepal? Delle sorti di un paese e di un intero popolo, certi “trotskysti”, se ne fregano bellamente, a loro interessa di più incensare il loro fondatore.
Non li sfiora nemmeno l’idea che Baburam Bhattarai affermi quello che afferma non nella logica della conquista ad ogni costo e a qualsiasi prezzo del potere statale da parte del partito rivoluzionario (dittatura del proletario e rivoluzione socialista, che per Trotsky erano la risposta passpartout valida ad ogni latitudine), bensì nella logica maoista della “nuova democrazia” per cui, una rivoluzione in un paese arretrato, in assenza di una rivoluzione internazionale o almeno regionale, non dovrebbe instaurare immediatamente un regime socialista, ma passare per l’anticamera di un regime necessariamente fondato sull’alleanza ampia tra tutte le diverse classi sociali “progressive” e patriottiche interessate a battere l’imperialismo e i suoi lacchè interni.