Lo Yemen nel mirino

La nuova tappa della guerra infinita Bush-Obama

Ieri, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno deciso di chiudere le loro ambasciate nello Yemen. Siamo senza dubbio alla vigilia di un attacco, anche se al momento è impossibile prevederne la portata. In realtà lo Yemen è stato oggetto di pesanti bombardamenti americani già nelle scorse settimane (vedi Yemen: gli Usa intervengono nel conflitto), l’attesa ora è dunque per una escalation.
Il motivo ufficiale sarà ancora una volta l’interminabile caccia ad al Qaeda ma, come argomenta Rick Rozoff nell’articolo che segue – e come si evince dai nostri articoli pubblicati in precedenza – si tratterà soltanto di un pretesto. Da notare che lo scritto di Rozoff è antecedente al fallito attentato contro il volo Delta 253 utilizzato ora da Obama come casus belli.

La verità è che gli Stati Uniti intervengono nello Yemen in primo luogo per sostenere il traballante e corrotto governo di San’a, messo in difficoltà sia dalla guerriglia degli Houthi al nord che dalle proteste popolari al sud; in secondo luogo per insediarsi anche in questo lembo meridionale della penisola arabica, la cui posizione strategica risulta chiara ad un semplice sguardo alla carta geografica.

Yemen: la guerra del Pentagono nella penisola Araba

di Rick Rozoff

Il 14 dicembre la BBC News ha riferito che 70 civili erano rimasti uccisi nel corso di un bombardamento aereo effettuato sul mercato del villaggio di Bani Maan, nel nord dello Yemen.
Le forze armate nazionali si sono assunte la responsabilità dell’attacco, ma un sito web dei ribelli Houthi, contro i quali l’attacco era presumibilmente diretto, ha affermato che “aerei sauditi hanno compiuto un massacro contro gli innocenti abitanti di Bani Maan”.

Il regime saudita si è inserito, ai primi di novembre, nel conflitto armato tra i suddetti Houthi e il governo dello Yemen, a sostegno di quest’ultimo, e da allora è accusato di aver condotto attacchi all’interno dello Yemen con carri armati e aerei da guerra. Anche prima di quest’ultimo bombardamento, moltissimi yemeniti erano già stati uccisi e altre migliaia erano stati costretti alla fuga dai combattimenti. L’Arabia Saudita è anche accusata di aver utilizzato bombe al fosforo. Inoltre, il gruppo ribelle noto come Giovani Credenti, con base nella comunità musulmana sciita dello Yemen che comprende il 30% dei 23 milioni di abitanti del paese, ha dichiarato il 14 dicembre che “jet da combattimento americani hanno attaccato la provincia di Sa’ada nello Yemen” e che “jet statunitensi hanno compiuto 28 attacchi contro la provincia nordoccidentale di Sa’ada”. 
L’edizione del britannico Daily Telegraph uscita il giorno precedente riferiva di colloqui con funzionari militari statunitensi, affermando: “Nel timore che lo Yemen non riesca a fronteggiare la situazione, l’America ha inviato un piccolo numero di gruppi di forze speciali per addestrare l’esercito yemenita contro questa minaccia”. Veniva citato un anonimo funzionario del Pentagono, il quale avrebbe affermato: “Lo Yemen sta diventando una base di riserva di Al Qaeda per le sue attività in Pakistan e Afghanistan”.

L’evocazione del babau di Al Qaeda è comunque uno specchietto per le allodole. I ribelli del nord dello Yemen, infatti, sono sciiti e non sunniti, tantomeno sunniti wahabiti della varietà saudita, e pertanto non solo non possono essere ricollegati a nessun gruppo definibile come Al Qaeda, ma ne costituirebbero eventualmente un probabile bersaglio.
In ossequio ai progetti statunitensi sulla regione, la stampa americana e britannica ha di recente iniziato a parlare dello Yemen come della “patria ancestrale” di Osama Bin Laden. Certo, Bin Laden viene da una ben nota famiglia di miliardari dell’Arabia Saudita, ma poiché suo padre era nato più di un secolo fa in quella che è oggi la Repubblica dello Yemen, i media occidentali hanno iniziato a sfruttare questo irrilevante accidente storico per suggerire che Osama Bin Laden avrebbe un ruolo attivo all’interno della nazione e per creare un sottile legame tra le guerre in Afghanistan e Pakistan e l’intervento americano e saudita nella guerra civile dello Yemen.

Nel 2002 il Pentagono aveva inviato circa 100 soldati – secondo alcune fonti, forze speciali dei Berretti Verdi – nello Yemen, allo scopo di addestrare le forze militari del paese. In quell’occasione, verificatasi due anni dopo l’attacco suicida – attribuito ad Al Qaeda – contro la nave USS Cole di stanza nel porto di Aden, nello Yemen meridionale, e accompagnata da attacchi missilistici contro leader della stessa organizzazione, Washington giustificò le proprie azioni come ritorsione contro quell’incidente e contro gli attacchi a New York e Washington dell’anno precedente.

Il contesto attuale è assai diverso e una guerra antirivoluzionaria nello Yemen, sostenuta dagli USA, non avrebbe nulla a che fare con le presunte minacce di Al Qaeda, ma sarebbe parte integrante di una strategia per estendere la guerra afgana in cerchi concentrici sempre più vasti che comprendano l’Asia meridionale e centrale, il Caucaso e il Golfo Persico, il Sud-Est Asiatico e il Golfo di Aden, il Corno d’Africa e la Penisola Araba. La tanto attesa dipartita del presidente George W. Bush avrà anche portato la fine della guerra al terrorismo ufficiale, ora definita “operazioni del contingente oltremare”, ma nulla è cambiato, a parte il nome.
Il 13 dicembre il Gen. David Petraeus, ufficiale supremo del Comando Centrale del Pentagono, a capo delle operazioni belliche in Afghanistan, Iraq e Pakistan, ha dichiarato alla TV Al –Arabiya che “gli Stati Uniti sostengono la sicurezza interna dello Yemen nell’ambito della cooperazione militare fornita dall’America ai suoi alleati nella regione” e ha sottolineato che “le navi americane che navigano nelle acque territoriali dello Yemen, [sono lì] non solo per svolgere funzioni di controllo, ma per impedire i rifornimenti di armi ai ribelli Houthi”.
Ricordiamocelo la prossima volta che la panzana di Al Qaeda/Bin Laden verrà usata per giustificare l’estensione del coinvolgimento militare americano nella Penisola Araba.
Lo Yemen Post del 13 dicembre riferiva che l’ufficio centrale dei ribelli Houthi aveva “accusato gli Stati Uniti di partecipare alla guerra contro gli Houthi” e aveva rilasciato fotografie di aerei militari americani “impegnati in operazioni di bombardamento contro la provincia di Sa’ada, nel nord dello Yemen”. La fonte stimava che vi fossero stati almeno venti raid americani coordinati attraverso la sorveglianza satellitare.

La stampa occidentale sta partendo di nuovo alla carica nel collegare gli Houthi, il cui background religioso di sciismo zaidita è molto diverso da quello iraniano, con le sinistre macchinazioni attribuite a Teheran. Nemmeno i funzionari del governo americano sono riusciti finora a raccogliere alcuna prova che l’Iran stia appoggiando, o addirittura armando, i ribelli dello Yemen. Questo cambierà se la sceneggiatura andrà avanti secondo i canoni consueti, come indicato dal commento di Petraeus riportato più sopra, e se Washington farà conveniente eco ai proclami del governo yemenita, secondo il quale l’Iran starebbe rifornendo di armi i suoi confratelli sciiti dello Yemen, così com’è accusato di fare in Libano.

Lo Yemen diventerà il campo di battaglia di una guerra per interposta persona tra Stati Uniti e Arabia Saudita da una parte – le cui relazioni politiche sono tra le più forti e durevoli dell’epoca successiva alla II Guerra Mondiale – e l’Iran dall’altra.
In un editoriale di cinque giorni fa, il Tehran Times accusava tutti i soggetti in conflitto nello Yemen – il governo, i ribelli e l’Arabia Saudita – di avventatezza e lanciava un avvertimento: “La storia ci fornisce un buon esempio. L’Arabia Saudita ha finanziato i gruppi estremisti in Afghanistan e ancora oggi, due decenni dopo il ritiro dell’armata sovietica dal paese, le fiamme della guerra in Afghanistan stanno devastando gli alleati dell’Arabia Saudita. Uno scenario simile sta ora emergendo nello Yemen”.
Il paragone tra lo Yemen e l’Afghanistan si riferiva soprattutto a Riyadh, nel secondo caso alleata di ferro degli Stati Uniti, e al suo tentativo di esportare il wahabismo di matrice saudita per espandere la propria influenza politica. L’Arabia Saudita sta cercando di promuovere una propria versione dell’estremismo nello Yemen, come ha già fatto in Afghanistan e Pakistan e come sta attualmente facendo in Iraq. Senza che né gli Stati Uniti né i loro alleati occidentali esprimano la minima obiezione, i sauditi e le monarchie loro alleate del Golfo Persico si troveranno al centro, nei prossimi cinque anni, di un commercio di armamenti, stimato per un valore di circa 100 miliardi di dollari, dai paesi occidentali verso il Medio Oriente. “Il fulcro di questo commercio di armamenti sarà senza dubbio il pacchetto di sistemi militari da 20 miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno offerto nei prossimi 10 anni ai sei stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar e Bahrain”. L’Arabia Saudita dispone anche di aerei da guerra francesi e britannici di ultima generazione, nonché di sistemi di difesa antimissile forniti dagli americani.

L’avvertimento sulle “fiamme della guerra” in Afghanistan, contenuto nel commento iraniano citato più sopra, è stato confermato alla lettera nella Valutazione Iniziale del Comando del 30 agosto 2009, rilasciata dal Generale Stanley McChrystal, comandante in capo delle forze americane e NATO in Afghanistan e pubblicato dal Washington Post il 21 settembre con le correzioni richieste dal Pentagono. Questo documento di 66 pagine è servito da punto di riferimento per l’annuncio fatto il 1° dicembre dal presidente Barack Obama, con cui si destinavano all’Afghanistan altri 33.000 soldati americani. Nel suo rapporto McChrystal affermava: “I gruppi ribelli più rilevanti in relazione al rischio che rappresentano per la missione sono: i talebani Quetta Shura (05T), la rete di Haqqani (HQN) e lo Hezb-e Islami Gulbuddin (HiG).”
Gli ultimi due prendono il nome dai loro fondatori e attuali leader, Jalaluddin Haqqanni e Gulbuddin Hekmatyar, i mujaheddin coccolati dalla CIA americana negli anni ’80, quando il direttore dell’Agenzia (dal 1986 al 1989) era Robert Gates, oggi Segretario della Difesa USA, incaricato di proseguire la guerra in Afghanistan. E nello Yemen.

Nel suo libro del 1996, “From the Shadows”, Gates si vantava del fatto che “la CIA ha ottenuto importanti successi nelle covert actions. Forse la più efficace di tutte è stata quella in Afghanistan, dove la CIA, attraverso i suoi funzionari, ha destinato miliardi di dollari ai rifornimenti di materiale e di armi per i mujaheddin…”. Nel 2008, il New York Times rendeva noti i seguenti dettagli:
“Negli anni ’80, Jalaluddin Haqqani venne coltivato come un patrimonio “unilaterale” della CIA e ricevette decine di migliaia di dollari in contanti per il suo impegno nella lotta contro l’Esercito Sovietico in Afghanistan, stando a quanto riportato in “The Bin Ladens”, un recente libro di Steve Coll. A quel tempo, Haqqani aveva aiutato e protetto Osama Bin Laden, che stava mettendo insieme una propria milizia per combattere le forze sovietiche, scrive Coll. Coll è anche autore del volume Ghost Wars: The Secret History of the CIA, Afghanistan, and Bin Laden, from the Soviet Invasion to September 10, 2001.
Hekmatyar, collega di Haqqani, “ricevette milioni di dollari dalla CIA, attraverso l’ISI [il Servizio d’Intelligence Pakistano]. Hezb-e-Islami Gulbuddin ricevette alcuni dei più sostanziosi aiuti da parte di Pakistan e Arabia Saudita e lavorò con migliaia di mujaheddin stranieri arrivati in Afghanistan”.
Nel maggio scorso il (ferventemente) filo-americano presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, aveva detto alla NBC americana che “i talebani sono parte del nostro e del vostro passato, l’ISI e la CIA li hanno creati insieme. (I talebani) sono un mostro creato da tutti noi…”

L’11 settembre 2001 c’erano solo tre nazioni del mondo che riconoscevano il governo dei talebani in Afghanistan: Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Subito dopo gli attacchi, il presidente George W. Bush identificò immediatamente sette dei cosiddetti “Stati fiancheggiatori del terrorismo” per potenziali ritorsioni:  Cuba, Iran, Iraq, Libia, Corea del Nord, Sudan e Siria. Dei 19 dirottatori accusati di aver condotto gli attacchi dell’11 settembre, 15 erano dell’Arabia Saudita, 2 degli Emirati Arabi Uniti, uno dell’Egitto e uno del Libano. Pakistan e Arabia Saudita restano alleati politici e militari di grande valore per l’America e gli Emirati Arabi hanno truppe che servono in Afghanistan sotto il comando della NATO.
E’ forse impossibile stabilire il momento esatto in cui un sedicente combattente della guerra santa, appoggiato dagli USA, addestrato per compiere azioni di terrorismo urbano e per abbattere aerei civili, cessa di essere un combattente per la libertà e diventa un terrorista. Ma si può presumere con una certa sicurezza che ciò avviene quando egli non è più utile a Washington. Un terrorista che serve gli interessi americani è un combattente per la libertà; un combattente per la libertà che si rifiuta di farlo, è un terrorista.

Per decenni l’African National Congress di Nelson Mandela e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat sono stati in cima alla lista dei gruppi terroristici compilata dal Dipartimento di Stato. Ma la Guerra Fredda era appena finita che già tanto Mandela quanto Arafat (come pure Gerry Adams del Sinn Fein) venivano invitati alla Casa Bianca. Il primo ricevette il Nobel per la pace nel 1993, il secondo nel 1994.

Se negli anni ’80 un ipotetico militante jihadista fosse partito dall’Arabia Saudita o dall’Egitto per andare in Pakistan a combattere contro il governo dell’Afghanistan e i suoi alleati sovietici, agli occhi degli Stati Uniti egli sarebbe stato un combattente per la libertà. Se invece fosse andato in Libano, sarebbe stato un terrorista. Se fosse arrivato in Bosnia nei primi anni ’90, sarebbe stato ancora un combattente per la libertà, ma se si fosse fatto vedere nella Striscia di Gaza o nella West Bank sarebbe stato un terrorista. Nel nord del Caucaso russo sarebbe rinato come combattente per la libertà, ma se fosse tornato in Afghanistan dopo il 2001 sarebbe stato un terrorista.

A seconda di come tira il vento dal Fondo Nebbioso, insomma, un separatista pakistano del Belucistan o un separatista indiano del Kashmir può diventare combattente per la libertà o terrorista.  
E viceversa: nel 1998 l’inviato speciale degli USA nei Balcani, Robert Gelbard, descrisse l’Esercito di Liberazione del Kosovo (KLA), che combatteva contro il governo jugoslavo, come un’organizzazione terroristica: “So riconoscere un terrorista quando ne vedo uno, e questi uomini sono terroristi”.
Ma nel febbraio seguente, il Segretario di Stato americano Madeleine Albright portò cinque uomini del KLA, compreso il suo capo, Hashim Thaci, a Rambouillet, in Francia, per lanciare alla Jugoslavia un ultimatum che sapeva sarebbe stato rifiutato e avrebbe condotto alla guerra. L’anno successivo fu la stessa Albright a scortare Thaci in un tour personale del QG delle Nazioni Unite e del Dipartimento di Stato, invitandolo poi come ospite alla convention per le nomine presidenziali del Partito Democratico, a Los Angeles.

Lo scorso 1° novembre, Thaci, adesso primo ministro di uno pseudo-stato riconosciuto solo da 63 delle 192 nazioni del mondo, ha ospitato l’ex presidente USA Bill Clinton per l’inaugurazione di un monumento eretto in onore dei crimini di quest’ultimo. E della sua vanità.
Washington ha sostenuto i separatisti armati dell’Eritrea dalla metà degli anni ’70 fino al 1991 nella loro guerra contro il governo dell’Etiopia.
Attualmente gli Stati Uniti forniscono armi alla Somalia e al Gibuti per la loro guerra contro l’Eritrea indipendente. Il Pentagono possiede nel Gibuti la più importante delle sue basi militari permanenti, la quale ospita 2.000 soldati e dalla quale viene gestita la sorveglianza tramite aerei spia sulla Somalia. E sullo Yemen.
Per dirla con le parole di Vautrin, il personaggio di Balzac: “Non esistono i principi, ma solo gli eventi; non ci sono leggi, ci sono solo circostanze…”. Gli yemeniti sono gli ultimi ad apprendere la legge della giungla voluta dal Pentagono e dalla Casa Bianca. Insieme a Iran e Afghanistan, che lo specialista di contro-insorgenza Stanley McChrystal ha usato per perfezionare le proprie tecniche, lo Yemen sta per unirsi ai ranghi di tutte quelle nazioni in cui l’esercito degli Stati Uniti è impegnato in varie tipologie di azioni di guerra, ricche di massacri di civili e di altre forme di cosiddetti “danni collaterali”: Colombia, Mali, Pakistan, Filippine, Somalia e Uganda.

da http://www.comedonchisciotte.org/site/
Fonte articolo originale: http://rickrozoff.wordpress.com