Per un’analisi della politica estera cinese

L’avanzata della Cina come grande potenza industriale, commerciale e militare è destinata, nel medio lungo periodo, a dissestare il sistema geopolitico mondiale, facendo dunque traballare il rapporto di signoraggio che inchioda il resto del mondo al super-imperialismo americano. Che la Cina voglia lasciare intatto il sistema imperialistico, semplicemente rimpiazzando gli USA, oppure, anche vista la sua antica e peculiare tradizione, possa dar vita ad un sistema imperiale non necessariamente imperialistico, è questione aperta di dottrina. L’approccio cinese in Afghanistan è una cartina di tornasole per comprendere la natura della politica estera cinese e la dinamica della sua penetrazione strategica. Quello che di sicuro non si può affermare è che Pechino segua una linea antimperialistica.


Tutti uniti in seno all’ONU

Com’è risaputo la Cina ha sottoscritto, in quanto Membro permanente, tutte le risoluzioni del Consiglio di sicurezza relative all’Afghanistan, in particolare quelle successive agli attacchi dell’11 settembre 2001, che autorizzavano indirettamente l’aggressione USA (vedi la missione Enduring Freedom), e subito dopo quelle che autorizzavano la NATO, questa volta formalmente, a  dare manforte agli americani (vedi la missione ISAF, International Security Assistance Force).
Ci riferiamo in particolare alle Risoluzioni 1378 del 14 novembre 2001, 1383 del 6 dicembre e 1386 del 20 dicembre.
L’appoggio cinese all’invasione imperialistica dell’Afghanistan non ha conosciuto, nel tempo, alcun tentennamento. Pieno l’appoggio (col pretesto di annientare Al-Qaida e il “terrorismo”) all’invasione per cacciare i talibani, pieno l’appoggio a conquistare Kabul e mettere al loro posto, (in base agli Accordi di Bonn del 5 dicembre 2001), prima la “Autorità ad interim”, successivamente il fantoccio Karzai. (Fonte: un.org)

Sempre per stare all’ONU, ove vige l’imperativo del peloso linguaggio diplomatico (per cui la guerra è chiamata “iniziativa umanitaria”, l’occupazione straniera “liberazione”, le istituzioni fantoccio “processo politico”) ecco quanto affermava il 30 giugno scorso, alle porte di scandalose elezioni truffa, il  rappresentante cinese Liu Zehmin:
«La Cina si congratula che, nonostante alcune sfide, il processo che ha portato alle elezioni sia stato finora pacifico e i piani per svolgere le elezioni hanno proceduto a buon ritmo. Garantire elezioni libere, eque e credibili, è  una base importante per la stabilità politica e gli sforzi di ricostruzione. Prendendo nota delle continue e serie sfide alla sicurezza, la Cina esorta il governo (Karzai, Ndr) a continuare a rafforzare la capacità delle forze nazionali in modo da poter assumere la responsabilità per la sicurezza nazionale, uno sforzo che deve essere sostenuto dalla comunità internazionale. Nel complesso, lo sviluppo socio-economico è la chiave per la pace e la stabilità. A tal fine, la Cina ha accolto con favore i piani in corso in settori quali la sanità, l’agricoltura e gli altri positivi programmi sociali atti a sollevare il tenore di vita e a contribuire ad affrontare le cause alla base delle sfide che attendono l’Afghanistan. Dopo essere passato attraverso tante prove e tribolazioni, il popolo afgano ha bisogno di una pace sostenibile, di sviluppo e stabilità. Ciò che richiede gli sforzi del governo e il sostegno della comunità internazionale. Come amichevole vicino, la Cina sosterrà l’Afghanistan e contribuirà a sostenere le iniziative internazionali più ampie al fine di garantire una pace duratura». (verbali della riunione 6154 del Consiglio di sicurezza. (Fonte: un.org)

Solo di recente, solo dopo lo scandalo delle elezioni-truffa, il discredito sterminato di cui gode il governo Karzai tra la popolazione, e l’evidente fallimento dell’occupazione sul piano militare, Pechino ha, seppure informalmente, aggiustato il tiro. Non nel senso che intende rimettere in discussione l’occupazione imperialistica e e la guerra alla Resistenza, quanto nel senso di correre in soccorso agli americani e alla NATO proponendo un aggiustamento delle modalità dell’occupazione.

Il 29 settembre scorso, China Daily, in un articolo attribuito al vicesegretario del China Council for National Security Policy Studies, Li Qinggong, proponeva “approccio nuovo per porre fine alla guerra”, “pacifico e riconciliatore”. Gli Usa dovrebbero “mettere fine alla Guerra al terrore… fonte di disordine senza fine”. In buona sostanza Pechino propone due cose: Un accordo coi “talibani moderati” e la sostituzione delle truppe USA e NATO con una nuova missione di peacekeeping. (Fonte: asiatimes.com)

C’è chi ha visto in questa (informale sino ad ora) sterzata, la perorazione di un approccio multilateralista e, in questo quadro, la disponibilità cinese a fornire proprie truppe nell’ambito di una nuova missione ONU. Plausibile. Non lo è invece vedervi una “mossa antimperialistica e/o antiamericana”. A parte che ci sono volute le sonore batoste che la Resistenza ha inflitto agli occupanti (e quindi indirettamente ai suoi sponsor come Pechino) affinché si prendesse atto del fallimento dell’invasione, la “svolta” cinese non pare indirizzata ad inguaiare Obama, quanto ad accompagnare il suo nuovo approccio, la sua exit strategy, che consiste infatti, seguendo la diabolica tattica di Petraeus in Iraq, nel dividere la Resistenza,  nell’incoporare nel “processo politico” la sua “parte moderata” come truppa ausiliaria, il tutto per rendere possibile il ritiro delle truppe (annunciato per il 2011), evidentemente da far rimpiazzare coi “caschi blu” dell’ONU.

In buona sostanza la Cina rideclina la sua posizione di fondo: stabilità dell’Asia centrale, sconfitta della Resistenza, di qui la mano tesa agli USA e alla NATO per farli venire fuori dalle sabbie mobili in cui si sono cacciati.

La Cina e lo SCO (Shangai Cooperation Organization)

Che questa sia la linea strategica cinese è confermato anche dall’azione e dalla posizione assunta dallo SCO, il trattato che lega come paesi membri le diverse repubbliche dell’Asia centrale ex-sovietica alla Russia e alla Cina (e che vede India e Pakistan come paesi osservatori). L’appoggio dello SCO all’occupazione imperialistica dell’Afghanistan è sempre stato deciso, e decisivo. Vuoi col motivo della lotta al traffico di droga, vuoi con quello della lotta al terrorismo, i paesi dello SCO, Cina in primis, hanno aiutato in ogni maniera gli Stati Uniti e la NATO e, anzitutto, il governo fantoccio di Karzai (il quale dal 2004 è stato un ospite fisso alle riunioni dello SCO). Lo SCO ha adottato una ufficiale dichiarazione congiunta di appoggio all’ISAF, alla NATO e agli USA, nella lotta contro il traffico di droga, come pure contro la Resistenza “per impedire che il paese diventi rifugio del terrorismo”.

Lungi dal prendere le distanze dagli USA e dalla NATO, o di creargli problemi, lo SCO, nella sua dichiarazione, ha richiesto anzi una più stretta collaborazione con gli occupanti, invitando “altri paesi… a partecipare agli sforzi collettivi per combattere il terrorismo regionale”. Sul piano operativo, proprio mentre crescevano le difficoltà degli occupanti, la Russia e le repubbliche centro-asiatiche ex-sovietiche, col pieno assenso di Pechino, hanno messo a disposizione degli USA e della NATO, sia i loro spazi aerei che quelli terrestri, come retrovie e canali di approvvigionamento e logistica, visto che nel frattempo, sempre a causa della guerriglia, il Pakistan era diventato del tutto insicuro. (Fonte: asiantribune.com)

Seppure non dichiarata è dunque operativa una specie di “Santa alleanza” che unisce l’Occidente imperialistico a SCO, Russia e Cina, tutti legati dal comune imperativo di debellare la Resistenza afghana, e con essa le sue ramificazioni islamiste in Pakistan, Xinjiang e Asia centrale.

La Cina fa gli affari (suoi)

Tuttavia, per pienamente comprendere la natura della politica cinese in Afghanistan, non è sufficiente prendere nota del suo approccio diplomatico e politico, bisogna bensì mettere in luce il lato meramente affaristico.

In una situazione come quella afghana, in cui imperversa la guerra e la sicurezza è evidentemente aleatoria; dove la Resistenza, del tutto legittimamente, considera ogni compagnia straniera che operi nel paese un bersaglio in quanto rapinatrice e compartecipe dell’occupazione; le aziende cinesi sono quelle che hanno battuto ogni concorrenza in quanto a disponbilità al rischio. Siccome i capitali occidentali si sono ben guardati dall’investire in Afghanistan, quelli cinesi si sono subito incuneati riempiendo il vuoto. La Cina è così diventata il più importante attore economico di questo paese. Secondo le statistiche del governo cinese, a partire dal 2007-8, sono stati avviati ben 33 grandi progetti in Afghanistan, che hanno convolto altrettante aziende del Dragone.  Non si parla di chincaglieria, o di esportazione di beni di largo consumo, ma di vero e propri investimenti di capitale.

Tra il 2007 e il 2008 la Cina otteneva enormi concessioni dal governo fantoccio di Karzai, ovvero la più grande fetta della cooperazione economica, ad esempio aggiudicandosi un contratto di estrazione del rame, per un controvalore di 3.5 miliardi di dollari, per sfruttare il più grande giacimento di rame al mondo, quello di Aynak (scoperto nel 1974 dai sovietici). Il contratto prevede, tra l’altro, un’imponente rete ferroviaria  che collegherà la miniera di Aynak alla Cina, passando per il Pakistan. Secondo il governo Karzai il più grande investimento estero diretto nella storia dell’Afghanistan.
La miniera di Aynak ha infatti una riserva di 690 milioni di tonnellate di rame grezzo, ovvero 11,33 milioni di rame raffinato. Si capisce l’importanza strategica di questo contratto se si considera che la Cina proprio perché è il primo consumatore di rame al mondo (il 22% del totale) non ne disponga a sufficenza. Questo affare vede così impegnati tre colossi minerari cinesi: la China Metallurgical Corp., la Jiangxi Copper Corp. e la Zijn Mining Group Company. (Fonte: China.org.cn)

Destino vuole che la miniera di Aynak si trovi a trenta chilometri a sud di  Kabul, nella valle di Jalrez, una roccaforte della guerriglia. La miniera è quindi superprotetta sia da truppe americane che da quelle ascare di Karzai, le quali sono sottoposte infatti a costanti attacchi da parte della Resistenza, attacchi nei quali, oltre a 11 lavoratori cinesi, hanno perso la vita decine di soldati.
La qual cosa ha fatto andare su tutte le furie vari commentatori americani, più o meno vicini al Pentagono, i quali hanno segnalato come inaccettabile e paradossale che  “..i nostri soldati stanno rimettendo la pelle per permettere ai cinesi di fare quattrini.. Avviene in Afghanistan ciò che sta accadendo in Iraq, che la Cina sta estraendo più  petrolio degli Stati Uniti.” (Fonti: nytimes.com, mcclatchydc.com).

Proprio la China Metallurgical Corp., sempre in zona e in base al contratto, costruirà una centrale da 400 megawatt di potenza e scaverà una grossa miniera di carbone. Il tutto tra le proteste della popolazione, che contesta queste opere ciclopiche e gli scavi, sia perché i cinesi si portano dal loro paese la forza lavoro tagliando fuori i “fannulloni” afghani (nel vicino Pakistan i cinesi detengono i diritti d’estrazione nella miniera di rame di Sandaik ma la gente della zona protesta perché l’area non ne trae il benché minimo vantaggio), sia perché rappresentano una grave minaccia ecologica —non solo scorie tossiche che metteranno a repentaglio la salute dei 90mila abitanti dell’area, nella zona c’è la più importante falda acquifera che alimenta la metropoli di Kabul. (Fonte: nation.com.pk)
E sempre in base ai contratti sottoscritti col governo fantoccio, la Cina si è accaparrata ingenti appalti per costruire scuole, strade, edilizia pubblica, ospedali, e persino moschee.
Ma ci sono in ballo, in futuro, i giacimenti afghani di ferro e uranio, di diamanti e di petrolio, di gas e di oro.


Conclusioni

Alcuni commentatori assai vicini a Pechino affermano che le modalità con cui la Cina penetra in paesi arretrati come l’Afghanistan (in particolare in Africa e America latina) non sono affatto assimilabili al saccheggio sistematico a cui li avevano abituati le multinazionali occidentali. Portano ad esempio la costruzione di grandi infrastrutture che i cinesi si adoprano a costruire contestualmente ai diritti di estrazione e/o industriali e agrari che ottengono. Ci corre l’obbligo di far notare che anche i colonialisti inglesi, solo per fare un esempio, costruirono in India una rete infrastrutturale, ancora oggi esistente, ma che essa era del tutto funzionale proprio al meccanismo di colonizzazione.
Quest’impegno cinese non ci dice ancora nulla, ovvero non smentisce di per sé, l’accusa che altri rivolgono sul carattere imperialistico di questa stessa penetrazione. Se si prendono ad esempio le grandi infrastrutture che la Cina sta costruendo in Africa, segnatamente in Algeria, Sudan, Mauritania, Ciad, Congo e Angola, esse sono funzionali alla medesima penetrazione, ovvero all’esportazione di capitale cinese che non potrebbe valorizzarsi senza queste medesime infrastrutture.

Tuttavia, anche volendo ammettere un differente modus operandi cinese rispetto all’imperialismo occidentale classico, una cosa è certa: le grandi compagnie cinesi fanno anzitutto gli affari loro, ovvero privano questi paesi di ingenti ricchezze a loro vantaggio, per ricavarne il massimo profitto, e quel che resta ai paesi depredati, non va a finire nelle tasche delle popolazioni locali (anche ove i cinesi reclutano forza lavoro autoctona lo fanno in cambio di salari di fame e di condizioni considerate disumane), ma anzitutto va in quelle dei corrottissimi notabili locali.
Che questa rapina vada a danno degli imperialismi tradizionali, poiché li scalza dalle loro consolidate posizioni di predominio, è evidente, affermare che questa competizione abbia un carattere “antimperialistico” è invece altamente discutibile. Non scopriamo adesso la  competizione commerciale tra potenze. I neofiti della Cina provino a spiegarci perché questa concorrenza sia anti-imperialistica e non invece sordidamente inter-imperialistica.