Un articolo di Massimo Fini sulla conferenza di Londra

Il 29 gennaio si è svolta a Londra una conferenza dei rappresentanti di settanta Paesi per discutere della situazione afgana. I “cervelloni”, come li chiama sarcasticamente sul Corriere della Sera, Giovanni Sartori che non può essere certo sospettato di simpatia talebane, hanno partorito un piano di “riconciliazione nazionale” basato su questi punti: 1) I Talebani devono deporre preventivamente le armi. 2) L’accettazione dell’economia di tipo occidentale. 3) Il riconoscimento del diritto occidentale in particolar modo per quello che riguarda il rispetto del ruolo delle donne. In cambio, per favorire la “riconciliazione”, viene aperto un fondo di 500 milioni di dollari in cui parteciperà anche l’Italia con dieci.

In altre parole si intende, con questi soldi, comprare i Talebani.
Un piano grottesco. Si può pensare che gente che combatte da otto anni, pagando tributi di sangue altissimi, che ha dimostrato un coraggio straordinario, che controlla, grazie all’appoggio della maggioranza della popolazione, i tre quarti del territorio, che è vicina alla vittoria, rinunci a tutto questo per “reintegrarsi” in uno Stato inesistente, sottomettersi a un governo fantoccio qual è quello di Karzai, di cui tutti sanno che non resisterebbe più di 24 ore se le truppe Nato se ne andassero e accettare ciò che più odiano e contro il quale si stanno battendo: il modello di vita occidentale? Anche il progetto di comprarli, oltre che ignobile, è ridicolo. Scrive Sartori: “Un fanatismo religioso non è mai comprabile”. A parte che c’è da chiedersi se siano più fanatici e integralisti i Talebani e coloro che pretendono di omologare il mondo intero al proprio modello, è vero: i Talebani non sono comprabili. Ci sono infiniti esempi, il più clamoroso riguarda il Mullah Omar.

Vinta la guerra nel 2001 gli americani si misero in caccia del Mullah su cui pendeva una taglia di 50 milioni di dollari. L’individuarono presso certe tribù pashtun e ne chiesero la consegna in cambio della taglia. Con quella cifra da quelle parti, si compra tutto l’Afghanistan e anche un pò di Pakistan. Ma i capi tribù finsero di trattare, per un paio di giorni, per permettere a Omar di guadagnare tempo mentre fuggiva in motocicletta.

Queste conferenze sono del tutto inutili, se non farsesche, quando dalle trattative è esclusa la controparte. Una trattativa più seria si è svolta mesi fa in Arabia Saudita, con il patrocinio e la garanzia del re Abdullah; fra emissari di Karzai e del Mullah. Ma è stato Omar a porre le condizioni: 1) Nessuna trattativa può cominciare se prima non se vanno gli occupanti stranieri. 2) A Karzai ha promesso solo salva la vita, a lui e al suo clan di corrotti.

In ogni caso, comunque la si voglia rigirare, noi in Afghanistan siamo degli occupanti. Odiati dalla popolazione, checché ne dicano obbligatoriamente i nostri comandi militari, che non ha mai tollerato dominazioni straniere, e comunque, dopo otto anni di invasione, si rende conto che “stava meglio quando stava peggio”, cioè con i Talebani. Tutte queste “exit strategy” o “surge” o altre diavolerie sono solo penosi espedienti per tentare di “salvare la faccia”, di non ammettere un errore che è anche un crimine. Lasciamola in pace quella gente. “Lasciamo” come ha detto quel generale russo “che gli afgani sbaglino da soli”. Non pretendiamo, con una protervia che non si può definire altrimenti che totalitaria, di sostituire la storia afgana con la nostra storia.

Articolo uscito sul Gazzettino del 5 febbraio 2010