Difendere l’Iran? La posizione del Baath iracheno e quella nostra

Il 23 marzo scorso, venuto a conoscenza che siamo tra i promotori dell’Appello “Fermare l’aggressione all’Iran”, Salah al-Mukhtar, noto esponente del Baath iracheno (col quale abbiamo mantenuto stretti contatti sin dall’aggressione anglo-americana del marzo 2003), ci ha inviato una lettera nella quale, puntando il suo dito indice, ci muove l’accusa che difendendo l’Iran saremmo diventati sodali degli americani. Sentiamo:

«La resistenza Irachena ha atteso per anni che voi condannaste la partecipazione iraniana all’invasione dell’Iraq, alla loro promozione del conflitto settario, ma non lo avete fatto, sfortunatamente! Sembra che siete dalla parte dell’Iran come pure a favore dell’occupazione del suolo iracheno, come a Fakka ad esempio.

 

Con l’Iran che ha ucciso migliaia di iracheni e sta giocando il ruolo più pericoloso nel colpire la resistenza Irachena assieme all’America. Sostenere l’Iran, il più pericoloso agente dell’applicazione dello schema americano-sionista di partizione dell’Iraq, fa praticamente di voi un movimento leale agli USA.
Questo vostro appoggio all’Iran è davvero strano poiché l’Iran sta giocando il ruolo di primo socio degli americani nell’invasione e nella distruzione dell’Iraq e dell’Afghanistan
». Salah Al-Mukhtar

Una prima precisazione. Condannammo eccome! il collateralismo, ovvero il vero e proprio fiancheggiamento dell’invasione anglo-americana da parte di Tehran. Ma questo gli esponenti del Baath iracheno, sia quelli attivi nella Resistenza che costretti all’esilio come Salah, lo sanno molto bene. Come lo sanno bene anche in Iran, che per il nostro fermissimo e notorio sostegno alla Resistenza irachena, non hanno mai visto davvero di buon occhio il Campo Antimperialista.

La differenza con Salah, non sembri assurdo, è simboleggiata dal posizionamento di una maiuscola. Noi usiamo scrivere Resistenza irachena, Salah, invece, scrive “resistenza Irachena”. In altre parole la differenza insiste sul nazionalismo, che noi sosteniamo quando rappresenta le giuste aspirazioni di un popolo senza patria (vedi quello palestinese), quando esso è un’arma puntata contro l’oppressione imperialistica e colonialistica, che respingiamo quando esso è solo un paravento usato astutamente da questo o quel regime per abbindolare il popolo o, peggio, utilizzato come arnese ideologico per giustificare una politica espansionistica o annessionistica ai danni di popoli che oppressori non sono.

Ci sono nazionalismi buoni, e nazionalismi cattivi. Ci sono infine nazionalismi che buoni in determinate circostanze diventano cattivi in altre.

Il nazionalismo iracheno è ambivalente: è buono dal momento che è un’arma identitaria per sollevare le masse contro gli occupanti imperialisti, può essere cattivo se utilizzato sciovinisticamente contro la minoranza curda, o contro il popolo persiano in quanto tale. Il Baath ha usato, a seconda delle circostanze, entrambi i lati del nazionalismo arabo-iracheno, per di più rivestendolo dell’antica ostilità sunnita contro la shia.

Dove possono condurre il nazionalismo cieco e lo sciovinismo nazionale, ci fu mostrato dalla terribile guerra Iraq-Iran.

Chi scrive non sostenne né l’Iraq né l’Iran nella guerra fratricida (1980-88). Una guerra sanguinosa che non era nell’interesse né del popolo iracheno né di quello persiano e che, indebolendo entrambi i paesi, fece di fatto il gioco degli americani e dei sionisti (che sostennero e armarono, allo scopo di farli dilaniare, ora l’uno ora l’altro belligerante). Il governo di Saddam Hussein porta una responsabilità enorme per avere scatenato, nel settembre del 1980,  quella guerra contro la neonata Repubblica Islamica dell’Iran, così come le porta Khomeini, per aver respinto ogni negoziato di pace che avrebbe potuto porre fine al conflitto tre se non quattro anni prima. Saddam Hussein da una parte, Khomeini dall’altra, entrambi fecero leva sui sentimenti nazionalisti (e religioso identitari) per mobilitare le masse e spingerle ad azzannarsi, ma le vere cause del conflitto furono l’ambizione di potenza regionale del Baath da una parte, e le mire espansionistiche iraniane dall’altra. La guerra fu per entrambi un pretesto per difendersi dai loro nemici interni, dalla crisi, deviando le tensioni verso il nemico esterno.

Per dovere di chiarezza, chi scrive, non si schierò contro l’Iraq quando esso invase, nell’agosto del 1990, il Kuwait, visto che quel conflitto, come si rivelò pochi mesi dopo con l’aggressione americana, non era che il primo capitolo di una guerra devastante che vedrà impegnati contro l’Iraq tutti i paesi imperialisti coalizzati.

E sempre per dovere di chiarezza, chi scrive, non sostenne le rivolte simultanee dei curdi iracheni e degli shiiti a sud, che scoppiarono proprio mentre le truppe d’invasione americane avanzavano verso Baghdad, e che erano dunque obiettivamente complementari all’invasione stessa.

Non ci accusino quindi, i baathisti iracheni, di avere una posizione pregiudizialmente ostile al nazionalismo arabo-iracheno. Non l’abbiamo avuta nemmeno quando la Resistenza, a partire dal 2005,  ha fatto deliberatamente leva sull’antica ostilità verso gli “apostati” shiiti giustificando una tattica stragista per cui ogni shhita era un nemico da annientare. Era purtroppo senso comune negli ambienti della resistenza che l’Iran, al fondo, è un nemico peggiore degli americani.

Si è visto infatti con la triste debacle della Resistenza irachena dove possa portare l’odio indiscriminato antipersiano e anti-shiita. Ha portato alla guerra civile tra iracheni sunniti e iracheni shiiti, un fiume di sangue in cui ad un certo punto galleggiavano le milizie jihadiste salafite-takfirite da una parte, e gli squadroni della morte del Badr, del Dawa o del Mahdi dall’altra. Salah al-Mukhtar sa infatti molto bene che proprio a causa del terreno guadagnato dai fanatici jihadisti (guadagnato anzitutto a spese del Baath), a partire dalla fine del 2006, decine di migliaia di guerriglieri sunniti, passarono dalla parte degli occupanti americani (Il Consiglio del Risveglio). Fu l’inizio della fine della Resistenza. Chiediamo a Salah al-Mukhtar: ci sarebbe stata questa debacle se la Resistenza non avesse adottato la politica frontalmente anti-shiita? Se avesse combattuto l’idea che l’Iran era il nemico principale?

Noi comprendiamo che la Resistenza è stata sconfitta anche grazie al ruolo giocato da Tehran e dai partiti iracheni filo-iraniani. A maggior ragione appaiono chiari gli errori strategici della Resistenza medesima: se non si può ubbidire a due padroni (ci riferiamo ai partiti iracheni shiiti), neanche si può combattere allo stesso tempo contro due nemici soverchianti. Tutto si doveva fare dopo l’invasione del 2003 (e dopo le rivolte antiamericane degli shiiti del 2004 e del 2005), non commettere il gravissimo errore di spingere, per amore del nazionalismo cieco e del settarismo sunnita, la maggioranza shiita tra le braccia degli americani e di Theran.

Salah al-Mukhtar ci accusa perché difenderemo l’Iran nell’eventualità di un’aggressione americana. Su questo già divergemmo con i baathisti alla conferenza di sostegno alla Resistenza irachena che co-organizzammo in Italia nel marzo del 2007. Essi si rifiutarono di sottoscrivere la dichiarazione finale perché, tra l’altro, condannava le minacce imperialistiche all’Iran. Per i baathisti era inconcepibile che noi fossimo per la Resistenza irachena e, allo stesso tempo, per la difesa dell’Iran contro gli USA.

Ognuno può capire che dove i baathisti, accecati dall’odio antipersiano, vedono una contraddizione, c’è in realtà un solido filo rosso di coerenza.

Un paese può giocare un ruolo antimperialista globale e al contempo perseguire una politica espansionistica a scala regionale. Strano che non lo capiscano i baathisti, poiché ciò si applicava a pennello anche all’Iraq di Saddam Hussein. Siamo dunque al fianco dell’Iran nel conflitto latente con gli USA, siamo contrari alla politica fin qui seguita da Tehran verso l’Iraq, che è stata sin qui una politica di condominio e di sostanziale collaborazione.

L’ultima cosa vorremmo dirla, a scanso di equivoci, sul concetto di “espansionismo”. I sionisti, gli americani e le loro satrapie arabe, condannano l’espansionismo iraniano in Medio oriente. Si riferiscono anzitutto all’appoggio determinante che Tehran fornisce alle resistenze libanese e palestinese. Che Dio benedica questo “espansionismo”, senza il quale non avremmo avuto, né la vittoria di Hezbollah su Israele nel luglio 2006, né la capacità di HAMAS di resistere all’invasione di Gaza denominata “piombo fuso”.