L’articolo che segue è stato pubblicato dalla redazione del sito Salute Internazionale. Pur non condividendone alcuni giudizi politici, è da segnalare il fatto che anche un sito indipendente, che si occupa esclusivamente di salute internazionale, denunci l’assedio di Gaza per quello che è, anche in base alla IV Convenzione di Ginevra: un crimine di guerra.
A Gaza qualcosa di nuovo?
Dopo l’assalto alla flottiglia dei pacifisti, il governo israeliano ha annunciato un “alleggerimento del blocco” alla Striscia di Gaza. Forse quel sanguinoso evento sta risvegliando l’opinione pubblica mondiale sulla situazione nella Striscia dove si perpetra “una punizione collettiva” verso tutta la popolazione.
Che cosa sta succedendo a Gaza?
La Striscia di Gaza è una fetta di terra lunga 45 km e larga da 12 a 5,5 km, con un milione e mezzo di abitanti ammassati in oltre 4 mila per kmq. Quasi la metà di loro ha meno di 15 anni di età. Il 71.5% della popolazione appartiene a famiglie cacciate dalle loro abitazioni nel 1947-1948 quando fu creato lo Stato di Israele. Otto persone su dieci dipendono dall’aiuto umanitario. Dal 1967, a seguito della “guerra dei sei giorni”, i territori palestinesi di Cisgiordania e di Gaza sono occupati militarmente da Israele.
Gli accordi di Oslo del 1993 hanno stabilito che Gaza e la Cisgiordania, tra loro distanti circa 40 km, rappresentano una “singola unità territoriale” sotto l’Autorità Nazionale Palestinese. Oggi le cose stanno molto diversamente. Dopo l’ostracismo imposto da Israele e dalla comunità internazionale al governo di Hamas, vincitore di elezioni democratiche nel gennaio 2006, e dopo la sua violenta presa del potere a Gaza nel giugno 2007, ora i due territori sono governati da entità rivali (Fatah in Cisgiordania).
Dopo avere ritirato nel 2005 le proprie truppe e gli 8 mila coloni ebrei che vivevano a Gaza, Israele ha rinsaldato il proprio dominio su quel territorio di cui controlla totalmente i confini di terra e di mare, ne pattuglia lo spazio aereo, ne gestisce il sistema di tassazione e il registro di popolazione. Il fatto che Gaza debba addirittura importare pesce la dice lunga sulla assurdità della situazione. Questo controllo totale implica che Israele rimane a tutti gli effetti la potenza occupante di Gaza e come tale é soggetta ai doveri di assistenza ai suoi abitanti imposti dalla 4° Convenzione di Ginevra. Doveri che Israele non sta rispettando.
Dal 2007 Israele ed Egitto hanno imposto un blocco pressoché ermetico al passaggio di beni e persone da e per Gaza. Da allora, la sua popolazione ha accesso a meno di un quarto dei beni rispetto al 2005. Gli oltre diecimila autocarri al mese che entravano in passato, durante il blocco si sono ridotti ad una media di 2.300, meno di un decimo di quanti ne entrano in un solo giorno a Manhattan (che ha la stessa popolazione di Gaza). Israele permette l’entrata soltanto di quei prodotti che sono “essenziali alla sopravvivenza”, limitandone il numero a 114 rispetto ai quattro mila consentiti prima. In media, un grosso supermercato israeliano contiene circa 10-15 mila prodotti. Tra i beni proibiti troviamo aceto, giocattoli per bambini, cacao, gomme da masticare, carta e strumenti musicali.
Come funziona il blocco di Gaza?
Israele impedisce l’entrata a Gaza di materie prime per l’industria, sostenendo di condurre una “guerra economica” per spingere la popolazione a promuovere un cambiamento politico. Per esempio, è proibita l’entrata di grossi blocchi di margarina per uso industriale, ma sono permesse le confezioni per consumo domestico. È impedito l’accesso di gomma, colla e nylon, utili per la produzione di pannolini, ma è consentita l’importazione di pannolini prodotti in Israele. Secondo stime della Federazione degli Industriali Palestinesi, il 90% delle fabbriche a Gaza sono chiuse (o distrutte dalla guerra del 2008-9). Le esportazioni sono praticamente inesistenti: dal 2007 ad oggi da Gaza sono usciti in tutto 259 autocarri, rispetto ad una media di 70 al giorno nel 2005. In pratica in tre anni Israele ha permesso l’esportazione della quantità di prodotti che in precedenza venivano esportati in quattro giorni. A confronto, la fabbrica alimentare israeliana Tnuva smista sul territorio di Israele 400 camion al giorno.
Una vera e propria lista di prodotti permessi e proibiti, tuttavia, non è mai stata pubblicata. Non è mai stato possibile comprendere i criteri di ammissione o proibizione dei diversi beni se non i cosiddetti materiali “dual-use”, che potrebbero essere impiegati anche per costruire armi o esplosivi, come tubi di acciaio o fertilizzanti. Come spiegare il permesso di importazione a carne e tonno in scatola, ma non alle conserve di frutta? ad acqua minerale, ma non ai succhi di frutta? a tè e caffè, ma non alla cioccolata? Il materiale da costruzione è sempre stato bandito finché, all’inizio del 2010, prodotti come vetro, legno e alluminio hanno avuto vita più facile. Soltanto a maggio il governo israeliano, in risposta alla causa intentata dall’organizzazione Gisha (“Legal Centre for Freedom of Movement“), ha pubblicato tre diverse liste di prodotti consentiti e ha ammesso l’esistenza di una quarta, chiamata “Red Lines“, intesa a calcolare i bisogni nutrizionali minimi della popolazione di Gaza in base ai grammi di cibo necessari per soddisfare il bisogno calorico individuale per età e sesso. Dall’annuncio dell’allentamento del blocco, il numero e la quantità di beni importabili a Gaza è decisamente aumentato ma ha riguardato quasi soltanto beni di consumo voluttuario e generi alimentari. Materiale per costruzione è ora permesso soltanto per progetti di organizzazioni internazionali. Nessun cambiamento alle esportazioni, quasi inesistenti, e al movimento di persone e ammalati.
Il passaggio di persone per e da Gaza è consentito soltanto per “casi umanitari ed eccezionali”. Al valico di Rafah con l’Egitto nella prima parte del 2010 sono transitate mensilmente in media 3.192 persone, rispetto alle 40.000 prima del blocco. Non rientrano nella definizione di umanitario casi come la visita da Gaza alla Cisgiordania, o viceversa, di una moglie al marito o dei figli al padre; di un figlio di Gaza alla madre morente in Giordania; di giovani per ragioni di studio in Cisgiordania o all’estero. La giornalista israeliana Amira Hass scrive come, il giorno dopo in cui Barak Obama si era congratulato con Netanyahu per avere allentato il blocco, l’Alta Corte di Giustizia israeliana confermava il divieto ad una giovane avvocatessa di Gaza di frequentare un master in diritti umani all’università di Birzeit in Cisgiordania. E ciò nonostante la giovane lavori per un Centro per i diritti umani, Al Mezan, fortemente critico nei confronti della politica repressiva di Hamas.
Lo stesso trasferimento di ammalati per ottenere cure non disponibili a Gaza è severamente regolamentato. Mediamente, su cento pazienti che ne chiedono l’autorizzazione a dieci viene negata la possibilità di cura. L’organizzazione israeliana Physicians for Human Rights (Phr) denuncia come contrario all’etica medica il criterio usato da Israele di definire chi può uscire da Gaza in base alla gravità della malattia. Secondo Phr, oltre alle difficoltà di accedere a cure adeguate all’estero, gli ostacoli imposti ai pazienti di Gaza sono anche dovuti al deterioramento del sistema sanitario, sia per attrezzature assenti o obsolete per scarsa manutenzione sia per mancato aggiornamento professionale e peggioramento della qualità delle cure. Un ulteriore problema riguarda i metodi inaccettabili con cui vengono trattati i pazienti, spesso sottoposti a pressioni e violenze per rivelare informazioni sensibili in cambio dell’autorizzazione ad uscire da Gaza.
Perché chiudere i confini di Gaza?
Sembra che soltanto ora il mondo cominci a chiedersi perché Gaza sia sottoposta a un tale trattamento. Il motivo ufficiale del governo israeliano, accettato dal mondo intero, è di “isolare i terroristi” di Hamas. La pensa diversamente Dov Weissglass, consigliere dell’allora primo ministro Ariel Sharon, che nel 2006 ha affermato: “L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, ma senza farli morire di fame”. Una chiara ammissione di punizione collettiva.
La decisione di Israele di allentare il blocco è stata salutata come un importante passo in avanti. Tuttavia, il fatto che ora possa entrare un maggior numero di beni di consumo non cambia molto la percezione degli abitanti di Gaza. C’era davvero bisogno di quei morti per concedere l’entrata di patatine, cannella e Coca Cola? Anche in passato entravano più o meno gli stessi prodotti attraverso i tunnel con l’Egitto. Il vero blocco non è fatto di questi dettagli. La gente sente di vivere in una prigione a cielo aperto che non ti consente produrre alcunché col tuo lavoro, di esportare quello che produci, di mandare i figli all’università, di ricoverare gli ammalati in ospedali specializzati, di partecipare a seminari e congressi scientifici internazionali, di ricevere visite di parenti, colleghi e amici come si fa ovunque.
Gisha afferma che, secondo il diritto internazionale, questa restrizione alla libertà di movimento di beni e persone per a da Gaza non costituisce un vero e proprio “Assedio”, in quanto non persegue l’obiettivo militare di indurre la resa del nemico. Non è neppure un “Blocco militare”, perché non intende privare l’avversario degli approvvigionamenti bellici necessari a condurre un conflitto. Nel caso di Gaza, infatti, la lista dei beni non consentiti supera di molto quelli di possibile uso militare. Le restrizioni non equivalgono nemmeno a “Sanzioni economiche” perché, per definizione, esse sono attuate da organizzazioni internazionali o gruppo di nazioni e non da singoli stati. In questo caso Israele non sta nemmeno imponendo una “sanzione unilaterale” in quanto addirittura favorisce l’entrata dei suoi stessi prodotti, mentre, dall’altra parte, impedisce agli altri stati di scambiare beni e persone con Gaza. La chiusura che Israele sta imponendo a Gaza, nel contesto di quella che è a tutti gli effetti un’occupazione, rappresenta una “punizione collettiva” nei confronti di tutta la popolazione e quindi, secondo l’art. 33 della 4° Convenzione di Ginevra, un crimine di guerra.
È importante ricordare che il problema non è nato con l’assalto alla flottiglia, ma ben prima, con l’imposizione del blocco a Gaza e le ragioni più o meno esplicitamente addotte da Israele; ragioni che la comunità internazionale non ha mai contestato, rendendosi complice di una situazione la cui gravità è sotto i nostri occhi. Il problema non è se esista o no un’emergenza umanitaria. In fondo a Gaza nessuno muore di fame o di sete. L’attenzione dei media al blocco all’entrata di pasta o di cannella rivela l’aspetto più grottesco di questa situazione: l’impressione che tra una chiusura e l’altra tutto torni normale quando invece tali restrizioni risalgono al 1991.
È altra la fame che soffre la gente di Gaza: la fame di un legame diretto con il mondo intero, di libertà di movimento delle persone e non soltanto dei beni. Le conseguenze più tragiche di questa situazione sono forse che essa sta rafforzando lo stesso Hamas. I sostenitori della “teoria del complotto” sono convinti che fin dall’inizio questa è stata la vera intenzione di Israele per arrivare alla totale separazione di Gaza dal resto della Palestina, relegandola così nel novero delle entità terroriste da distruggere una volta per tutte.
da http://saluteinternazionale.info/2010/07/a-gaza-qualcosa-di-nuovo/