Dalla lettera aperta dei veterani Usa: «Più che di ritiro, si dovrebbe parlare di una redistribuzione delle truppe. Restano 50mila uomini, per non parlare dei 75mila contractors»
Promemoria iracheno per Obama
da Peacereporter
Veterani della guerra in Iraq scrivono al presidente, per non ripetere gli stessi errori in futuro ”Mi firmerò John, perché il mio nome non è importante. La faccia la metto da quando ho aderito a Iraq Veterans Against The War, quindi non lo faccio certo per paura. Preferisco un’identità collettiva, che parli a nome di tutti noi che in Iraq ci siamo andati, con lo zaino carico di false certezze”.
Domani, 31 agosto 2010, finisce ufficialmente la missione Iraqi Freedom. Iniziata il 20 marzo 2003, quando una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti d’America ha invaso l’Iraq per rovesciare il regime di Saddam Hussein. In pochi giorni l’esercito iracheno – già provato dalla guerra con l’Iran negli anni Ottanta e dalla Guerra nel Golfo del 1991 – va in frantumi. La statua di Saddam Hussein a Baghdad viene tirata giù il 9 aprile 2003. E arriva la prima menzogna, quella che racconta di folle plaudenti, ma che a una più attenta analisi delle immagini originarie non rende la stessa situazione raccontata dai media internazionali. Ne seguiranno mille altre di bugie. Le prime vittime, è sicuro, sono i civili iracheni. Ma anche tanti soldati Usa. Molti di loro hanno perso la vita, tanti altri resteranno invalidi per sempre. Altri ancora, come John, sono tornati a casa diversi, cambiati.
”Potrei essere un latinos o un asiatico, musulmano o cattolico, nero o indiano, non è importante. Sono uno di quelli che ha capito di essere stato usato per ammazzare degli innocenti, senza una ragione. Almeno apparente. Finisce Iraqi Freedom, ma questo non cancella l’inganno”, scrive John, rispondendo alla domanda di PeaceReporter: come racconteresti questa guerra, magari a tuo figlio? ”Rispondo come ti risponderebbero tutti quelli che, come me, hanno aderito all’associazione. E come molti altri, che magari hanno preferito tornare a casa, senza parlare dell’inferno che si portavano dentro. Alcuni sono annegati in quell’inferno, molti – purtroppo – hanno portato con sé mogli e figli”. John e gli altri hanno scritto al presidente Barack Obama che ha mantenuto la promessa elettorale di ritirare le unità combattenti entro agosto 2010. Ma Obama non è sincero fino in fondo. In primis perché l’accordo per il ritiro è stato siglato due anni fa, dall’amministrazione Bush. Secondo gli attivisti di Iraq Veterans Against The War mente anche su un altro punto.
”L’occupazione dell’Iraq continua e, più che di ritiro, si dovrebbe parlare di una redistribuzione delle truppe. Restano 50mila uomini, per non parlare dei 75mila contractors”, spiegano i veterani nella lettera aperta al presidente Usa. ”Abbiamo girato gli States in lungo e in largo, raccogliendo i pareri di tutti i ragazzi che hanno trovato nella nostra associazione un megafono per urlare la loro rabbia. Ragazzi avvicinati dai reclutatori, che ti promettono gli studi per te e i tuoi fratelli, che ti fanno vedere un futuro migliore. Nessuno ci ha mai detto che lo dovevamo conquistare il nostro futuro – scrive John – lottando metro per metro con altri poveri, altri fanatici, altri disperati. Come noi”. Ecco che nasce questa specie di promemoria, spedito dai veterani a Obama, ma che sembra pensato per restare come monito a tutta la coscienza collettiva statunitense.
”Non abbiamo reso la vita degli iracheni migliore rovesciando la brutale dittatura di Saddam”, recita la lettera aperta indirizzata a Washington. ”Anzi, l’abbiamo peggiorata. Niente acqua, niente elettricità. Il servizio sanitario e il sistema scolastico sono stati distrutti. Un milione di iracheni sono morti, quattro milioni di loro hanno perso la casa e hanno abbandonato il Paese, ormai lacerato dalle divisioni etniche e religiose, con un carico di invalidi che peserà per anni sul futuro dell’Iraq”. La fotografia impietosa della missione Iraqi Freedom – definita debacle nel titolo della lettera aperta – continua. ”Gli sfollati sono stati abbandonati in Siria, Giordania, Libano e in mille altri posti. Dove le persone non hanno nulla per sopravvivere, situazione che ha ridotto tante donne irachene nell’incubo della prostituzione”.
Non è solo il passato che indigna i compagni di John, ma anche il futuro appare un incubo.
”La situazione politica è paralizzata: si è votato il 7 marzo scorso, ma nessun governo è stato insediato. Per cosa sono morti 4400 militari americani? Per cosa sono rimasti invalidi decine di migliaia di ragazzi statunitensi? Se lo chiedono in molti, visto che solo nel 2009 sono stati 245 i veterani dell’Iraq a suicidarsi”. I veterani chiedono che chi li ha mandati a uccidere e morire risponda al Paese: ”George Bush, Dick Cheney, Condoleezza Rice, Colin Powell, Karl Rove, Donald Rumsfeld…nessuno ha pagato per questo fallimento. Nessuno ha pagato per aver autorizzato la tortura. Nessuno di loro ha spiegato agli americani come e perché hanno speso 750 miliardi di dollari dei contribuenti Usa in Iraq”.
La lettera si chiude con un appello al Congresso e all’Amministrazione Usa: ”Ritiriamo tutte le truppe e i contractors dall’Iraq, chiudiamo le basi militari. Variamo un piano di sostegno allo sviluppo e alla ricostruzione irachena, per agevolare il rientro dei profughi. Variamo un piano per utilizzare negli Usa i soldi spesi nelle guerre come quella in Afghanistan. Incriminiamo coloro che si sono macchiati di crimini contro i civili iracheni e contro l’America stessa”. L’appello è firmato da ventuno associazioni e, online, continua a raccogliere adesioni.
”Se penso di cambiare le cose? Certo che lo penso”, dice John. ”Almeno ci provo. Altrimenti cosa risponderò a mio figlio quando mi chiederà cosa abbiamo fatto in Iraq?”.
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